A scuola con lo spoil-system

Stefania Gabriele richiama i punti principali della riforma della scuola attualmente in discussione e focalizza la propria attenzione sulla questione dell’assunzione dei precari e sui nuovi compiti attribuiti ai dirigenti scolastici, presentando in modo dettagliato le previsioni della riforma. Gabriele si sofferma poi sulla più generale prospettiva di introdurre una più intensa concorrenza nel sistema scolastico e mette in guardia dai rischi che potrebbero derivarne in termini di inclusione e mobilità sociale in un paese che già non vanta, sotto questi aspetti, risultati incoraggianti.

Come è noto, la riforma della scuola attualmente in discussione prevede, tra molti altri punti rilevanti, un piano straordinario di assunzioni e il rafforzamento del ruolo dei dirigenti scolastici nella gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali che, rispetto alla formulazione originaria, è stato appena attenuato nel passaggio alla Camera dei Deputati. L’ipotesi contenuta nel Rapporto “La buona scuola” (settembre 2014) di sostituire completamente il criterio dell’anzianità con quello del merito nel sistema di remunerazione dei docenti è tramontata, mentre il DDL approvato dalla Camera in prima lettura il 20 maggio scorso delinea più precisamente il nuovo meccanismo di reclutamento. Su questi aspetti svilupperò qualche riflessione.
Il Rapporto di settembre prometteva l’assunzione straordinaria di circa 148.100 insegnanti: i precari inseriti nelle graduatorie a esaurimento (GAE) oltre che i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso (2012). Con il DDL proposto dal Governo il numero delle assunzioni è stato ridotto a 100.701 (per le quali la relazione tecnica stima un costo di circa 0,5 miliardi lordi per il 2015 e di 2 miliardi dal 2016). La differenza dipende in parte dal posticipo del reclutamento degli iscritti alle GAE della scuola materna (23.000), che resta affidato ad una delega al Governo per riformare il ciclo 0-6 anni, e in parte dall’esclusione degli idonei al concorso del 2012, che, tuttavia, saranno “ripescati” dal 2016 per effetto di un emendamento della Camera. I nuovi assunti a tempo indeterminato dovranno trascorrere un periodo di prova della durata di un anno prima dell’immissione in ruolo e, in caso di giudizio negativo, il dirigente disporrà la dispensa dal servizio, senza obbligo di preavviso. La valutazione sarà effettuata dal dirigente, sulla base di criteri individuati dal MIUR, a partire da un’istruttoria svolta da un docente tutor, sentito il comitato per la valutazione dei docenti che è presieduto dallo stesso dirigente e che, in relazione alla sua composizione e ai suoi compiti, ha suscitato non poche critiche, come risulta anche dall’articolo di Carmela Salazar  in questo stesso numero del Menabò.
Successivamente il reclutamento avverrà tramite concorsi nazionali banditi su base regionale, cui potranno partecipare gli abilitati, ma che non prevedranno la formazione di graduatorie di idonei perduranti nel tempo; il meccanismo che prevedeva la riserva alle GAE del 50% dei nuovi posti sarà superato, anche se le graduatorie resteranno in vigore per la scuola materna e primaria. Con un emendamento si è stabilito che entro ottobre 2015 sarà bandito un concorso per il quale daranno punteggio l’abilitazione e il servizio a tempo determinato per almeno 180 giorni. Tramite delega al governo sarà inoltre definito un percorso triennale di accesso all’insegnamento nella scuola secondaria, con un contratto di formazione e apprendistato a tempo determinato, che consentirà di ottenere un diploma di specializzazione all’insegnamento secondario dopo il primo anno (necessario anche per insegnare nelle scuole paritarie).
Il piano di assunzioni rappresenta, dichiaratamente, una risposta alla procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea contro l’Italia per la non corretta applicazione della direttiva 1999/70/CEE sul lavoro a tempo determinato; il punto riguarda in particolare il rinnovo periodico dei contratti a termine per coprire posti vacanti, senza certezza sulla data di conclusione delle procedure concorsuali per l’assunzione in ruolo, in assenza di criteri per verificare se tale rinnovo corrisponda a un’esigenza reale e in mancanza di misure dirette a prevenire e sanzionare il ricorso abusivo alla successione di contratti a termine. Anche la sentenza del 26 novembre 2014 della Corte di Giustizia europea ha evidenziato le incoerenze della normativa italiana rispetto alla medesima direttiva, lasciando aperta la scelta  tra l’assunzione e il risarcimento come modalità di soluzione del problema. Mentre la palla è passata alla Corte Costituzionale il DDL si premura di fissare un massimo di tre anni per i contratti a tempo determinato e prevede l’istituzione di un fondo per i risarcimenti derivanti da provvedimenti giurisdizionali (10 milioni annui per il 2015-2016).
Non è chiaro fino a che punto la questione sarà risolta con il piano di assunzioni, anche perché restano esclusi i collaboratori amministrativi. I “reduci” dei vari tentativi di costruire un percorso adeguato di formazione-reclutamento degli insegnanti sono molti, così come i docenti che hanno prestato servizio nella scuola per periodi più o meno lunghi; d’altro canto, il malcontento di coloro che hanno visto sfumare – o allontanarsi nel tempo – la possibilità di stabilizzazione è profondo e anche per questo gli emendamenti parlamentari hanno allargato le chances di inclusione.
Il grande passo verso l’aziendalizzazione consiste tuttavia nell’iscrizione dei nuovi assunti in appositi “ambiti territoriali”, dai quali, tenendo conto delle autocandidature, i dirigenti scolastici potranno effettuare chiamate. Questi ultimi potranno anche proporre incarichi al personale di ruolo in altri istituti. L’insegnante potrà , se del caso, scegliere tra più offerte, mentre l’ufficio scolastico regionale (USR) assegnerà i docenti che risulteranno non collocati, eventualmente anche per inerzia del dirigente. Gli incarichi avranno la durata di tre anni, rinnovabili.
Le proposte dei dirigenti dovranno essere coerenti con il Piano dell’offerta formativa, che diverrà triennale e sarà predisposto dal collegio dei docenti.  Gli indirizzi e  le scelte di gestione saranno formulati dal dirigente scolastico, non più del consiglio di circolo o di istituto: quest’ultimo avrà, però, il compito di approvarli. L’USR effettuerà la verifica di compatibilità economico-finanziaria sulla base delle risorse disponibili e trasmetterà al MIUR (che con decreto provvede al finanziamento delle scuole) i risultati della verifica. Tuttavia, soprattutto dopo il passaggio alla Camera, emerge che non si tratta di una procedura bottom-up, cioè di mera sommatoria delle richieste delle scuole. Piuttosto, l’organico dell’autonomia – che sarà composto da posti comuni, di sostegno e per il potenziamento dell’offerta formativa e sarà utilizzabile anche per coprire le supplenze temporanee fino a 10 giorni – sarà determinato, a partire dall’anno scolastico 2016/17, con decreto interministeriale  e verrà ripartito tra le regioni in base al numero delle classi e degli alunni, tenendo conto di alcune caratteristiche delle aree e di particolari progetti (sarà dunque top down). Gli USR lo distribuiranno tra gli “ambiti territoriali”, comunicando la dotazione complessiva alle singole istituzioni scolastiche – che dovranno richiedere personale, materiali e infrastrutture in coerenza con le risorse disponibili. Sembra dunque che la compensazione tra tali risorse e le richieste delle scuole debba avvenire a livello di “ambito territoriale”, sotto il controllo degli USR.
Il DDL enumera i possibili obiettivi formativi da perseguire con l’organico dell’autonomia, accostando a un lungo elenco di competenze da rafforzare e di risultati “etici” da raggiungere (ad esempio il contrasto al bullismo, la cittadinanza attiva e democratica) una variegata serie di interventi specifici come la riduzione della dispersione, l’apertura pomeridiana, l’alternanza scuola-lavoro, le relazioni con il territorio, i percorsi formativi individualizzati, la riduzione del numero di alunni per classe, il sistema di orientamento, la valorizzazione del merito degli studenti.
Quanto al merito degli insegnanti, spetterà al dirigente compensarlo, utilizzando appositi “bonus”, da attribuire sulla base dei criteri definiti dal comitato per la valutazione dei docenti, considerando la qualità dell’insegnamento, il contributo al miglioramento della scuola, il potenziamento delle competenze degli alunni, l’innovazione didattica, le responsabilità nel coordinamento e nella formazione del personale (si tratta di 200 milioni di spesa dal 2016).
In definitiva, la valutazione da parte dei dirigenti guiderebbe la mobilità degli insegnanti, sarebbe decisiva ai fini della stabilizzazione dei precari e, in parte limitata, influirebbe sulla remunerazione.
Lo scetticismo degli insegnanti nei confronti della valutazione ha molte cause; dal rifiuto della cultura aziendalistica al timore di forme di arbitrio; dal rischio che sia favorito chi è inserito in determinate relazioni sociali o nutra una convinzione ideologica piuttosto che un’altra alla difficoltà di tenere conto delle condizioni culturali e sociali degli alunni nella valutazione degli esiti scolastici (come segnalato, ad esempio, da A. Gavosto in Il sistema scolastico italiano, 2014). Questi timori potrebbero essere rafforzati dal meccanismo che sta per essere messo in atto, una sorta di spoil-system per i docenti, che potrebbe, tra l’altro, determinare una loro maggiore mobilità, in contrasto con la richiesta di stabilità che viene dalle famiglie.
D’altro canto, per fugare i dubbi sulla possibile arbitrarietà dei criteri di scelta non sembrano sufficienti il divieto per i dirigenti di reclutare congiunti e la richiesta di pubblicità. L’enfasi posta sulla trasparenza e sulla diffusione delle informazioni – che si realizzerà più in generale rendendo  disponibili sul web, anche per le paritarie,  i dati rilevanti, inclusi quelli riguardanti i curricula del personale – sembra comunque rivolta a favorire la competizione tra le scuole.
Ad alimentari i dubbi e gli scetticismi contribuiscono le incertezze sulla valutazione dei valutatori. Si è infatti in attesa della revisione del sistema di valutazione dei dirigenti, divenuti oramai figure centrali del sistema. Nel frattempo si dovrebbe tener conto di quanto stabilito dal DPR 80/2013 (il regolamento, da attuare, sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione), dei criteri utilizzati per la scelta e la valorizzazione dei docenti, nonché dei risultati della scuola, in relazione alle azioni approntate dal dirigente. La valutazione inciderà sulla retribuzione di risultato e, infatti, è previsto l’aumento delle risorse da destinare alla remunerazione dei dirigenti, tenendo anche conto delle nuove competenze (12 milioni di spesa nel 2015, 81 nel 2016 e 14 nel 2017, di cui una parte per la retribuzione di risultato una tantum). Il nucleo di valutazione dei dirigenti scolastici dovrebbe essere presieduto da un dirigente e composto non solo da ispettori, ma anche da esperti esterni, che sembra sarebbero selezionati dall’INVALSI.
Un’autonomia scolastica spinta fino all’attribuzione ai dirigenti della possibilità di scegliere gli insegnanti sposta decisamente il sistema verso meccanismi competitivi tra scuole pubbliche e solleva anche altri problemi di cui si occupa Carmela Salazar  nell’articolo citato. Si tratta di un’evoluzione che può accrescere le differenze di qualità tra le scuole e le connesse diseguaglianze; questo rischio è accresciuto dal fatto che si stanno  rafforzando gli incentivi al finanziamento delle scuole pubbliche da parte dei privati e le agevolazioni al pagamento delle rette delle paritarie, anche attraverso forme di sgravio fiscale. In un settore, come quello dell’istruzione, in cui è molto problematico misurare con precisione l’output, una più intensa concorrenza non assicura il miglioramento  dell’efficienza del sistema mentre può facilmente avere un effetto negativo sull’equità. Ciò avviene se le famiglie più benestanti (e più istruite) sono non soltanto meno condizionate da considerazioni di costo ma anche maggiormente in grado di disporre delle informazioni necessarie per compiere le scelte migliori, come in realtà risulta anche da un recente documento dell’OCSE (When is competition between schools beneficial?, 2014). Le scuole percepite come migliori  probabilmente riceveranno richieste di iscrizioni superiori alla capienza e perciò potrebbero  adottare comportamenti razionali ma opportunistici, quali la selezione degli allievi più adatti allo studio (cream-skimming), per agevolare il proprio successo. Considerando, da un lato, la tendenza alla persistenza intergenerazionale dei titoli di studio, dovuta ai condizionamenti del background familiare sulla riuscita scolastica e, dall’altro, l’importanza dei peer-effects, ovvero dell’influenza sull’impegno e sui risultati di ciascuno della “qualità” dei compagni di scuola,  il rischio, non lieve, è di muovere verso un sistema con debole capacità di contrastare l’esclusione e di favorire  la mobilità sociale.

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