Attacco alla scuola

Che differenza passa tra “riformare” e “razionalizzare”? Dipende da che cosa e a qual fine. In campo “micro-economico”, razionalizzare un’azienda significa, da almeno venti anni a questa parte, riorganizzarla su basi più “leggere” riducendone drasticamente i costi: vale a dire, principalmente, precarizzando o eliminando il maggior numero di posti di lavoro.

Si dà il caso che nell’art.64 (riguardante la scuola) della legge 6 agosto 2008 n.133, di conversione con modifiche del D.L. 25 giugno n.112, la parola “riforma” non ricorre mai. C’è quattro volte, invece, la parola “razionalizzazione”, accompagnata da altre come “ridefinizione”, “revisione”, “rimodulazione”, “ridimensionamento”. E l’art.4 (“Insegnante unico nella scuola primaria”) della legge 30 ottobre 2008 n.169, di conversione con modifiche del D.L. 1° settembre n. 137 – la cosiddetta “legge Gelmini” – comincia così: «Nell’ambito degli obiettivi di razionalizzazione di cui all’art. 64 del D.L. 25 giugno 2008 n. 112…»

Chi voglia rendersi conto di quali siano realmente questi obiettivi, non ha che da leggere il comma 6 del citato art.64, dove è detto che dall’attuazione dei commi precedenti dell’articolo stesso «devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1.650 milioni per l’anno 2010, a 2.358 milioni per l’anno 2011 e a 3.188 milioni a decorrere dall’anno 2012». L’effettivo raggiungimento di questi risultati sarà monitorato – reca il successivo comma 7 – da un apposito “comitato di verifica tecnico-finanziaria” interministeriale (istruzione ed economia).

Alle disposizioni di questi due commi dell’art. 64 legge 169/2008 fa eco il comma 2-bis dell’art. 4 della “legge Gelmini”: «Per la realizzazione delle finalità del presente articolo, il Ministro dell’economia e finanze, di concerto con il Ministro dell’istruzione, università e ricerca, […] provvede alla verifica degli specifici effetti finanziari determinati dall’applicazione del comma 1 del presente articolo» (cioè appunto del comma sull’insegnante unico).

Cosa si vuole di più evidente? Non di una riforma della scuola si tratta, ma di forti tagli di spesa, alla stregua di quelli praticati da una qualsivoglia azienda che intenda sostenere la propria “competitività” con i criteri di oggi. Solo che, in materia di scuola, non siamo più nel campo del “micro-economico”, ma di un rilevantissimo “macro” sociale, economico e politico.

C’è poi da osservare che i criteri aziendalistici con cui è stata trattata la scuola, oltre a essere impropri, sono controproducenti. Il D.L 112/2008 s’intitola, nel suo insieme, a «disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria». In primo luogo, dunque, lo “sviluppo economico”. Ma le aziende e ogni altro soggetto economico sanno bene che non c’è sviluppo senza ricerca e tutti capiscono, anche se non esperti in economia, che non c’è ricerca senza istruzione e formazione di base. Tanto meno ci può essere in una società come l’attuale, ormai comunemente detta “della conoscenza”. Cercar di risanare il bilancio è cosa giusta, ma farlo a danno della pubblica istruzione (trattando insegnanti e studenti alla stregua dei tassinari, avvocati e notai nei cui confronti l’ex ministro Bersani non riuscì però a sfondare, perché più forti) è quanto di più sbagliato si possa immaginare rispetto allo “sviluppo economico”. Il titolo stesso della legge, insomma, è una contraddizione in termini, un specie di lungo ossimoro.

Giustamente, dunque, la scuola, l’università e la società civile sono insorte contro questi provvedimenti governativi, furbescamente adottati alla chetichella nel periodo estivo.

Il 4 settembre, appena tre giorni dopo emanata la “legge Gelmini”, si è costituito in Roma un coordinamento cittadino di protesta e di resistenza a livello di scuole elementari e medie, al grido: “Non rubiamo il futuro dei nostri figli!”. L’iniziativa è stata lanciata dalle RSU e dal collegio docenti del 126° circolo didattico, situato nel VI Municipio – leader Simonetta Salacone, direttrice della scuola elementare “Iqbal Masih” – e si è subito esteso come una fiammata alla maggior parte delle scuole di Roma, con forte partecipazione di insegnanti, ma anche di genitori.

Ne sono seguiti innumerevoli incontri, dibattiti, cortei, fiaccolate, “notti bianche” e altre manifestazioni pubbliche sia nelle e/o davanti alle varie scuole, sia in strade o piazze di quartieri, sia a livello cittadino e nazionale. Il 28 ottobre, ad esempio, un corteo con ironiche maschere dei “Re Magi” è arrivato davanti al Ministero per l’istruzione. Una delegazione ha consegnato una petizione alla Gelmini, con oltre 15.000 firme, che è stata protocollata dal competente ufficio, senza accorgersi del ridicolo, “Mittente: Re Magi”. E’ intervenuto anche il Consiglio nazionale della pubblica istruzione, che in un indirizzo al Ministro del 17 novembre ha espresso “fermo dissenso e viva preoccupazione”. Il 30 ottobre, un milione di manifestanti sono venuti a Roma da numerosissime scuole d’Italia.

Il 16 dicembre, nella sala consiliare del VI municipio, si è svolto un affollato incontro del movimento romano, ora più sinteticamente denominato “Non rubateci il futuro” (sito web: http://scuolaschool.spaces.live.com ). Vi si sono succeduti interventi di insegnanti e di genitori particolarmente motivati e accesi. Si è posto molto l’accento sulla necessità di non farsi ingannare da quello che è stato qualificato dai media, anche di sinistra, come un “passo indietro” del governo dopo l’incontro con i sindacati. In realtà non è stato ottenuto alcun impegno di modifica sostanziale, in sede di regolamenti di attuazione, ai provvedimenti di legge intervenuti. Perciò credere di aver riportato, se non una vittoria, almeno una “mezza vittoria”, non è esatto e comporta un rischio di smobilitazione del movimento. La battaglia deve continuare – si è deciso – precisando bene i contenuti da sostenere, almeno nei limiti consentiti dai regolamenti e facendo in modo di partecipare realmente alla loro predisposizione, evitando di essere messi di fronte ancora una volta al fatto compiuto, con ipocrite apparenze di consultazioni che, specialmente se successive, possono essere solo propaganda.

Ma purtroppo è proprio questo che ha fatto il governo appena due giorni dopo, il 18 dicembre, approvando i provvedimenti attuativi senza consultare nulla e nessuno, decidendo di non sottoporli al Parlamento e intrufolandovi – contro ogni regolarità – misure nuove e non previste.

Non s’illuda però il governo, e in particolare non s’illudano i ministri Tremonti e Gelmini, di avere costretto, così, al silenzio il mondo della scuola. Il movimento di resistenza prosegue e troverà nuove motivazioni, nuovi strumenti, nuove strade. Già l’8 gennaio, appena finite cioè le vacanze invernali, si è riunito il coordinamento romano per decidere, appunto, “nuove forme di lotta”.

A livello di studi universitari e di ricerca, la legge 133 introduce, con l’art. 16, disposizioni di estrema gravità, volte a trasformare le università pubbliche in fondazioni di diritto provato. E’ vero che, sulla carta, la decisione è lasciata ai Senati accademici, ma si può immaginare come andranno le cose. Anche da queste norme, in effetti, il governo si attende forti tagli di spesa: “Resta fermo – si legge al comma 9 – il sistema del finanziamento pubblico”, ma per ottenerlo, “costituisce elemento di valutazione […] l’entità dei finanziamenti privati di ciascuna fondazione”. E’ come dire che saranno considerate “virtuose” quelle università che si procureranno un massimo di soldi da privati (sottostando alla domanda dei mercati regionali in tema di “risorse umane”) e batteranno cassa il meno possibile allo Stato, questo e non altro essendo il gretto e miope scopo della disposizione legislativa.

Siamo dunque di fronte a una privatizzazione (per ora parziale, ma in che misura e fino a quando?) degli studi universitari, con quali conseguenze di esclusione dei giovani meno abbienti è facile capire. Gli studenti di tutt’Italia non hanno tardato a insorgere. Con lo slogan “Noi la crisi non la paghiamo” si è scatenata l’ “Onda anomala”, il cui momento fondativo a livello nazionale si è avuto con le affollate assemblee del 16 e 17 novembre alla “Sapienza” (ampia documentazione sul sito http://www.carta.org). Trattandosi appunto di universitari, si comprende – ed è ottima cosa – come il movimento non si limiti a rivendicazioni di ordine didattico o economico, ma allarghi lo sguardo ai grandi problemi economico-sociali del nostro tempo. Sul modo e sullo spirito con cui lo fanno, e sulle positive ricadute anche politiche che se ne possono sperare, rimandiamo all’ articolo dello scorso Menabò “Una nuova generazione è finalmente scesa in campo”.

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