Alcune idee per lo sviluppo

Il fatto che di fronte ad un qualsiasi inconveniente, malfunzionamento, guasto o quant’altro, la prima operazione da fare sia quella di capire di che si tratta per vedere se e come sia possibile intervenire per eliminare quell’inconveniente, sembra un’osservazione più che ovvia.
Se quindi un paese si accorge di avere dei malfunzionamenti non in assoluto, che sarebbero sempre discutibili, ma a fronte di funzionamenti almeno migliori dei paesi con cui convive normalmente, sembrerebbe necessario, in base a quella ovvietà, domandarsi che cosa si è rotto o che cosa funziona in maniera poco efficace.
Nel caso dell’economia italiana le cose che si sono “rotte” sono, per unanime riconoscimento, almeno due: il livello del debito, elevato ma, soprattutto, che rischia di uscire di controllo – e la precisazione non é ininfluente – e il processo di sviluppo, costantemente inferiore a quello dei paesi dell’Unione, e certamente non recuperabile in virtù di avanzamenti di mera natura qualitativa. L’attenzione critica verso la questione del debito si accentua proprio in relazione al secondo elemento critico, e cioè di una crescita che non consente di tenere sotto controllo il debito. Cinicamente occorre notare, inoltre, come mentre per abbassare il debito “basta” ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse, per lo sviluppo le ricette sono vaghe, spesso contraddittorie, incerte, discusse e discutibili, spesso legate ad interventi keynesiani che sono frenati proprio dalla concomitante necessità di ridurre la spesa pubblica. Questa difficoltà evidentemente aumenta quando le cause restano incerte, poco convincenti, contestate o, addirittura, sconosciute. Fatto sta che se si cerca di recuperare un’interpretazione delle cause della nostra debolezza, ci si trova di fronte non solo a questa difficoltà, ma a vere e proprie ricostruzioni di comodo: non si sa come chiamare altrimenti tutta quella serie di “cause” attribuite al lavoro in relazione al costo e alla flessibilità. Queste “cause” non reggono la prova dei dati fattuali e dei confronti statistici, che dimostrano esattamente il contrario, nel senso che in Italia il costo del lavoro è il più basso, l’orario di lavoro medio mensile è il più alto e lo stesso vale per la flessibilità. Tuttavia per non pochi anni queste interpretazioni hanno tenuto banco.
Rimangono pur tuttavia veri i dati relativi alla produttività del lavoro nel senso che in Italia da una certa data in poi – dalla metà degli anni ’80, per la precisione – la variazione percentuale di questa grandezza è stata inferiore a quella registrata in altri paesi. Se mettiamo insieme questi due dati e cioè quelli relativi al costo e quelli relativi alla produttività del lavoro si ricava un indizio un po’ più serio e cioè la necessità di porre attenzione al prodotto che sta al numeratore della produttività del lavoro e allora si scoprirà che il valore aggiunto dei prodotti manifatturieri italiani ha avuto un andamento progressivamente minore di quello che si è verificato negli altri paesi.
Questi confronti statistici ci consentono di osservare un altro aspetto centrale in questa ricerca delle cause del nostro declino, e cioè il periodo di decorrenza del fenomeno che come accennato si colloca intorno alla metà degli anni ‘80. Un’informazione essenziale come è facilmente immaginabile ma che non si ritrova in “letteratura” dove prevalgono ricostruzioni di tipo congiunturali e di breve o medio periodo. In questi ultimi anni le vicende e la tempistica della crisi internazionale sono assunte a riferimento anche di questioni del tutto estranee. Naturalmente non nel senso che il nostro paese è estraneo alle vicende internazionali, ma nel senso che la questione del nostro declino è di molto precedente, ed essendo di natura diversa, non può essere attribuita a quella crisi.
Il perché da quelle date si sia determinato questo scollamento competitivo del nostro sistema produttivo potrà essere oggetto di ulteriori ricostruzioni, resta comunque il fatto che questo minore valore aggiunto deriva dal fatto che – contrariamente all’andamento della domanda internazionale che ha puntato su prodotti tecnologici per i quali la struttura del mercato offriva e offre tutt’ora ben noti maggiori margini di profitto – noi abbiamo conservato una specializzazione produttiva e una capacità d’innovazione tecnologica sostanzialmente statiche o almeno ridotte rispetto a quelle dei paesi avanzati.
Il massimo che può concepire una cultura liberista per correggere questo “difetto” è quello di offrire agevolazioni alle imprese per la spesa in ricerca e sviluppo. Purtroppo quel ritardo non si cura con queste ricette e sperare di incidere significativamente sul cambiamento di specializzazione produttiva con qualche incentivo per la spesa in ricerca è, a dir poco, di un semplicismo ammirevole. Anche questa questione meriterà qualche successivo approfondimento.
Nel frattempo è bene tenere presente come la capacità di utilizzare il patrimonio delle conoscenze scientifico-tecnologiche chiama in causa anche le questioni sintetizzate sotto lo slogan del “nuovo modello di sviluppo”. E i cambiamenti necessari per affrontare i contenuti che essi sottendono, richiedono il ricorso alle conoscenze contenute nella dinamica di quel patrimonio. Se è vero che quelle conoscenze possono dar luogo a scelte diverse e non sempre apprezzabili, non è rimanendo estranei e “ignoranti” che si controllano quelle scelte.
Lungo questo percorso anche altre saranno le questioni che si dovranno affrontare, incominciando dalle situazioni di crescente disponibilità produttive non coperte da una domanda solvibile, sino alla riduzione dell’alienazione del lavoro che dovrebbe essere in testa ad una politica economica progressista. Facendo a meno del patrimonio delle conoscenze scientifico-tecnologiche non solo non si esce dalla crisi attuale, ma non si sarà in grado nemmeno di affrontare i problemi di domani.

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