Ancora su pandemia e razionalità. Regole e comportamenti individuali

Marcello Basili e Maurizio Franzini tornano sul tema della razionalità delle decisioni, individuali e collettive, nella pandemia e del ruolo, in tale contesto, dell’incertezza, soffermandosi in particolare su un fenomeno poco considerato: la persistenza di problemi di salute nei contagiati non più positivi. Basili e Franzini riportano le stime della diffusione di tale fenomeno nonché dei rilevanti costi economici che genera e invitano a tenerne maggiormente conto nel prendere decisioni a diversi livelli e in vari ambiti, incluso quello della ricerca.

La narrazione della pandemia ci dice di oltre 71 milioni di contagi e di circa 1,6 milioni di morti nel mondo. Abbastanza sorprendentemente gli Stati Uniti sono al primo posto per numero di contagi e registrano oltre il 20% dei decessi (oltre 297mila); ma nei primi 10 posti di questa sciagurata classifica troviamo Regno Unito, Italia, Francia e Spagna, cioè alcuni tra i paesi più industrializzati del mondo. Se considerassimo non i valori assoluti, ma quelli relativi alla popolazione la tragica classifica sarebbe questa: Belgio al primo posto, Italia terza, Spagna e Regno Unito, al quarto e settimo posto, e gli Stati Uniti all’undicesimo posto; dunque, i primi posti sarebbero occupati da 5 paesi del G7. Ciò suggerisce che il problema non sta nel livello di reddito e di ricchezza, né nella qualità dei sistemi sanitari, ma soprattutto nelle norme fissate dai governi e soprattutto nei comportamenti individuali (accettazione e rispetto delle regole di precauzione).

La recente esperienza italiana lo conferma. Il 1 agosto i morti da Covid-19 erano 35.145, il 13 dicembre i decessi sono 64.036, il tasso di mortalità per Covid-19 è passato da 583 per milione di abitanti a 1.063 per milione di abitanti. Tradotto in termini attuariali, il tasso di mortalità grezzo, che – essendo riferito all’intera popolazione – non è il tasso di letalità della malattia (che attualmente è di circa ill 3,5%), è quasi raddoppiato crescendo dal 5,8/10.000 al 10,6/10.000 o 1/1000. Sembra un rischio molto basso, ma se lo confrontiamo con il tasso standardizzato di mortalità sul lavoro che è 1/100.000 nel 2017, scopriamo che è oltre 100 volte più alto e forse ci rendiamo conto della sua reale misura ed enormità. Sembra obbligata la conclusione che i comportamenti tenuti durante l’estate hanno avuto gravissime conseguenze sul piano sanitario e sociale. Quei comportamenti sono, naturalmente, il frutto delle norme introdotte dagli organi di governo e del grado di adesione ad esse da parte dei singoli individui. Si può presumere che nel fissare le prime e nel decidere i secondi siano stati commessi errori di ottimismo rispetto alla dinamica e alla resistenza del virus.

Partiamo dai comportamenti. Come in molte altre cose, anche nei comportamenti rispetto alla pandemia non siamo tutti uguali. Vi è chi si mostra poco sensibile alle raccomandazioni alla prudenza, al distanziamento sociale e all’uso di dispositivi individuali di protezione e chi, invece, prende molto sul serio quelle raccomandazioni e forse fa anche di più. Stando alle informazioni di cui si dispone ad adottare il primo tipo di comportamento sarebbero soprattutto i ‘giovani’, intesi come un’ampia classe che ricomprende quanti hanno un’età tra i 14 e i 50 anni. Possiamo chiamare questa classe dissipativa. Al contrario, i più anziani – ma forse anche i bambini – adottano in modo nettamente dominante il secondo tipo di comportamento, cosicché potremmo definire conservative le classi di età in cui rientrano.

Una domanda che vale la pena di porsi è se comportamenti così diversi possano essere considerati entrambi razionali, anche tenendo conto dell’elevato numero di contagi e morti quotidiani. La risposta non può prescindere dalle preferenze degli individui e dalla loro percezione dei rischi – innanzitutto, ma non necessariamente soltanto, per se stessi – derivanti dai loro comportamenti.

La teoria economica assume che gli individui preferiscano il più al meno e che siano in grado di comparare coppie di scelte possibili (principio di razionalità). Anche quando questa comparazione risulta incompleta a causa di una conoscenza parziale (razionalità limitata), la teoria economica può aiutare a individuare la scelta individuale migliore, ovviamente sulla base delle sue preferenze. Un elemento essenziale è, come abbiamo già argomentato sul Menabò, il grado di incertezza associato alle conseguenze delle proprie scelte. Valutazioni diverse a questo riguardo possono portare a scelte diverse da parte di individui con preferenze identiche. Peraltro, nel nostro caso, la diversità di valutazione può essere giustificata dalla diversa esposizione all’evento più dannoso (contagio, malattia e sue estreme conseguenze) dovuta, ad esempio, proprio all’età.

Ne consegue che scelte diverse tra le generazioni possono derivare da preferenze diverse – o meglio da un diverso saggio marginale di sostituzione tra l’utilità della vita e, passateci il termine, utilità della morte, o meglio dell’eredità che lasciamo ai nostri congiunti – nonché da una diversa valutazione del rischio. I giovani, ecco il punto, probabilmente percepiscono un rischio minore – soprattutto per sé stessi e forse anche in generale – e ciò è sufficiente a spiegare il loro comportamento anche, per così dire, a parità di preferenze con i più anziani. Ma è giustificata questa percezione? E quanto potrebbe essere rilevante, dal punto di vista sociale, la considerazione che essa porta a sottovalutare i rischi, anche soltanto quelli degli altri?

A giustificazione di questi difformi comportamenti delle coorti di popolazione si può, infatti, addurre il fatto che la struttura dei decessi è molto concentrata tra i molto anziani ovvero, come e più del caso delle morti sul lavoro, nelle coorti di età elevate. Infatti, in Italia, l’età media dei deceduti è di 82 anni mentre la mediana è di 80 anni. Ma vi è altro. L’età mediana dei contagiati è di 48 anni, anche se in quella coorte di età i decessi sono di poche centinaia di individui.

Quindi di Covid-19 ci si ammala a tutte le età: i contagiati tra 0-19 anni sono il 12% del totale a fronte di una coorte che conta per il 14% della popolazione, ma nell’autunno la percentuale ha superato il 17%. E il ‘costo’ del contagio può essere molto rilevante anche se non ha un’evoluzione tragica. Infatti, si tende a sottovalutare che è elevato il rischio di perdurante disabilità dopo il contagio e anche dopo il superamento dell’infezione. Sulla base di studi svolti in diversi paesi, si stima che solo il 12,6% dei ricoverati non accusa conseguenze dopo la remissione dell’infezione, e che anche tra coloro che hanno avuto forme lievi o moderate di Covid-19 e che non sono stati ospedalizzati, i cosiddetti long hauler – cioè coloro che non riescono a guarire completamente dalla malattia – rappresentano una percentuale compresa tra il tra il 10% e il 30% del totale.

Questo rischio di persistente disabilità dovrebbe essere considerato al momento di definire in modo razionale il comportamento individuale. Se non altro per la mancanza di informazioni al riguardo, è dubbio che ciò avvenga e anche, ma non soltanto, per questo se ne dovrebbe tenere maggiormente conto a livello di decisione sociale, cioè di individuazione dei comportamenti consentiti e di definizione delle regole. Dal punto di vista sociale è utile fare qualche calcolo.

Proviamo a fare due conti, aggiornando i dati sulla mortalità con le stime sulla disabilità e utilizzando Valori Statistici della Vita (VSV) più vicini agli standard internazionali utilizzando alcuni articoli apparsi nel numero speciale dedicato al Covid-19 della rivista Journal of Risk and Uncertainty pubblicato a novembre 2020.

Kniesner e Sullivan sulla base delle proiezioni del CDC (Centres for Disease Control and Prevention) di Atlanta stimano un costo dell’ospedalizzazione dei malati Covid-19 in USA compreso tra 2.200 miliardi e 5.700 miliardi di dollari, ovvero il 30% del PIL.

Uno dei massimi esperti nel campo, Kip Viscusi stima un VSV in dollari di 11 milioni per gli Stati Uniti, 7,82 per il Regno Unito, 7,1 per l’Italia e 6,7 per la Spagna, mentre il costo delle disabilità viene stimato tra il 10%-40% del valore totale delle morti.

Applichiamo quindi le stime di Viscusi, convertite in euro, per le morti e l’intervallo di stima per il valore delle disabilità ai dati europei.

Il 13 dicembre 2020 il costo stimato in miliardi di euro dell’epidemia di Covid-19 per mortalità e disabilità in Italia, Regno Unito e Spagna è il seguente:

Costo mortalità

Costo disabilità 10%-40% costo mortalità

Costi umani totali

% del PIL
Italia 374 37,4-149,6 411,4-523,6 23%-29,2%
Regno Unito 413 41,3-165,2 454,3-578,2 18%-23%
Spagna 261,8 26,2-104,7 288-366,5 23%-29,4%

Le morti e disabilità rappresentano una riduzione dello stock di capitale umano di un paese, che è un fattore indispensabile dello sviluppo e che in tutti i paesi industrializzati è un multiplo dello stock di capitale fisico. Considerando che l’Italia ha una dotazione di capitale umano più bassa di quella di USA, Regno Unito e Spagna, in proporzioni che vanno da 8 a 10 verso USA e Regno Unito e 8 a 11 verso la Spagna, gli effetti sullo sviluppo economico e quindi sulla coesione economica e sociale del paese potrebbero essere disastrosi.

Se a questi dati si aggiungono le previsioni di flusso riguardanti la variazione del PIL – stimata, relativamente al 2020, per l’Italia e il Regno Unito attorno a -10%, e per la Spagna superiore al 12%, con un rapporto debito/PIL attorno al 160% per l’Italia e al 120% per il Regno Unito e la Spagna ne emerge una situazione che forse non è esagerato definire apocalittica e che può avere conseguenze economiche, sociali e sanitarie persistenti nel tempo, tali da portare la lancetta della storia indietro di diversi decenni.

Peraltro, il rischio di persistenti e diffuse disabilità suggerisce che la ricerca di farmaci e cure efficaci dovrebbe essere orientata anche in questa direzione, in modo da assicurare a una quota non piccola di contagiati guariti che non soffriranno a lungo per le conseguenze del virus. Non sappiamo quanta attenzione il mondo della ricerca stia dedicando a questo problema ma ci auguriamo che non sia poca e che possa crescere.

Concludiamo con una nota di preoccupazione. È la preoccupazione che decisioni individuali e collettive, dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche, vengano prese senza la piena consapevolezza dei rischi che possono derivarne per sé stessi e per la società, a seconda dei casi. E senza tenere in adeguata considerazione che quelli che appaiono sacrifici nell’immediato possono essere, in realtà, barriere che impediscono a un ben più tragico futuro – non soltanto in termini sanitari – di invadere le vite di tutti.

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