Ancora su mercato del lavoro e politiche del governo. Abbastanza bene l’occupazione permanente. Ma retribuzioni e produttività?

Giuseppe Croce analizza le dinamiche dell’occupazione nel corso del 2015 e afferma che, in base ai dati dell’INPS, la creazione di posti di lavoro si può considerare tutt’altro che trascurabile. Croce ritiene, però, che questa positiva dinamica dipenda solo in parte dalle politiche del Governo e, d’altro canto, richiama l’attenzione sulle retribuzioni dei nuovi assunti nell’anno. Il loro basso livello fa temere che sul fronte della qualità dei nuovi posti di lavoro e della produttività le tendenze siano tutt’altro che positive

Vale la pena di tornare ancora una volta, avendo dati ormai definitivi, a chiedersi cosa è accaduto all’occupazione dipendente italiana nel corso del 2015. L’anno scorso, infatti, il governo ha adottato due importanti provvedimenti destinati al lavoro dipendente. Innanzitutto, a partire dall’inizio dell’anno, è stato concesso un esonero contributivo triennale, fino a un importo massimo di 8.060 euro per anno, sulle assunzioni a tempo indeterminato e sulle trasformazioni dal lavoro a termine a quello permanente. In aggiunta, il nuovo contratto a tutele crescenti, in vigore dall’inizio di marzo, ha semplificato le regole e ridotto i costi del licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato nelle imprese con più di 15 addetti.

Dal combinato dei due interventi si può desumere che gli obiettivi perseguiti fossero due. Da un lato, si voleva incentivare l’occupazione permanente favorendo un travaso dai contratti a termine verso quello a tutele crescenti, cercando di porre rimedio, in questo modo, al dualismo del mercato del lavoro italiano. D’altro lato, il governo intendeva dare una spinta, anche in considerazione delle previsioni di debole ripresa della congiuntura, alla crescita dell’occupazione dopo gli anni in cui era prevalsa la distruzione di posti di lavoro. Ebbene, come sono andate le cose? In attesa di studi in grado di stimare l’impatto delle politiche, possiamo leggere i dati disponibili.

La fonte da cui è opportuno partire è quella dei dati amministrativi dell’Inps basati sulle dichiarazioni mensili delle imprese a scopi contributivi. Anche l’Istat fornisce dati, su base campionaria, relativi all’occupazione. In linea generale, vale il principio che è preferibile tenere conto di più fonti, sia pure non concordanti, piuttosto che di una sola. Tuttavia, se lo scopo è misurare l’andamento dell’aggregato occupazionale oggetto delle politiche del governo, i dati Inps presentano alcuni vantaggi. Innanzitutto, considerano l’occupazione dipendente privata, mentre il dato Istat fino ad oggi pubblicato si riferisce all’intero aggregato dell’occupazione italiana, quindi comprende anche quella pubblica, esterna al perimetro di applicazione delle misure del governo. I dati amministrativi, inoltre, presentano un’accuratezza maggiore rispetto a quelli campionari, almeno nel breve periodo. Inoltre, il dato Inps, a differenza di quello Istat, registra anche eventuali emersioni di lavoro irregolare. D’altro canto, poiché l’Inps contabilizza i flussi di attivazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro, che nel corso di un anno possono riferirsi per più di una volta alla stessa persona, per misurare l’andamento dell’occupazione in termini di persone si deve considerare il saldo tra i due flussi. Ciononostante, può rimanere una discrepanza tra le variazioni dei contratti e delle persone occupate se qualcuno è impegnato contemporaneamente in più contratti di lavoro.

In base ai dati Inps l’occupazione dipendente privata a tempo indeterminato nel corso del 2015 (ovvero a tutele crescenti dal 7 marzo 2015) ha compiuto un salto pari +846mila unità, risultato di 1.934mila assunzioni (+52% sul 2014), 654mila trasformazioni di lavoro a termine in lavoro permanente (+63%), e 1.742mila cessazioni (+1%). Il totale dei dipendenti privati, tenuto conto del calo di quelli a termine, è cresciuto di 563mila unità. Su un totale di quasi 2,6 milioni tra assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, sono poco meno di 1,6 milioni coloro che hanno usufruito dell’esonero contributivo. La creazione di lavoro a tempo indeterminato, quindi, c’è stata ed è stata robusta (il confronto con i due anni precedenti è piuttosto impressionante, come mostra la Figura 1) ed appare tanto più robusta se si considera che nel corso dello stesso anno è proseguita sia la tendenza all’aumento delle ore lavorate per dipendente (+1,3% nell’industria e + 0,2% nei servizi di mercato rispetto al 2014 nelle imprese con almeno 10 dipendenti) sia quella al riassorbimento della cassa integrazione (la cui incidenza nel corso dell’anno è calata di 18 ore ogni 1000 lavorate nell’industria e di 5,3 nei servizi di mercato).

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Anche la quota di assunzioni a tempo indeterminato sul totale delle assunzioni è aumentata in misura apprezzabile, dal 26% del 2014 al 35% del 2015. Un aumento non trascurabile, se si considera che l’esonero concesso sui rapporti a tempo indeterminato non scoraggiava del tutto le assunzioni a termine dal momento che ad esso si poteva accedere semplicemente trasformando quelle assunzioni in rapporti permanenti entro dicembre 2015.

Ma in che misura questa crescita dell’occupazione è spiegata dalle politiche adottate? Per rispondere a questa domanda servono studi in grado di confrontare la crescita osservata con il suo controfattuale, vale a dire la crescita che si sarebbe verificata in assenza delle politiche.

Sebbene sia difficile fornire dati precisi, è chiaro che una parte considerevole della crescita non è attribuibile agli interventi del governo ma rappresenta piuttosto un effetto “peso-morto”: nuovi rapporti che le imprese avrebbero attivato anche in mancanza dell’esonero contributivo e senza le novità del contratto a tutele crescenti. Ancora più evidente è il fatto che la crescita del 2015 è gonfiata sia dalle assunzioni programmate dalle imprese a fine 2014 e ritardate allo scopo di usufruire dell’esonero sia da quelle anticipate, con lo stesso scopo, dal 2016 a fine 2015 (a dicembre 2015 le assunzioni a tempo indeterminato sono state 306mila, quasi il doppio rispetto alla media dei dodici mesi dell’anno).

Volendo azzardare una valutazione necessariamente impressionistica, è verosimile che la quota di crescita occupazionale attribuibile agli effetti delle politiche sia comunque rilevante, seppure nettamente al di sotto dei saldi Inps, anche al netto degli effetti spuri. Tuttavia è facile prevedere che la spinta proveniente dalle politiche si indebolirà già quest’anno per effetto della rimodulazione meno generosa dell’esonero (il cui limite massimo attualmente è di 3.250 euro l’anno). Dato l’ingente costo della misura per le finanze pubbliche (come segnalato da Fana e Raitano nello scorso numero del Menabò), difficilmente essa poteva protrarsi a lungo.

Ma, al di là del dato quantitativo, meritano attenzione un paio di altre osservazioni. Venendo meno la spinta dell’esonero contributivo, il superamento del dualismo del mercato del lavoro rimane in agenda. Esso potrà essere strutturalmente affrontato solo con la realizzazione di un sistema ben bilanciato di flexicurity basato su flessibilità, servizi, formazione e sussidi. Le previsioni del Jobs Act che vanno in questa direzione sono ancora di là dall’essere pienamente implementate e testate.

Infine, dagli stessi dati Inps un’ombra si allunga sulla performance del mercato del lavoro italiano del 2015. Le retribuzioni medie mensili lorde dei nuovi assunti a tempo indeterminato sono calate del 2%, a 1882 euro, rispetto all’anno precedente. Come mostra la Figura 2 le assunzioni si sono prevalentemente addensate nelle classi retributive medio-basse, una fascia compresa tra i 1.250 e i 2.000 euro lordi, mentre la loro incidenza relativa è diminuita in quelle sotto i 1.250 e in quelle sopra la media.

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Tenendo conto che meno di 1 su 4 dei nuovi assunti con un contratto permanente ha meno di 30 anni, mentre gli altri sono tutti adulti (per il 30% tra i 30 e i 39 anni e per oltre il 45% dai 40 anni in su), è d’obbligo chiedersi quali caratteri abbia la nuova domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane all’uscita dalla lunga e profonda recessione. Quale riallocazione del lavoro sta avvenendo? Dove sono i segni di una auspicabile fase di rinnovamento dell’economia dopo la dolorosa “pulizia” di imprese e posti di lavoro degli anni scorsi? Non si scorgono tra i dati relativi al 2015, accanto al salto di occupazione, indizi di un qualche sussulto nei livelli della produttività del lavoro. Anche secondo l’Istat le retribuzioni di fatto per unità di lavoro (ULA), sebbene in crescita dello 0,4% nell’industria, sono risultate in leggero calo dello 0,2% sul totale delle attività dell’industria e dei servizi di mercato.

Paradossalmente, piuttosto che negare la crescita dei posti di lavoro, forse si deve temere che l’elasticità dell’occupazione rispetto al prodotto nel 2015 sia risultata perfino “eccessiva”, con un aumento dell’occupazione che, data la flebile ripresa della domanda aggregata e un sistema imprenditoriale ancora privo di significative spinte innovative, ha finito col risolversi in un ennesimo, non rassicurante giro a vuoto della produttività.

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