Amazon e il capitalismo estrattivo

Maurizio Franzini e Dario Guarascio esaminano le ragioni addotte dall’Antitrust per sanzionare Amazon con una multa di oltre 1,1 miliardi per abuso di posizione dominante. L’obiettivo degli autori non è valutare la correttezza della decisione e l’adeguatezza della sanzione, ma sostenere che gli elementi considerati dall’Antitrust giustificano la conclusione che le strategia adottata da Amazon conduce più che al benessere del consumatore all’affermarsi di un modello di capitalismo “estrattivo”.

La stratosferica sanzione comminata alla fine di novembre dall’Antitrust a Amazon ha attirato molta attenzione, ma forse non tutta quella che merita la questione che a quella sanzione ha dato origine e che non può essere circoscritta al pur rilevante dibattito sulla correttezza dell’intervento dell’Antitrust. Le nostre limitate competenze in materia non ci consentono di esprimere un parere ben fondato a questo specifico riguardo, anche se non sarà difficile capire cosa tendiamo a credere. Riteniamo, però, di poter attirare l’attenzione su alcuni aspetti specifici della questione che spingono a qualificare la strategia di Amazon come esemplare di un capitalismo che – riprendendo in un diverso contesto la terminologia di successo di Acemoglu e Robinson – potremmo chiamare ‘estrattivo’- dove ‘estrattivo’ è il contrario di ‘inclusivo’.

Ricostruiamo sinteticamente la vicenda che è minuziosamente raccontata dall’Antitrust nelle 250 pagine (qualcuna delle quali avrebbe forse potuto essere affidata alle forbici di un attento ‘servitore’ della sintesi) della sua memoria e che, vale la pena sottolinearlo, tiene conto anche degli argomenti difensivi avanzati da Amazon nel corso dell’istruttoria.

Al centro dell’attenzione c’è Amazon come marketplace, che ospita milioni di venditori e raggiunge numeri stratosferici, nel mondo, di potenziali acquirenti. Questa attività di Amazon non è forse quella che alimenta le più frequenti narrative sul gigante del Big Tech ma risulta che oramai da questa attività Amazon trae la quota maggiore dei suoi profitti (come sostiene anche Massimo nel suo articolo su questo numero del Menabò). E ciò non solo per l’espansione dell’attività ma anche per la crescente capacità di appropriarsi di una percentuale via via maggiore del valore delle vendite effettuate sulla piattaform – e qui si configura una prima possibile manifestazione del capitalismo estrattivo: meno ai seller più ad Amazon.

L’ Antitrust sostiene che Amazon ha abusato della sua posizione dominante come marketplace, in violazione dell’articolo 102 del TFUE. Più precisamente, Amazon avrebbe reso accessibili alcuni vantaggi che la piattaforma offre a chi se ne serve per fare retail soltanto a coloro che utilizzano per la consegna (e non soltanto) delle merci il suo servizio di logistica (denominato Fulfillment By Amazon- FBA). I vantaggi sarebbero diversi ma i più rilevanti riguardano (i) la non applicazione di alcune metriche di valutazione delle performance dei venditori terzi, limitando il rischio che circolino valutazioni negative;  (ii) l’ottenimento del badge Prime per i propri prodotti e si tratta di un vantaggio rilevante perché Prime facilita le vendite agli oltre 7 milioni di consumatori più abituali e che comprano di più nell’ambito del programma di fidelizzazione di Amazon; (iii) la maggiore probabilità di aggiudicazione della BuyBox cioè di comparire nella vetrina delle offerte giudicate da Amazon più idonee. In breve l’accesso a questi vantaggi che promettono un’espansione delle vendite su Amazon.it è condizionato all’utilizzo della logistica di Amazon.

In questo consisterebbe l’abuso di posizione dominante e questo abuso, secondo l’Antitrust, sarebbe alla base dell’enorme crescita dei sellers utilizzatori di FBA, nonostante il rilevante aumento nelle tariffe di stoccaggio e spedizione delle merci. Le prove raccolte dall’Antitrust lascerebbero pochi dubbi al riguardo e, inoltre, il principale argomento utilizzato da Amazon per promuovere FBA sembra essere stato proprio quello dei vantaggi ottenibili nella vendita dei prodotti sul suo marketplace.

Dunque, attirando nella propria logistica clienti per ragioni connesse non ai ‘meriti’ della sua logistica ma alla promesse di maggiori vendite sul suo marketplace, Amazon avrebbe “offeso” la concorrenza nei due mercati e, nel modo che vedremo, danneggiato anche i consumatori finali.

Secondo l’Antitrust (p. 212): “la strategia abusiva adottata da Amazon si è rivelata idonea a comprimere la libertà di scelta dei retailer in merito all’operatore di logistica più adatto alle proprie esigenze di business.” Con la conseguenza di accrescere la propria influenza nel mercato dei servizi di logistica per e-commerce e di espandere ulteriormente la posizione dominante nei servizi di intermediazione su marketplace.

La prima conseguenza è che Amazon avrebbe frenato “lo sviluppo di formule concorrenti di logistica integrata” da parte di player innovativi, nati in risposta alle opportunità offerte dall’e-commerce, che hanno cercato di dare soluzioni alle esigenze degli operatori Business to Consumer (B2C). Si tratta di nuovi player specializzati nella logistica B2C che proprio in quanto nuovi hanno necessità di acquisire domanda dai seller attivi su Amazon, competendo ad armi pari con quest’ultima.

Inoltre, sull’efficienza del servizio, nel documento dell’antitrust si legge che “la prova fornita da Amazon dell’asserita superiorità di FBA rispetto ai servizi di logistica concorrenti poggia su un raffronto inconferente, perché relativo alla media delle performance (in termini di tempi di consegna) dei diversi servizi di logistica adottati dai venditori terzi per le offerte MFN”.

Dunque per l’Antitrust non è affatto provata la superiorità di FBA sui concorrenti già presenti sul mercato (contrariamente a quanto dato per scontato da Amazon) ed è assai probabile che l’abuso conduca a un rallentamento del tasso di innovazione che altri player della logistica avrebbero potuto realizzare, oltre che all’uscita dal mercato di player‘meritevoli’. Tutto ciò con danno anche per i consumatori. Dunque, appare non ben fondata la tesi di quanti criticano la sentenza dell’Antitrust perché trascurerebbe i consumatori. Non sembra che li trascuri, semmai esprime valutazioni che possono essere discutibili e che sarebbe bene, appunto, discutere.

Né risulta convincente e tale da superare le questioni di cui stiamo trattando la tesi di Amazon secondo cui l’accesso a FBA è una libera scelta in quanto si tratterebbe di un servizio opzionale preferito perché, appunto, efficiente e conveniente. Questa tesi è ricorrente. Bezos, ad esempio, la formulò lo scorso anno in risposta alla domanda della deputata Mary Gay Scanlon che gli chiedeva se l’aumento delle tariffe praticato da Amazon non fosse dovuto al suo potere di mercato. Sappiamo che, secondo la prevalente concezione della libertà di scelta, questa è preservata anche in presenza di vincoli che restringono enormemente le opportunità convenienti a cui si ha accesso. Restringere quelle opportunità e parlare di libertà di scelta può essere considerata un’altra rilevante caratteristica del capitalismo estrattivo. Pur andando in quella direzione non sembra facilissimo parlare ancora di libertà di scelta a proposito di un’altra pratica di Amazon che difficilmente potrebbe essere spiegata se non in base al tentativo di espandere e proteggere il proprio potere come marketplace.

Ci riferiamo alla cosiddetta fair pricing policy che di fatto impedisce ad un seller di vendere su altre piattaforme lo stesso prodotto offerto su Amazon.it ad un prezzo inferiore, come potrebbe ragionevolmente avvenire se le tariffe richieste da altre piattaforme fossero più basse. La punizione consisterebbe nel far retrocedere i prodotti del venditore ‘infedeli’ nei risultati di ricerca o di ecluderli dal Buy-Box, con evidenti conseguenze per le sue vendite. Questa pratica non consente ai consumatori, magari anche soltanto a pochi di essi, di accedere a quei prodotti a prezzi inferiori. E ciò dà in qualche modo sostegno al procuratore generale di Washington, D.C., che ha accusato Amazon di usare i prezzi secondo logiche di “restrizione anticoncorrenziale” e di aver “aumentato artificialmente il prezzo pagato dai consumatori in tutti i mercati online”. Tutto questo non appare irrilevante per il benessere del consumatore che, come è noto, dovrebbe essere per molti il principale concern dell’Antitrust in base alla filosofia della scuola di Chicago o, almeno, di una sua interpretazione.

Cosa debba intendersi per consumer welfare non è precisamente chiaro, come ha ripetutamente scritto Hovenkamp. Qui ci limitiamo ad osservare che la memoria dell’Antitrust, e altri rapporti su Amazon, permettono di individuare una serie di effetti della strategia che quest’ultima utilizza per espandere il suo potere come marketplace che non sembrano in grado di promuovere in modo significativo il benessere dei consumatori per quanto ampiamente inteso, e ancora meno di prospettare un futuro luminoso per quel benessere.

Non vi è garanzia che la logistica di Amazon sia la più efficiente e certamente non è la sola in grado di effettuare le consegne in tempi rapidissimi (se questa è una variabile di decisiva rilevanza per il benessere dei consumatori); inoltre Amazon non consente di praticare prezzi più bassi su altre piattaforme e limita quasi certamente la capacità di introdurre innovazioni nell’ambito della logistica. Tutto questo lo abbiamo visto e l’effetto, nel corso del tempo, è quasi cerrtamente di accrescere il potere di mercato di Amazon e le sue tariffe, con conseguenze non positive per i consumatori. A ciò possiamo aggiungere: Amazon è in grado di condizionare i consumatori finali con le modalità di presentazione dei sellere la conseguenza potrebbe essere che a vendere di più non sono i produttori ‘migliori’ (in termini di qualità e prezzo) ma quelli più ‘fedeli’ e questo può realizzarsi anche attraverso quelle tecniche di manipolazione e persuasione (piuttosto che di corretta informazione) rese possibili dalla massa sterminata di informazioni di cui Amazon viene in possesso, e che ancora non si è chiarito bene quale rapporto abbiano con il consumer welfare.

Nel loro insieme tutti questi preoccupanti fenomeni ci sembra che possano essere considerati espressione di un modello di capitalismo che porta ad estrarre profitti e soprattutto rendite piuttosto che a creare le condizioni per una più ampia e consapevole inclusione nei mercati. Amazon pratica il capitalismo estrattivo quando riduce le possibilità di scelta dei suoi seller su dove vendere e su quale logistica utilizzare. E in qualche modo lo fa anche quando condiziona, nei modi che si sono appena ricordati, le scelte dei consumatori finali. Attendersi un generalizzato aumento di benessere (non solo quello dei consumatori in senso stretto) da un modello di questo tipo è arduo. I benefici che esso può dare facilmente saranno, anzi già sono, enormemente concentrati.

Forse farsi carico di tutto questo non è – come molti sostengono –  compito dell’Antitrust (ma sarebbe meglio dire “non solo dell’Antitrust”). Limitare le opportunità di cui oggi gode il capitalismo estrattivo per affermarsi sembra, in ogni caso, una priorità. Prenderla come tale vuole dire anche considerare che molte di quelle opportunità svanirebbero se, ad esempio, Amazon marketplace non avesse i rapporti di ‘parentela’, che oggi ha, con Amazon FBA.

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