A proposito di corruzione nel reclutamento universitario e di come combatterla

Pemme, cioè cinque redattori del Menabò, riferendosi all’inchiesta sulle abilitazioni che ha portato all’arresto di diversi professori universitari, sostengono che si è dato poco rilievo alle caratteristiche di questo specifico atto corruttivo con la conseguenza di suggerire rimedi inappropriati. Secondo gli autori per prevenire questa forma di corruzione nel reclutamento universitario– ma anche altre – occorre introdurre (e applicare) severe sanzioni individuali e non ulteriori norme che rischiano di essere inefficaci e di generare altri problemi.

La vicenda dei professori universitari di diritto tributario finiti agli arresti domiciliari o colpiti da interdizione ha sollevato, come era facile prevedere e come è anche giusto che sia, un profluvio di commenti spesso interessanti ma in gran parte poco attinenti con il problema che (almeno stando alle cronache) è all’origine di questa triste vicenda.

Se aggiungiamo il nostro commento a quel profluvio la ragione è che intendiamo chiederci – diversamente da tutti o quasi tutti i commenti – quali sono le cause e quali i possibili rimedi non di questo o quel problema dell’università né della presunta generica tendenza, in quella istituzione, a non premiare sempre il merito ma piuttosto dello specifico problema che ha avuto i clamorosi sviluppi di cui si è detto.

Stando a quanto abbiamo appreso dai giornali sarebbe accaduto (il condizionale è una cautela d’obbligo) che un potenziale concorrente all’abilitazione scientifica nazionale del settore di diritto tributario sia stato “scoraggiato”, con mezzi convincenti, dal partecipare all’abilitazione. Questa inaccettabile ingerenza potrebbe apparire singolare poiché è tesa a scoraggiare non già la partecipazione a un concorso (da cui scaturirà l’immissione in ruolo del vincitore) ma la partecipazione a un’abilitazione che dà semplicemente il diritto a partecipare a quel concorso. Eppure, essa non è così singolare se si considera che quella forma di “scoraggiamento” è la via più sicura per evitare che al momento del concorso il candidato debole (ma evidentemente protetto) debba misurarsi con un candidato dotato di più titoli e rischi quindi di soccombere.

Per quel che si comprende, sembra che questa pratica dello scoraggiamento costituisse un modus operandi diffuso all’interno del settore scientifico e condiviso da gran parte dei professori ordinari ad esso afferenti; si può quindi ipotizzare (di nuovo, con tutte le cautele del caso) che fosse una strategia perversamente cooperativa tra gli attori più dotati di potere in questo “gioco”.

Come si è detto, i commenti che la vicenda ha suscitato hanno preso svariate direzioni in gran parte condizionate da una lettura dell’evento come prova del generale malfunzionamento dell’università italiana e, più specificamente, della (presunta) diffusa tendenza al nepotismo e alla corruzione. Su questa base sono state avanzate proposte di intervento caratterizzate dall’enfasi sulla necessità di introdurre nuove norme, di rendere più trasparenti i processi decisionali e anche di integrare le commissioni con soggetti esterni all’accademia. A favore di soluzioni di questo tipo si è schierata il ministro Valeria Fedeli e sulla stessa lunghezza d’onda si collocano le affermazioni di Raffaele Cantone, capo dell’Autorità anti corruzione.

Il nostro parere è che tra l’evento che è all’origine di tutto ciò e questi suggerimenti vi siano rapporti che al più si possono considerare flebili. Prima di illustrare in dettaglio questo punto è, però, opportuno ricordare che nei sistemi universitari i fenomeni di tipo corruttivo, in cui rientra quello che qui interessa, sono ben lungi dall’essere una specificità italiana.

Come ricorda Osipian (in Brigham Young University Education and Law Journal, 2012), secondo l’International Institute for International Planning la corruzione nei sistemi della formazione consiste “nell’abuso del ruolo di pubblico ufficiale per ottenere vantaggi privati distorcendo l’accesso alla formazione nonché la sua qualità e l’equità”.

Naturalmente le caratteristiche dei sistemi universitari condizionano le forme in cui la propensione alla corruzione – se vogliamo chiamarla così – tende a manifestarsi. Come documenta lo stesso Osipian nel sistema americano la corruzione è frequente nei processi di selezione all’ingresso degli studenti, nel venire meno agli obblighi didattici, nei rapporti con le imprese e in altro ancora. Per quello che riguarda la questione specifica della selezione del corpo accademico il problema principale in quel sistema sembra essere l’influenza che le imprese private possono avere nel condizionare sia il tipo di ricerca sia l’individuazione dei ricercatori a cui affidare incarichi nell’ambito dell’istituzione universitaria. Non solo. Come documenta un recentissimo articolo comparso sul New York Times, la selezione dei più meritevoli può essere impedita dal desiderio di compiacere, assecondandone anche le preclusioni religiose e dunque discriminando i docenti su queste basi di certo non meritorie, paesi nei quali si è trovato conveniente aprire sedi universitarie: il caso in esame riguarda la New York University a Abu Dhabi (cfr. M. Bazzi in New York Times, 26 settembre 2017).

In qualche modo, dunque, si tratta della selezione sulla base di criteri diversi dal merito scientifico, accertato nel modo più neutrale possibile. Ed è esattamente questa la piaga che si tende a considerare come specificamente italiano. Anche nell’episodio che coinvolge i docenti di diritto tributario il problema nasce dal tentativo di anteporre altri criteri a quelli del merito. Ed il fatto che nel caso specifico siano coinvolti interessi collegati all’attività professionale conferisce un tratto particolare alla vicenda che potrebbe, comunque, avere altri drivers: invece del merito si potrà sempre premiare qualche altra caratteristica preferita dal “decisore”.

E’ importante sottolineare che non si tratta di un problema che nasce da divergenze circa la concezione di cosa costituisca merito. Naturalmente questo problema è molto spinoso, ma nel caso in esame – come in molti altri – il “male” sta nel tentativo di imporre un criterio diverso dal merito e della cui diversità si è ben consapevoli. Al punto da impegnarsi a “scoraggiare” il meritevole dal fare domanda.

Di questo aspetto si dovrebbe tenere conto nel proporre “soluzioni” e si dovrebbe altresì tenere presente, come si è già detto, che questi casi di corruzione non sono una nostra specificità ma si verificano anche in altri sistemi nei quali, per quello che ci risulta, non si pensa di contrastarli introducendo sempre nuove norme con gli effetti negativi di cui diremo tra breve.

Si dovrebbe altresì considerare che questa forma specifica dell’atto corruttivo (scoraggiare, minacciare) ben difficilmente potrebbe trovare un ostacolo al suo manifestarsi in nuove norme sulla trasparenza delle valutazione e dei concorsi o sull’irrigidimento dei criteri da seguire per assegnare un’abilitazione. Poiché avviene tutto “prima”, nulla che abbia questa natura – indipendentemente da altri problemi che pure potrebbe creare – servirà allo scopo.

Dunque? Dunque ciò che occorre non è irrigidire le procedure ma punire, sanzionare questi comportamenti (ovviamente se accertati) e farlo in modo rapido ed efficace così da assegnare alla sanzione anche una funzione di scoraggiamento preventivo. Queste sanzioni devono essere individuali e effettivamente penalizzanti per chi può incorrere in quei comportamenti.

E’ questa una puntualizzazione rilevante che serve a chiarire l’insufficienza e l’inadeguatezza (oltre che l’iniquità) di soluzioni basate sulla penalizzazione ex post dei dipartimenti ai quali afferiscono i docenti responsabili di questi comportamenti attraverso la riduzione dei fondi ad essi assegnati qualora i risultati della ricerca saranno deludenti, come si presume che accadrà se non si scelgono i più “meritevoli”.

Sarebbe una soluzione poco adeguata e insufficiente perché la penalizzazione non sarebbe interamente a carico di chi ha determinato il problema ottenendone, naturalmente, un vantaggio personale che può essere di diversa natura. E potrebbe perfino non essere neanche parzialmente a suo carico se il centro del suo interesse – professionale ed economico – fosse collocato all’esterno dell’Università, come spesso accade in alcuni settori scientifico- disciplinari – cosicché il taglio delle risorse non susciterebbe in lui alcuna preoccupazione.

E sarebbe anche una soluzione iniqua perché priverebbe di risorse membri del dipartimento capaci ed impegnati che difficilmente possono essere considerati, in qualsivoglia senso, responsabili del comportamento dei loro disinvolti colleghi.

La punizione, quindi, dovrebbe essere strettamente individuale e sufficientemente severa, e naturalmente anche di carattere penale. E andrebbe accantonato il progetto di introdurre ulteriori norme che dovrebbero condurre alla piena trasparenza e anche assicurare l’affermazione del merito.

Da un lato è difficile immaginare come queste norme potrebbero risolvere il problema, anche quando questo non fosse quello dello “scoraggiamento” rispetto al quale esse sono, lo si è già detto, del tutto impotenti. Forse restringendo fino ad annullarla, la discrezionalità di chi giudica, necessariamente accrescendo il peso di indicatori meramente quantitativi?   Siamo sicuri che sia un bene procedere verso una meccanica applicazione di siffatti indicatori, peraltro essi stessi a rischio di corruzione a monte (e il riferimento è alle modalità con le quali si decidono le pubblicazioni sui top journal sulle quali il Menabò ha pubblicato un intervento di Gilles Saint-Paul)? Le ragioni per dubitarne sono molteplici.

D’altro lato va anche considerato che nuove norme implicano non soltanto maggiori adempimenti ma anche minore generalizzata fiducia con effetti negativi sulla gradevolezza del ruolo di professore universitario che difficilmente prelude alla possibilità di attrarre e trattenere i “migliori”, intesi come tali non soltanto sotto il profilo scientifico ma anche sotto quello morale.

Concedere fiducia motiva i migliori e se i “peggiori” ne traggono improprio vantaggio, non resta che punirli severamente.

Pemme condensa le iniziali dei nomi degli autori di queste note: Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Michele Raitano, Elena Paparella e Paolo Paesani.

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