Anche l’evasione non è uguale per tutti: gli effetti dei paradisi fiscali sulla diseguaglianza

Paolo Paesani e Michele Raitano riflettono sui vantaggi che l’integrazione tra dati fiscali e campionari offre per misurare meglio la diseguaglianza e individuarne il rapporto con l’evasione fiscale. Riprendendo uno studio recente di Alstadsæter, Johanessen e Zucman - che fa uso anche micro-dati sulla ricchezza nascosta nei paradisi fiscali per stimare la distribuzione dell’evasione in Svezia, Norvegia e Danimarca - Paesani e Raitano sostengono che poiché l’evasione avvantaggia i più ricchi contrastarla equivale a ridurre le diseguaglianze.

La misurazione della diseguaglianza di reddito e ricchezza all’interno dei paesi occidentali è stata per decenni effettuata facendo quasi esclusivamente uso dei dati, sempre più dettagliati, rilevati in indagini campionarie ad hoc (ad esempio, l’indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane condotta ogni due anni dalla Banca d’Italia o quella EU-SILC – European Union Statistics on Income and Living Conditions – coordinata annualmente da Eurostat in tutti i paesi della UE).

Studiare il livello della diseguaglianza e il suo andamento mediante le indagini campionarie può, tuttavia, non essere sufficiente per fornire un quadro esaustivo del fenomeno dato che, da una parte, alcune componenti di reddito o di ricchezza con distribuzione fortemente diseguale (ad esempio i redditi da capitale e da impresa o il patrimonio mobiliare) sono più difficilmente rilevabili dagli intervistatori e, dall’altra, i gruppi estremi della popolazione (i molto poveri, soprattutto se immigrati, e i molto ricchi) tendono ad essere difficilmente inclusi nei campioni rilevati.

Se, dunque, tali indagini non riescono a rilevare con estrema precisione alcuni fattori aggravanti della diseguaglianza, la sua misura potrebbe risultare sottostimata. Inoltre, se nel corso del tempo l’importanza di questi fattori si accresce – ad esempio, se aumenta il numero di immigrati molto poveri, quasi impossibili da campionare, o la quota e le risorse appropriate dai super-ricchi che sfuggono a qualsiasi tipo di rilevazione campionaria – la stessa tendenza della diseguaglianza potrebbe apparire meno accentuata di quanto effettivamente sia.

Per ovviare all’incapacità delle indagini campionarie di valutare quanto accade nei segmenti più elevati della distribuzione, quelli dove potrebbe concentrarsi buona parte dei redditi e della ricchezza complessiva, a partire dalla metà dello scorso decennio, con gli studi pionieristici di Tony Atkinson e Thomas Piketty, si è iniziato a far uso delle statistiche ufficiali relative alle dichiarazioni dei redditi (o della ricchezza nei paesi in cui esistono dettagliati archivi amministrativi sulle proprietà mobiliari e immobiliari) per misurare la quota complessiva delle risorse detenuta dai più avvantaggiati (il top 1% o 0,1% o 0,01%). I dati sui top incomes hanno, ad esempio, consentito di evidenziare una crescita della diseguaglianza (misurata come la quota del reddito dichiarato in un anno appropriata, ad esempio, dal top 1%) molto più accentuata di quella che si osserva solitamente mediante le indagini campionarie che, come detto, non riescono a rappresentare con precisione ciò che accade agli estremi della distribuzione.

Per tale ragione, alcuni autori hanno iniziato a sperimentare tecniche che incrociano dati fiscali di fonte amministrativa e dati campionari; le recenti stime di Stephen Jenkins segnalano come il già elevatissimo indice di concentrazione di Gini dei redditi nel Regno Unito aumenti dell’8% quando ai dati campionari si aggiunga ciò che accade a ricchi e super-ricchi.

Ma basterebbe includere nei campioni anche i più fortunati, o costruire immensi database di fonte amministrativa dell’intera popolazione – come, da anni, si fa nei paesi del Nord Europa – per avere un quadro effettivo dei livelli e delle tendenze della diseguaglianza di reddito e ricchezza e, dunque, delle stesse graduatorie fra paesi? La risposta è purtroppo negativa. Anche i dati amministrativi, infatti, non riuscirebbero “per definizione” a rilevare ogni fonte di reddito e ricchezza, a causa dell’evasione ed elusione fiscale. E tali due fenomeni avrebbero un effetto aggravante sulla diseguaglianza laddove di essi si avvantaggiassero (in termini di importi evasi o elusi) soprattutto gli individui più abbienti.

In un recente paper intitolato “Tax Evasion and Inequality”, Annette Alstadsæter, Niels Johanessen e Gabriel Zucman (quest’ultimo autore di un’importante ricerca sui paradisi fiscali ripresa di recente sul Menabò) hanno indagato come varia la diseguaglianza in Norvegia, Svezia e Danimarca – tre paesi ritenuti a bassa evasione – quando si tenga conto delle componenti di reddito e ricchezza non dichiarate al fisco.

I tre autori sottolineano come non bastino le verifiche fiscali a campione sulle dichiarazioni dei redditi per avere un’effettiva immagine dell’estensione dell’evasione e di come questa si distribuisca fra cittadini più o meno abbienti. A loro avviso, le verifiche a campione sottostimerebbero inevitabilmente l’evasione da parte dei super-ricchi – contribuendo dunque a sottostimare l’effettiva diseguaglianza – in ragione delle forme sofisticate di evasione fiscale cui essi fanno ricorso su consiglio di esperti fiscali e intermediari finanziari specializzati. Gli autori notano, infatti, che per combattere l’evasione dei super-ricchi – che possono avvantaggiarsi più di ogni altro della mobilità globale di redditi e ricchezze – occorrono risorse ingenti, ben superiori a quelle su cui le autorità fiscali possono contare nell’ambito dei controlli a campione delle dichiarazioni dei redditi. Ciò rende, quindi, necessario integrare i dati provenienti da queste verifiche con altre fonti.

Con questo spirito, Alstadsæter, Johanessen e Zucman hanno tentato di stimare le dimensioni e la distribuzione dell’evasione fiscale nei tre paesi nordici, incrociando i risultati di una serie di verifiche fiscali a campione con i micro-dati sull’entità della ricchezza detenuta nei paradisi fiscali, ottenuti tramite la fuga di notizie che ha interessato due istituzioni finanziarie offshore, HSBC Switzerland (Swiss leaks) e Mossack Fonseca (Panama papers) e di cui la stampa ha dato ampiamente conto. A questi dati si aggiunge una terza fonte, rappresentata da un ampio campione di famiglie, norvegesi e svedesi, che hanno volontariamente dichiarato la propria ricchezza nascosta all’estero a seguito di un’amnistia fiscale.

Dal confronto tra questi dati e quelli relativi all’intera popolazione norvegese, svedese e danese, emerge che l’evasione fiscale aumenta in maniera significativa con l’ammontare della ricchezza personale. Il fenomeno non appare, dunque, per nulla neutrale nei suoi effetti distributivi. Se nei paesi scandinavi, l’evasione fiscale è pari, in media, al 3% del gettito complessivo derivante dalla tassazione sul reddito e sul patrimonio delle persone fisiche, la percentuale sale fin quasi al 30% fra lo 0,01% più ricco della popolazione che possiede patrimoni netti di entità superiore a 40 milioni di dollari (pari a circa il 50% della ricchezza complessiva nei tre paesi oggetto d’indagine).

Incorporando i dati sull’evasione, i tre autori mostrano come la crescita della diseguaglianza in Svezia, Norvegia e Danimarca risulti molto più accentuata di quello che emerge guardando alle sole dichiarazioni fiscali. In particolare, la quota della ricchezza detenuta dal top 0,1% più ricco cresce del 25% (dall’8% al 10%) se ad essa si aggiungono i patrimoni non dichiarati o nascosti nei paradisi fiscali. Se in tre paesi a limitata evasione, come quelli nordici, l’incremento è così consistente, in altri paesi europei in cui, da un lato, è maggiore la quota di redditi e patrimoni non dichiarati e, dall’altro, è relativamente maggiore la quota di cittadini presenti negli elenchi emersi dalla fuga di notizie su chi detiene capitali nei paradisi fiscali, l’effetto aggravante dell’evasione sulla diseguaglianza, come sottolineano Alstadsæter, Johanessen e Zucman, potrebbe essere ben maggiore.

Gli autori mettono anche in luce come, per spiegare la relazione diretta tra probabilità di evadere e entità della ricchezza personale, sia necessario integrare i modelli teorici esistenti, che vedono l’evasione fiscale come un fenomeno di domanda – risultato, cioè, di un comportamento razionale da parte di individui (gli evasori) che domandano servizi di consulenza su come evadere in funzione della probabilità di essere scoperti e dell’entità delle sanzioni – con considerazioni dal lato dell’offerta (ovvero, da parte delle banche e degli intermediari finanziari). Partendo da qui, essi costruiscono un modello all’interno del quale le banche svizzere stabiliscono il numero di clienti da soddisfare tenendo conto del costo di essere colte sul fatto, che aumenta con il numero dei clienti (per esempio, a causa della probabilità crescente di una fuga di notizie). Il modello permette agli autori di determinare una relazione decrescente tra livello della diseguaglianza e ammontare complessivo di servizi di consulenza per l’evasione fiscale offerti alla popolazione. Ciò fa sì che, nel caso in cui la diseguaglianza sia molto elevata, alle banche convenga offrire servizi di consulenza esclusivamente al segmento di clientela rappresentato dai super ricchi.

Combinando i risultati dell’analisi empirica con le considerazioni teoriche testé richiamate, gli autori sottolineano l’esigenza di rivedere al rialzo le stime sull’incremento della diseguaglianza, che emergono dai dati fiscali, a partire dagli anni Settanta, e confermano la necessità di aggiornare le tecniche di verifica anche in paesi in cui il livello medio di compliance fiscale è generalmente elevato.

I dati di questo studio, se confermati anche per altri paesi, chiarirebbero dunque, definitivamente, che, se anche forme di “evasione di necessità” da parte dei più poveri possono verificarsi, dell’elusione ed evasione si avvantaggiano maggiormente i più ricchi. Un serio contrasto all’evasione e ad ogni pratica elusiva, oltre a accrescere le risorse disponibili per la collettività, rappresenterebbe, dunque, di per sé una seria strategia di lotta alle diseguaglianze, nello specifico a forme di diseguaglianza particolarmente inaccettabili.

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