Aboliamo la povertà!

FraGRa si occupano di povertà e in particolare della ragionevolezza dello slogan “Aboliamo la povertà”, mettendo in luce la molteplicità di valutazioni normative e di limiti informativi che rendono impossibile una definizione univoca della povertà. Gli autori sostengono che lungi dal giustificare l’inazione contro la povertà, tale consapevolezza permetterebbe di disegnare politiche contro la povertà più efficaci e più eque di quelle che si muovono nella logica binaria poveri vs. non poveri.

Nella discussione sulla crescita delle disuguaglianze e sulle politiche per farvi fronte, sovente viene affermato – nel nostro paese e non solo – che le politiche distributive dovrebbero preoccuparsi unicamente della povertà, evitando forme di redistribuzione e predistribuzione che modifichino le posizioni di chi povero non è.

Su questo tema è intervenuta di recente Elena Granaglia sul Menabò, criticando, sulla base delle evidenze a disposizione e con riflessioni di carattere normativo, le posizioni di chi contrappone i concetti di povertà e disuguaglianza. Ora torniamo su questo tema partendo da una domanda, a cui solo in apparenza è facile rispondere con precisione: chi sono i poveri?

L’analisi della disuguaglianza si distingue da quella della povertà perché nel primo caso si guarda all’intera popolazione, mentre nel secondo bisogna stabilire dei criteri per identificare i poveri, ovvero fissare una soglia che distingua coloro che lo sono da coloro che non lo sono. Il problema è che su questo problema non esiste alcuna visione unanime né in letteratura, né nelle scelte effettuate da istituzioni internazionali e dai policy makers. E ciò non può sorprendere considerando che la nozione di povertà scaturisce da giudizi di valore che variano nello spazio, nel tempo e tra individui. Inoltre, ulteriore causa di variabilità nell’applicazione pratica, è la diversa disponibilità di dati, nonché la sostanziale impossibilità tecnica dei confronti al margine fra soggetti in condizioni simili. Come fare a sapere se un individuo con un euro in più di un altro si trova effettivamente in condizioni un poco migliori.

Si consideri, al riguardo, la pluralità di variabili da specificare per identificare i poveri. Sintetizzando in modo estremo un ampio dibattito, bisogna definire: i) la soglia di povertà, sulla base di un criterio assoluto o relativo, e poi procedere, quale che sia la scelta, a individuare la precisa configurazioni del criterio tra le tante possibili; ii) la dimensione di benessere socio-economico che si considera per “ordinare” i soggetti, il reddito, il consumo, il patrimonio, altre dimensioni non monetarie o un incrocio fra alcune di queste; iii) l’unità di osservazione del fenomeno, l’individuo o la famiglia, nel qual caso di deve ricorrere a una scala di equivalenza per comparare il benessere di nuclei di diversa composizione (e scale di equivalenza forse sarebbero necessarie anche tra nuclei familiari uguali per composizione ma diversi per altre caratteristiche); iv) la dimensione temporale che si prende in considerazione – l’anno o un periodo più lungo, così distinguendo la povertà statica da quella dinamica (che consente di valutare chi è povero sporadicamente o in modo ricorrente o persistente).

Già questo rapido elenco chiarisce come l’identificazione dei poveri non possa essere un’operazione oggettiva. Da un lato, è inevitabile il peso dei giudizi di valore. Dall’altro, si pongono altrettanto inevitabili limiti informativi, rispetto ai quali non è disponibile alcuna risposta univoca.

Più nello specifico, la soglia di povertà assoluta si basa sul valore monetario di un paniere di beni che tutti dovrebbero essere in grado di consumare, mentre la soglia relativa dipende da quanto hanno a disposizione gli altri membri della collettività e, dunque, il giudizio normativo è che si è poveri non in base a ciò di cui si dispone ma alle distanze nei confronti degli altri. D’altro canto, non è corretto assumere, come spesso si fa nella discussione pubblica, che la povertà assoluta debba avere un carattere estremo, anche se questa è la pratica di un paese come gli Stati Uniti dove si adotta un mero criterio di sussistenza riferito al consumo alimentare; la soglia della povertà può considerare un insieme molto ampio di beni (come fa l’ISTAT) e perfino alcune capacità. Peraltro, la stessa povertà relativa può essere fissata a livelli più o meno elevati a seconda dell’ampiezza delle distanze dagli altri considerata accettabile: ad esempio, può essere considerato povero chi ha meno del 40 o del 60% del reddito mediano. Anche la composizione del paniere di beni necessari in un approccio assoluto non è immutabile; essa varia, ovviamente, nello spazio e nel tempo a seconda del grado di sviluppo di un paese (acquisendo così anch’essa aspetti di “relatività”).

Rispetto, poi, alla dimensione di benessere da considerare, la povertà può essere valutata guardando al reddito disponibile delle famiglie (come nell’indicatore europeo di povertà relativa, che definisce povero chi ha un reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano, o nel calcolo della povertà assoluta della World Bank che considera povero chi dispone di meno di 1,9 $ al giorno) o alla spesa per consumi (come fa l’ISTAT quando calcola sia la povertà assoluta che quella relativa) o integrando vari indicatori di benessere. Ad esempio, l’ISEE, su cui si basa in Italia la concessione di molti (ma non tutti) trasferimenti selettivi di reddito, fra cui il Reddito di Cittadinanza (RdC), è costruito sommando il reddito con il 20% del patrimonio familiare (ma applicando nel calcolo varie franchigie).

Ancora, rispetto all’unità di riferimento, anche se si sceglie la famiglia, si pongono vari problemi: i figli maggiorenni obbligati per assenza di lavoro a vivere in famiglia sono da considerarsi parte della famiglia di origine oppure fanno nucleo a sé? I figli adulti di un anziano sono da considerare almeno in parte famiglia di quest’ultimo e dunque le loro risorse vanno tenute in conto quando si decide della povertà o meno dell’anziano? Infine, quale scala di equivalenza possiamo usare se vogliamo stabilire (sulla base dei redditi, dei consumi o di altri indicatori) chi sia povero o meno tenendo conto, nel modo appropriato, della dimensione del nucleo familiare? Nella letteratura, sia teorica che empirica, non esiste alcun consenso su quale sia la scala di equivalenza più appropriata, eppure il problema è molto rilevante: dalla scala di equivalenza dipende come varia il tenore di vita attribuito a nuclei di diversa composizione e, quindi, la probabilità di ricadere nella coda bassa della distribuzione, con conseguenze per il soddisfacimento dei requisiti eventualmente richiesti per ricevere trasferimenti monetari selettivi. Esiste quindi la possibilità che anche una scelta di puro carattere tecnico, come quella della scala di equivalenza, possa influenzare in modo significativo la definizione di chi sia o meno povero. E, comunque, anche in presenza del miglior apparato statistico, nessuna scala sarà mai in grado di cogliere l’eterogeneità nelle condizioni di vita.

Per dare un’idea di quanto l’identificazione dei poveri risenta dell’approccio adottato, si consideri che il calcolo dell’incidenza della povertà (numero di individui “equivalenti” al di sotto della soglia) in Italia, nel 2017, varia notevolmente se si passa dalla specifica misura assoluta adottata dall’ISTAT (8,4%) o quella relativa proposta da Eurostat (20.3%); inoltre, come mostrano Cutillo, Raitano e Siciliani in un recente lavoro, in Italia l’incidenza della povertà assoluta fra gli individui diminuisce se il calcolo si basa non sulla spesa per consumi ma sui redditi disponibili (6,7%) e, soprattutto, cambia anche notevolmente la composizione del gruppo dei poveri. E da una serie di dettagli ancor più tecnici di quelli discussi finora (ad esempio, come imputare i redditi e i consumi connessi alla proprietà dell’abitazione o valutare i capital gains o i consumi durevoli) dipende se si è considerati poveri.

Sperando che il lettore non si sia perso, vorremmo adesso invitarlo a seguirci in un’ultima riflessione relativa a questioni di casa nostra. Ci concentriamo sul Reddito di Cittadinanza (RdC) che, nell’immaginario collettivo (e anche in alcune rapide valutazioni del suo impatto formulate da importanti esponenti politici) avrebbe il compito di contrastare la povertà assoluta così come è definita dall’ISTAT. In altri termini, nell’immaginario collettivo, chi, secondo l’ISTAT è povero assoluto dovrebbe ricevere il RdC. Ma quest’ultimo si basa su una soglia definita in base a redditi e patrimoni, anziché sui consumi (tralasciamo, per non complicare ulteriormente il quadro, che il livello base del RdC, pari a 780 euro, fu stabilito sulla base della soglia di povertà relativa del 2014). Ora, ha senso confrontare i percettori del RdC con i poveri assoluti? In realtà, molto poco, dato che i requisiti fissati dal legislatore si basano su criteri ben poco omogenei con quelli utilizzati dall’ISTAT per definire la povertà.

Anziché sulla possibilità di consumo di un paniere di beni necessari il RdC – tralasciando gli ulteriori requisiti di accesso – viene concesso ai nuclei familiari che soddisfino tutte le seguenti condizioni: i) un ISEE non superiore a 9.360 euro; ii) un reddito equivalente (ma calcolato sulla base di una scala di equivalenza meno vantaggiosa di quella ISEE) non superiore a 6.000 euro; iii) un valore del patrimonio immobiliare non superiore a 30.000 euro e della ricchezza finanziaria non superiore a 6.000 euro per un single (aumentati lievemente in caso di nuclei con più componenti).

Già guardando a questi requisiti alquanto arzigogolati – presumibilmente dettati dall’esigenza di non derogare dai fatidici 780 euro di importo massimo, senza gravare troppo sul bilancio pubblico – si capisce bene come la realizzazione pratica dei trasferimenti di sostegno contro la povertà sia ben lungi da una chiara e oggettiva definizione dei poveri, cosa peraltro impossibile alla luce di quanto si è detto finora. Ad esempio, siamo proprio sicuri che un single che si avvicina al pensionamento che abbia accumulato a fini precauzionali un risparmio di 6.500 euro non sia meritevole di un sostegno? E perché poi quando si passa alla popolazione anziana la principale misura di sostegno contro la povertà a loro destinata – l’assegno sociale – segue regole completamente diverse e identifica i beneficiari in base al reddito pro-capite anziché sull’ISEE? O, ancora, perché nella definizione dei criteri per accedere ad alcuni bonus per le utenze domestiche si applicano in Italia requisiti economici diversi da quelli usati per il RdC e l’assegno sociale?

Proviamo ora a sintetizzare i punti principali di questa nota e a trarre qualche conclusione. Si tende a parlare della povertà come se fosse uno stato oggettivo e oggettivamente misurabile. Non è così. I giudizi di valore, una lunga serie di problemi tecnici (anche relativi al confronto “al margine” fra individui in condizioni simili) e la disponibilità di dati condizionano enormemente la definizione e la misurazione della povertà. Naturalmente questo non vuol dire che sovrapponendo i vari criteri non si possa individuare un piccolo nucleo di individui certamente poveri. Ma è chiaro che una definizione del genere non potrebbe aspirare a svolgere il ruolo di riferimento delle politiche che invece si vuole assegnare alla povertà.

In considerazione di queste difficoltà sarebbe forse più appropriato assegnare alle politiche che hanno come obiettivo dichiarato quello di contrastare la povertà uno scopo forse meno apparentemente ambizioso ma più congruente con la realtà: e cioè quello di migliorare in vario modo le condizioni di vita di coloro che si trovano in determinate condizioni, tra le quali vi è certamente quella di occupare i gradini più bassi nella distribuzione dei redditi. Dunque, una condizione che rimanda alla disuguaglianza.

Non occorre poi sottolineare quanto poco soddisfacente possa essere una politica di contrasto alla povertà che definisca quest’ultima anche sulla base delle risorse di cui il dispone il bilancio pubblico. Sarebbe come dire che è povero solo chi sono in grado di aiutare.

Un approccio alternativo dovrebbe forse basarsi sull’idea che si possano attribuire i benefici più che secondo la logica on/off, cioè sì a chi soddisfa determinati requisiti no a chi non li soddisfa, secondo una prospettiva di modulazione continua di quei benefici, con impatti diversificati in base a quelli che sono considerati i deficit da compensare, e alla loro intensità.

Ancora, temperare la tendenza ad adottare misure selettive a vantaggio di un ben disegnato universalismo – anche andando verso forme di reddito di base finanziato da imposte fortemente progressive – potrebbe aiutare a limitare almeno alcuni dei problemi che le prime inevitabilmente comportano.

Il conclusione, l’esperienza di importanti misure come il RdC può essere messa a frutto per una rinnovata riflessione su come meglio definire gli obiettivi (e gli strumenti) delle politiche dirette ad alleviare il disagio dei segmenti più deboli della società.

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