Al posto mio? Ma è sicuro? A proposito di un recente libro di Riccardo Staglianò

Rama Dasi Mariani ricostruisce i temi più ricorrenti nel dibattito sull’impatto che le nuove tecnologie, e in particolare la robotizzazione, possono avere sul lavoro partendo dal recente libro di Riccardo Staglianò “Al posto tuo”. Mariani si sofferma in particolare sulla possibilità che, come sostiene Staglianò, “questa volta sia diverso”, cioè i meccanismi di riassorbimento dei disoccupati tecnologici possano non funzionare e sull’analisi delle politiche che potrebbero contrastare il fenomeno o ridurne la gravità degli effetti.

Ero ancora bambina e viaggiavo nel sedile posteriore della station-wagon dei miei genitori in direzione delle vacanze estive quando, arrivati al casello autostradale, mio padre fu colto di sorpresa quando dovette pagare il pedaggio non ad un casellante in carne ed ossa ma a una macchinetta automatizzata. Dopo aver versato l’importo indicato nel display e aver accolto con un sentimento a metà tra il divertito e il diffidente l’arrivederci pronunciato da una voce poco umana, il commento fu: “se lavorano le macchine, non c’è più posto per le persone”. La considerazione non era il frutto della sagacia di mio padre, il quale per giunta non conosceva neanche la storia del pensiero economico e non sapeva che il dibattito in letteratura andava avanti dall’inizio del capitalismo; semplicemente il cambiamento era sotto i suoi occhi e sotto gli occhi di tutti.

A circa due decenni di distanza quella profezia un po’ apocalittica sembra essersi almeno in parte avverata: molte occupazioni sono state soppiantate dal “capitale tecnologico” e, per quanto riguarda il futuro, le stime – le più ottimistiche – sono che robot e computer ruberanno agli umani circa nove milioni di posti entro il 2025.

Traggo questo dato – tra molti altri – dal libro “Al Posto Tuo” di Riccardo Staglianò, un’avvincente narrazione del mutamento invasivo delle tecnologie che inizia dal computer di casa e prosegue, in giro per il mondo, con una visita, di prima mano, ad alcuni dei santuari del futuribile, dove però il futuro sembra essere già arrivato.

Come ogni viaggio che si rispetti, anche quello di Staglianò inizia da una stazione, quella di Roma Termini. Quasi in un risveglio pirandelliano, l’autore si ritrova nell’atrio, ripetutamente attraversato in passato, ma improvvisamente si accorge di un cambiamento. Gli sportelli della biglietteria da ventiquattro sono passati a sedici, sostituiti da un centinaio di macchinette self-service spuntate tutte intorno. Quanto ancora potremo far finta di non vedere? Si chiede Staglianò.

Questo è solo il primo aneddoto del libro e man mano che le pagine scorrono, cresce la casistica delle professioni soppiantate dalla tecnologia e dei lavoratori a rischio; sembra di leggere un bollettino di guerra: il commercio (3,2 milioni di addetti); i trasporti (1 milione di addetti); i servizi alle imprese (2,4 milioni di addetti); l’industria (4,5 milioni di addetti); le attività finanziarie e assicurative (611 mila addetti); neanche i giornalisti e i medici si salvano (rispettivamente 47727 e 780 mila).

Finora si è ritenuto che l’automazione colpisse soltanto o soprattutto i lavori routinari, tipici delle professioni collocate nella fascia media della distribuzione del reddito. Ma basta un sommario sguardo per rendersi conto che anche i lavori meno qualificati e quelli intellettuali – che si ipotizzava sarebbero stati coadiuvati e resi più produttivi proprio dai computer – sono ad alto rischio. Che fine ha fatto la complementarietà? Non saranno troppo pessimistiche queste previsioni? E non sarà che le nuove tecnologie hanno creato e stanno per creare nuove professioni, offrono nuove occasioni alla possibilità di valorizzare le qualità degli umani? A Staglianò si potrebbe muovere la critica di avere trascurato questa possibilità enfatizzando troppo gli aspetti negativi delle tendenze in atto e l’idea che questa volta è diverso dal passato. In fondo i dati sui tassi di occupazione negli Stati Uniti non sembrano orientati a un secolare peggioramento.

Probabilmente Staglianò replicherebbe che è importante focalizzarsi sulle vittime e non lasciarsi consolare dai pochi superstiti. D’altra parte, i dati continuano a non dare speranza. Secondo le stime di Frey e Osborne, contenute in “The Future of Unemployment”, solamente lo 0,5% degli americani è impiegato in quella che è definita la new new economy, ossia i settori dell’economia più innovativi. Se queste sono le tendenze….

Il libro del giornalista toscano è pieno di aneddoti shock. Amazon, il colossale emporio per lo shopping online, è in grado di generare dieci milioni di fatturato ogni quattordici dipendenti. Per un negozio fisico il rapporto scende a quarantasette persone impiegate. Circa due terzi in più. Kodak, il monopolista dei rullini di pellicola fotografica, ha chiuso i battenti nel 2013 portandosi dietro circa cento mila posti di lavoro. Tutto questo mentre Instagram, il social network per la condivisione di foto, coi suoi tredici dipendenti veniva comprato da Facebook per un miliardo di dollari. Si, avete letto bene. Siamo di fronte ad un’economia in grado di generare ricchezza senza lavoro. Questo con buona pace della teoria del valore lavoro degli economisti classici secondo la quale la quantità di lavoro impiegata nella produzione delle merci è l’unica causa del loro valore.

E allora? Non sarà più necessario il lavoro per produrre e i pochi fortunati “inventori” saranno gli unici vincitori di questo cambiamento? Ci sono buoni motivi per pensare che Staglianò sarebbe d’accordo a scomodare un altro economista e a portare la sua tesi al centro del dibattito. Mi riferisco a John M. Keynes il quale sosteneva, come ben noto, che la disoccupazione è dovuta ad un’insufficienza della domanda e i governi avrebbero dovuto sostenerla attraverso la spesa pubblica. In questa prospettiva il problema sarebbe: se la maggior parte delle persone rimarrà senza lavoro ed esisteranno solo pochissimi super ricchi, chi comprerà le merci prodotte dalle macchine? L’autore di “Al Posto Tuo” forse rimarcherebbe che ad avere un atteggiamento miope riguardo le tendenze in atto non sono solo le istituzioni pubbliche, ma gli stessi imprenditori. Manca, infatti, la lungimiranza per capire che presto, se non cambierà qualcosa, anziché preoccuparsi di guadagnare fette sempre più grandi di mercato dovranno prendere atto che il mercato non esiste più.

Il problema della perdita del posto del lavoro non è solo economico, ma anche sociale e culturale. Staglianò afferma nel suo libro che la professione è matrice di identità e si stima che il costo sociale di un licenziamento sia superiore a quello di un divorzio. In effetti, a parità di reddito, come impiegheremmo il nostro tempo senza dover essere occupati in attività produttive? Si potrebbe dire che senza lavoro ci sarebbero anche più divorzi. Staglianò, estraendo una felice frase dal repertorio del giornalista, forse risponderebbe che dovremmo diventare tutti un po’ più nobili e più bambini e, come loro, vivere senza produrre e trastullandosi alla grande.

Restando sul tema dell’identificazione, il progresso tecnologico è visto da molti anche come l’alienazione delle facoltà che non appartengono strettamente all’umanità. Quello che ci resterà alla fine del processo, dunque, saranno le qualità che connotano un essere vivente e che non saranno mai sostituite dalle tecnologie. Prima fra tutte la creatività, ossia la capacità di pensare in maniera diversa, di generare idee e soluzioni nuove. Un algoritmo, infatti, è efficace perché replica, velocemente e senza errori, ciò per cui è programmato. La sua forza sta proprio nel non ragionare fuori dagli schemi. A pari merito con la creatività c’è la sensibilità, la capacità di provare sentimenti. La professione di medico, ad esempio, si esplica anche attraverso l’instaurazione di rapporti umani. Forse il Dott. Adams ne è l’esempio più evidente.

Riflettendoci, a frenare la tendenza verso la computerizzazione potrebbero essere proprio le preferenze dei consumatori nei confronti di prodotti e servizi che generano come esternalità l’interazione personale. Tempo fa, da un’indagine sul “costo” delle file agli uffici postali è emerso che molti non pagherebbero assolutamente per rinunciarvi. Al contrario, in un mondo senza file sarebbero disposti a pagare per farle, proprio perché l’attesa di essere serviti ha come prodotto “congiunto” l’interazione sociale, la creazione, si potrebbe dire, di “capitale sociale”.

Ma c’è un altro problema che, implacabilmente, entra in scena: è quello delle disuguaglianze economiche. Le macchine vengono introdotte per risparmiare lavoro quando questo è considerato troppo costoso. E questo, naturalmente, riduce i salari e aggrava le disuguaglianze. D’altro canto se i beni “human made” sono più costosi solo i più ricchi potranno acquistarli. Si attiva così una spirale viziosa. Un freno al suo infinito avvitarsi potrebbe essere rappresentato proprio dalla caduta del salario che deriva dalla progressiva abbondanza relativa del lavoro.

Di fatto, in uno studio condotto da Ethan Lewis sulla dinamica di assorbimento della manodopera immigrata in America si mostra come nelle zone maggiormente influenzate dall’aumento dell’offerta poco qualificata le tecniche di produzione si siano spostate verso metodi a maggior intensità di lavoro. Questo fa sperare sull’esistenza di meccanismi compensativi intrinseci al mercato. Ma, come è facile vedere, essi entrerebbero in funzione quando il salario è molto basso e la disoccupazione molto diffusa. Cioè, diventerebbero normali situazioni di alta disoccupazione e bassi salari.

È evidente che occorrono altre politiche, ma i governi sembrano sottovalutare il problema e ciò vale praticamente a livello mondiale. Staglianò fatica non poco per trovare qualche personalità politica che abbia mostrato di essere almeno sensibile alla questione. Lui cita Prodi e io Hilary Clinton. Ma non si va al di là del vago riconoscimento del problema.

Ma quali politiche potrebbero essere adottate? Le possibilità non mancano. Anzitutto, forme di sussidio all’occupazione e misure di reddito minimo che avrebbero anche l’effetto di sostenere la domanda. Ma si potrebbe anche cercare di orientare socialmente la ricerca e il progresso tecnologico, come ha sostenuto anche Tony Atkinson nel suo ultimo libro, evitando che prenda direzioni dannose per il futuro del lavoro. Ancora, le imprese potrebbero introdurre un sistema di micro-pagamenti, ossia ogni bene potrebbe essere scomposto nelle sue parti più semplici e le stesse vendute separatamente. Come ad esempio succede già per gli album discografici. Ora è possibile acquistare anche singoli brani. Ugualmente si potrebbe fare per gli articoli dei giornali o delle riviste, slegandoli dai loro compagni di edizione. In questo modo si stimolerebbe la domanda e si salverebbero intere professioni. Ancora, data la gratuità delle informazioni che volontariamente condividiamo sul web, le quali fanno la fortuna di pochi che le utilizzano come principale mezzo di produzione, si potrebbero assegnare dei diritti di proprietà su di esse e far pagare per ogni informazione ottenuta. Tuttavia, è probabile che a quest’ultimo punto Staglianò replicherebbe che il corrispettivo ottenuto per ogni post condiviso su Facebook sarebbe davvero irrisorio. Il valore marginale della presenza del singolo sul web è potenzialmente nullo e il segreto sta proprio nel meccanismo “winner takes all”. Si potrebbe poi pensare a rivedere le modalità di acquisizione dei diritti di proprietà sulle macchine e sui robot, permettendo di diventarne titolari anche a coloro che perdono il posto di lavoro a causa di quelle macchine e di quei robot. Ma qui occorre un intervento di radicale, e chissà quanto difficile, di riforma del capitalismo.

Molto altro si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui. Devo soltanto spiegare che le risposte di Staglianò alle molte domande formulate in queste note non sono ipotetiche, come le ho presentate, ma reali e certe. Lo posso dire perché sono quelle che egli ha dato alcuni giorni fa in occasione di un incontro- discussione sul suo libro tenutosi nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza e al quale hanno partecipato numerosi docenti, ricercatori e studenti che in vario modo si occupano di lavoro, disuguaglianze economiche e innovazione. Dunque questa non è una vera recensione. Perché l’ho scritta così? Beh, perché penso che una macchina non potrebbe farlo.

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