Apprendere dal Corona virus: per un’idea diversa di benessere

Attilio Pasetto muovendo dalla considerazione che la salute e l’equilibrio ambientale sono beni più importanti della crescita fine a sé stessa, sostiene che la lezione da trarre dalla pandemia è che gli indicatori del Benessere Equo Sostenibile (Bes) debbano essere collocati sullo stesso piano del Pil al centro delle strategie di politica economica. Ciò richiede, tra l’altro, di combattere povertà e le disuguaglianze e che governi, istituzioni, cittadini, imprese adottino comportamenti responsabili.

La crisi sanitaria, economica e sociale scoppiata con la pandemia del coronavirus è il terzo evento traumatico del XXI secolo. Il primo fu quello dell’11 settembre 2001, con l’attacco alle Torri gemelle, le cui conseguenze furono le guerre americane in Iraq e Afghanistan. Il secondo è stata la grande recessione del 2008, che partì dagli Stati Uniti e trascinò tutto il mondo, ma in particolare l’Europa e l’Italia, nella più grave crisi economica dopo quella del ’29-’33. Terzo evento traumatico è appunto la pandemia del coronavirus, le cui conseguenze sono ancora incalcolabili. Dei tre eventi, che hanno caratterizzato ciascuno un decennio del secolo, quello che stiamo vivendo attualmente è sicuramente il più disastroso. La più grande catastrofe che ha colpito l’umanità dopo la seconda guerra mondiale. Se dai due eventi precedenti abbiamo imparato poco o niente, questa terribile prova, che colpisce direttamente la vita di milioni di esseri umani in ogni parte del pianeta, ci dovrà pur insegnare qualcosa.

Il 2020 sarà uno spartiacque nella storia. Per diversi motivi. Il primo, ovviamente, è la diffusione mondiale dell’epidemia e l’alto numero di morti da essa causati. Il secondo è la profonda crisi economica appena iniziata, di cui non conosciamo gli esiti ma che sicuramente sarà peggiore della grande recessione del 2008. Il terzo motivo sono i cambiamenti nei comportamenti sociali, sintetizzabili con il neologismo coniato da Gideon Lichfield del Mit di shut in economy, ossia di un sistema di relazioni basato sul distanziamento sociale, sul lavoro da casa e sulle attività online (We are not going back to normal).

Con il coronavirus dovremo convivere ancora a lungo e la battaglia non sarà vinta fino a quando gran parte della popolazione mondiale non sarà vaccinata. Per il vaccino occorrerà attendere ancora almeno un anno, forse un anno e mezzo. E comunque anche dopo rimarrà a lungo il timore di essere aggrediti da altri virus e malattie. Ci dovremo adattare a una “nuova normalità”, che sarà molto diversa da prima. Il problema del distanziamento sociale, da un lato, minaccia la sopravvivenza o promette la radicale trasformazione di intere attività, come i viaggi, il turismo, le manifestazioni di massa, culturali, sportive, ricreative, che così fortemente hanno caratterizzato la nostra epoca. Dall’altro, imporrà cambiamenti nel modo di produrre e di lavorare anche in tutti gli altri settori. Ma, oltre all’economia, cambierà notevolmente lo stile di vita delle persone, il loro modo di socializzare, di divertirsi, di impiegare il tempo libero, di rapportarsi con le tecnologie, che tenderanno a diventare sempre più importanti. E tutto ciò impatterà inevitabilmente sul sistema politico e sul rapporto tra politica e cittadini.

Ma ci sono anche altre ragioni che fanno pensare di essere in presenza di una svolta epocale. Con la pandemia stanno infatti venendo al pettine i tanti nodi ereditati dai decenni precedenti. Primo fra tutti il problema della salute. In un Rapporto del 2019, intitolato A World at Risk, il Global Preparedness Monitoring Board (Gpmb) – organismo indipendente, nato su impulso delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – aveva messo in guardia sull’aumento dei rischi di emergenze sanitarie. Nel Rapporto, di cui si è già occupato il Menabò,  si parla della minaccia di una pandemia, provocata da un patogeno respiratorio – capace di uccidere dai 50 agli 80 milioni di persone e di cancellare il 5% dell’economia mondiale – che i sistemi sanitari nazionali non sarebbero stati in grado di affrontare. Ma nessun governo ha preso in seria considerazione il grido di allarme lanciato dal Gpmb.

Illuminante è il caso italiano, dove la spesa sanitaria pubblica ha subito tagli sistematici a partire dal 2008, con l’eccezione dell’ultima manovra finanziaria che ha stanziato 3,5 miliardi a favore del Fondo sanitario nazionale per il 2020-2021. Impressionante, ancor più dell’andamento della spesa corrente, è il crollo degli investimenti pubblici nel settore, passati dai 3,4 miliardi nel 2010 agli 1,4 miliardi nel 2017, con una caduta di quasi il 60%. (Si veda sul Menabò l’articolo di Gianfranco Viesti del 28 marzo scorso).

Nel suo Rapporto il Gpmb, oltre a sottolineare i rischi di nuove pandemie, collega questi rischi ai disastri ambientali, sostenendo come “una combinazione di trend globali tra cui il meteo estremo e instabile” abbia aumentato di molto il rischio di gravi malattie. Il nesso tra ambiente e salute è ormai diventato evidente e le epidemie stesse possono essere legate ai cambiamenti climatici. Coronavirus e cambiamento climatico hanno entrambi le stesse cause: la dimensione della popolazione terrestre, che ha raggiunto i 7,7 miliardi, e lo sfruttamento della natura per accrescere la produzione e i consumi. La deforestazione, l’aumento della temperatura della Terra, gli eventi estremi contribuiscono a creare nuovi germi e alimentano la diffusione di malattie infettive, come la malaria, anche in aree che fino a poco tempo fa non erano considerate a rischio. Ci sono inoltre prove crescenti che attività umane, come l’agricoltura e l’allevamento, sono serbatoi di diffusione delle malattie trasmesse dagli animali all’uomo, come nel caso del coronavirus. Come sostiene David Quammen, autore nel 2012 di un libro profetico sull’argomento, il rischio di spillover, ossia il passaggio di un virus dal suo “ospite” non umano al primo “ospite” umano, da cui parte il contagio, è in aumento proprio a causa della crescita della popolazione e della distruzione delle biodiversità. Anche i più incalliti negazionisti si devono rendere conto che la battaglia per la salvezza di un pianeta vivibile per l’uomo va affrontata con la massima urgenza.

Le malattie e le calamità naturali colpiscono tutti, ma in particolare mettono in ginocchio i più deboli, i poveri, coloro che per la crisi perdono il lavoro. Questa è un’altra faccia, correlata a quelle del disastro sanitario e ambientale, del disordine che regna nel mondo e che lo stesso Gpmb nel suo Rapporto sottolinea. Ne deriva, se si vuole salvare il futuro dell’uomo sulla Terra, che è venuta l’ora di fare i conti con un’idea di sviluppo e di benessere diversa da quella che abbiamo avuto finora. Meno esasperata, più a misura d’uomo, che metta tra i suoi principali obiettivi, la salute, l’equilibrio ecologico e la creazione di un sistema economico-sociale inclusivo. In tale ottica la produzione materiale di beni e servizi deve essere vista come un mezzo per raggiungere il fine dello “stare bene”, o, in altri termini, quello di un’accettabile qualità della vita.  Certo – si dirà – dopo il crollo del Pil che avverrà in questo primo semestre del 2020, occorrerà ripartire con robuste dosi di crescita. Questo è vero, ma sarà solo una fase transitoria. Anche lunga due-tre anni, alla fine della quale però si dovrà affiancare al Pil, come faro degli indicatori economici, il Bes (Benessere equo sostenibile), mettendo finalmente nel mirino i diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite. Che comprendono: la lotta alla povertà e alla fame, la salute, l’istruzione, la parità di genere, l’acqua pulita e l’igiene, l’energia sostenibile, il lavoro dignitoso, l’innovazione, la riduzione delle disuguaglianze, la possibilità di vivere in città e comunità inclusive e sicure, il consumo e la produzione responsabili, la lotta al cambiamento climatico, la difesa della vita sulla terra e sott’acqua, la pace e la giustizia, la cooperazione tra i popoli. Purtroppo per molti di questi obiettivi l’Italia – come sottolinea il Rapporto 2019 dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile – registra nel 2018 un arretramento rispetto al 2010. In particolare per la povertà, l’acqua e le strutture igienico-sanitarie, la condizione occupazionale, le disuguaglianze, le condizioni delle città, lo stato degli ecosistemi terrestri e marini. Anche l’Europa e gli altri Paesi del mondo su molti obiettivi sono in forte ritardo.

Per raggiungere questi obiettivi tutti i Paesi si dovranno impegnare duramente, ciascuno facendo la propria parte e in collaborazione tra loro. La pandemia del coronavirus ci sta insegnando che di fronte a un’emergenza planetaria non sono ammessi comportamenti da free rider né da parte dei governi né da parte degli individui. “Nessuno si salva da solo” ha detto Papa Francesco. Mai verità è stata più lampante come in un momento come questo.

Ma affinché l’obiettivo del Bes sia credibile e venga perseguito realmente, non limitandosi a un mero elenco di azioni scritte sulla carta, come in gran parte avvenuto finora, occorre che i comportamenti di tutti – governi, istituzioni, cittadini, imprese – siano ancorati a un fondamento etico, ispirandosi ai principi morali della responsabilità sociale e della solidarietà. Responsabilità sociale significa che per ogni azione che noi facciamo dobbiamo pensare agli effetti che essa può avere sugli altri. Non soltanto per il dovere di obbedire, laicamente, a un imperativo categorico che nasce nella nostra coscienza oppure, cristianamente, a un obbligo morale che ci viene dalla fede in Dio. Ma semplicemente per riconoscere che soltanto attraverso la collaborazione di tutti e la reciprocità delle azioni individuali si può raggiungere il bene comune.

A volte però non basta tenere un comportamento responsabile per rimediare a una situazione drammatica, ma occorre anche manifestare concretamente la solidarietà nei confronti di chi si trova in difficoltà. E’ questo un valore ben presente nelle nostre comunità, come questa tragedia dimostra, ma bisognerà ricordarsi di coltivarlo anche quando saremo tornati alla normalità nei confronti delle persone più svantaggiate e degli immigrati.

Se si vuole dunque che la lezione della pandemia venga recepita, non c’è alternativa a una strategia che punti in direzione del benessere equo sostenibile, imperniata sui principi di responsabilità e solidarietà. In caso contrario la crisi metterà a repentaglio la coesione sociale, colpendo soprattutto i più deboli. Di questo si dovrebbe ricordare anche l’Europa, che senza basi più profonde e più solide di quelle rappresentate dal mercato e dalla moneta comuni è destinata ad affondare.

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