Annodare i fili della sinistra

Il fatto che siano state convocate tre “costituenti” – per il Partito democratico, per il Partito socialista, per la sinistra alternativa (la Cosa rossa) – ci dice come la sinistra nel suo complesso non riesce, neanche dopo il 1989, ad unirsi in un solo grande partito. Anzi, proprio dopo l’89, quando è venuta meno la principale ragione di fondo della sua divisione, paradossalmente si è ancora più divisa e frantumata. Eppure all’inizio di questa legislatura tutti i partiti che si definiscono di sinistra, socialisti, comunisti, ambientalisti, si sono ritrovati insieme in una maggioranza e in un governo, dove collaborano con un partito di centro, la Margherita, guidato da un cattolico-democratico come Prodi. Insomma, le antiche contrapposizioni – riforme o rivoluzione, con l’Urss contro si essa, con il campo antimperialista o con l’anti-imperialismo e, più specificatamente, con gli Usa o contro di loro, in Europa o no – sono sostanzialmente superate. Ma le separazioni restano.

La storia ha risolto il grande duello che nel secolo scorso divise la sinistra: il socialismo democratico potrebbe essere l’approdo di tutti e il Pse la casa in cui i partiti socialisti – ognuno con la propria storia e individualità – si dovrebbero ritrovare. Invece, in Italia non è così: nasce un Partito democratico che non si colloca nel socialismo europeo e nasce una sinistra alternativa che, anch’essa, non si riconosce in quella famiglia. E nel Pse rimane solo la Costituente socialista. La quale non è solo l’insieme della diaspora ma non è certo ancora un grande partito espressione della sinistra.

In questo quadro, l’anomalia italiana, a mio avviso, è determinata soprattutto nella nascita del Partito democratico, in cui si trovano pezzi del Pci, della Dc e qualche residuato della diaspora socialista. La ragione principale di questo partito è stata motivata dal fatto che né i Ds né la Margherita riuscivano a crescere e, anzi, come ebbe a scrivere Scalfari su “Repubblica” erano al “capolinea”. E per questo dovevano fondersi. Cioè, anziché esaminare le ragioni per cui i due gruppi dirigenti avevano portato le loro formazioni nel governo, ma anche al capolinea, si è cercata una strada riproporsi come “novità”, come risposta alla frantumazione e all’esigenza di dotare la coalizione di centrosinistra di un’asse portante riformista e robusto. L’“asse”, però, nasce dopo una campagna mediatica che non ha precedenti nella storia politica italiana: “Corriere” e la “Repubblica”, insieme in questa occasione, hanno fatto da battistrada a tutta la stampa, tranne rare occasioni, e alle tv. Una campagna che si è intensificata con la candidatura di Walter Veltroni a leader del Pd. Una campagna che ha teso a presentare l’operazione Pd come liberatoria rispetto ai vincoli e al ruolo condizionante che avrebbe avuto la sinistra radicale nella coalizione governativa. La nascita del partito quindi da un lato veniva presentata come un fatto “epocale”, un superamento delle “vecchie culture novecentesche” della sinistra, una sintesi del riformismo cattolico e di quello socialista; dall’altro, più terra-terra e con più verità, come un’operazione politica legata alla situazione del governo e ai rapporti tra le forze che compongono la maggioranza. Tuttavia anche su questo nodo – il rapporto tra Pd e sinistra radicale nella maggioranza governativa – non si è mai fatto un bilancio e un’analisi delle ragioni per cui la nave governativa fa acqua da tutte le parti. E perché perde consensi tra le masse popolari. Prodi in tutte le occasioni ha teso a difendere la validità di quella alleanza. La nascita del Pd è invece stata salutata come la fine di questa alleanza. Veltroni infatti ha detto che sarà il Pd (e solo esso) ad elaborare un programma al quale gli alleati potenziali possono solo aderire o rifiutare. E il discorso sulla legge elettorale è viziato da questo ruolo egemone che si è auto-assegnato il Pd di Veltroni.

Ma, per tornare al discorso su cosa è il Pd, le cronache sulle primarie e sulla costituente “eletta” con liste bloccate e la nomina dei segretari regionali avvenute in un clima di scontri tra apparati e lobby, non di partito ormai inesistenti, ma costruite attorno agli enti locali (sindaci, assessori) o società pubbliche o semi pubbliche, con consulenti e clienti, sono significative. A questo proposito non si è sottolineato il fatto che i candidati segretari regionali del Pd erano, in alcune regioni, sindaci di grandi città (Bari, Pescara, Messina), per non parlare del leader del partito, che è il sindaco di Roma. In Calabria – dico Calabria – il candidato eletto segretario regionale è l’attuale viceministro degli Interni. Insomma un partito che si propone di rinnovare e modernizzare le istituzioni e il sistema politico, usa le istituzioni come trampolino di lancio per incarichi di partito e gli eletti continuano a esercitare il ruolo di sindaci e di segretari di partito. Ma i sindaci, secondo una concezione democratica, non esprimono gli interessi, la storia e il volto di una città, cioè non sono sindaci anche della minoranza? Non si tratta di dettagli, perché questi fatti esprimono una concezione della politica e delle istituzioni ben precisa. Insomma quale è la cultura politica del Pd? A questa domanda non si risponde. Intanto, si dice, eleggiamo i leader, poi facciamo il partito e poi diamo ad esso una cultura. Veltroni ha nominato una commissione per definire l’identità del Partito!

La povertà del manifesto di Orvieto, carta politico-ideale del Pd, e l’assenza di un dibattito politico-culturale che accompagnasse la formazione del partito, qualifica tutta l’operazione come “stato di necessità” rispetto alla lotta politica in corso. Nel partito infatti opera una mediazione su temi politici essenziali – la riforma elettorale, l’intervento pubblico e il ruolo dello Stato nell’economia, la libertà di ricerca scientifica, e i temi eticamente sensibili – come se si trattasse di una coalizione di governo e non di un partito dove si trovano persone che condividono non solo un programma, ma valori e un’idea della società. Quale avvenire può avere questo partito e quali sono le alternative per chi, anziano o giovane, pensa alla sinistra come espressione di quella parte della società che si batte per il progresso e l’eguaglianza?

Il Pd può avere un futuro solo se a competere con esso non ci sarà una forza consistente, espressione della storia, della cultura, delle battaglie, vinte o perse, della sinistra italiana. Un partito che sappia cogliere le contraddizioni del capitalismo di oggi, quello globalizzato, quello con cui, in passato, nel bene e nel male, hanno fatto i conti il movimento operaio e i partiti socialisti e comunisti con Marx e dopo Marx? Voglio dire che non penso che il Pd, così com’è, possa avere un avvenire come forza che esprime le esigenze della sinistra italiana.

Tuttavia oggi non c’è sulla scena una forza politica in grado di costituire un’alternativa e di competere virtuosamente col Pd. Quanti sono i militanti che provengono dal Pci, dai Ds che hanno aderito con rassegnazione al Pd perché non c’è un’alternativa credibile e consistente? Molti. La Costituente socialista, è stato detto dai promotori, non vuole essere la ricomposizione della diaspora del Psi. In effetti, non solo l’adesione del gruppo di Angius che, con Mussi, non ha aderito al Pd, ha un significato: per la prima volta gruppi di giovani appaiono interessati non solo alla storia della sinistra ma al suo avvenire. Ma si tratta minoranze. Il problema di un partito socialista è quello di essere al tempo stesso un partito di popolo.

Mussi, e i suoi compagni, collocandosi in una specie di limbo politico, non danno un segnale forte che in Italia è possibile costruire un partito socialista che sia in grado di esprimere il nucleo vitale di tutta la sinistra italiana. Un partito che potrebbe costituire un riferimento per chi, nel Pd e in Rifondazione, pensa che la sinistra possa avere un ruolo autonomo, come forza di governo anche quando è all’opposizione. Una forza che abbia la capacità di esprimere una politica cui possano guardare con interesse soprattutto i lavoratori e le nuove generazioni. Ho fatto un riferimento a Rifondazione comunista perché penso che questo partito così com’è, fuori dal socialismo europeo, con un richiamo astratto e senza riferimenti al comunismo, non può essere un’alternativa credibile per quei militanti di sinistra che sono nel Pd e hanno militato in una forza che diceva di volere approdare nell’alveo del socialismo europeo. Per concludere, io penso che in questa fase occorre fare una battaglia politica e culturale rivolta alla sinistra del Pd, alla Costituente socialista, alla Sinistra democratica, a Rifondazione comunista, per annodare tutti i fili che possono formare il tessuto di un partito socialista che abbia i caratteri cui ho accennato. E non bisogna perdere di vista i processi politico-culturali che attraversano il movimento organizzato dei lavoratori, il sindacato. Il quale oggi non ha una sponda politica: dalla cinghia di trasmissione al nulla c’è l’autonomia della politica e del sindacato che per la sinistra non può però tradursi in separatezza. È un’opera difficile, ma necessaria. Il Pd, così come è nato, non può riproporre e rinnovare la storia e il futuro della sinistra italiana. La vischiosità delle formazioni esistenti, la sclerosi dei suoi gruppi dirigenti rende difficile quest’opera. Ma occorre provare.

Emanuele Macaluso

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