A dieci anni da Soverato

Sono passati già 10 anni dalla tremenda notte tra il 9 e 10 settembre del 2000, quando la piena del torrente Beltrame spazzò via il campeggio “Le Giare”, nei pressi di Soverato, sorprendendo nel sonno i pochi turisti rimasti e una comitiva di disabili accompagnati da volontari dell’Unitalsi di Catanzaro. L’onda di piena, dopo 48 ore di pioggia intensa, arrivò improvvisa verso le 5 del mattino, entrò nei bungalow, travolse le tende, trascinò via ogni cosa. Qualcuno riuscì a trovare scampo salendo sugli alberi e sui tetti delle poche strutture in muratura, gli altri furono travolti dal fango e dai detriti e trasportati verso il mare. Persero la vita 13 persone.

Il campeggio si trovava esattamente all’interno dell’alveo del torrente, con regolare concessione periodicamente rinnovata. Anzi, in alcuni degli atti ufficiali di ratifica dell’autorizzazione (quelli dal 1990 al 1999, praticamente identici) il Ministero delle Finanze si cautelava inserendo una clausola che sottraeva ai propri uffici qualunque responsabilità: “Eventuali danni che possono derivare a persone o cose per effetto della piena del torrente Beltrame sono a totale carico della ditta richiedente, in modo da tenere sollevata e indenne da qualsiasi reclamo o molestia l’ Amministrazione Finanziaria”. (Corriere della Sera, 13 settembre 2000). Solo pochi anni prima il Genio Civile aveva negato la concessione, richiamando correttamente alle possibili conseguenze di una esondazione. Successivamente, però, aveva cambiato idea sulla base di una nuova perizia che indicava in 150 o 200 anni il tempo di ritorno di una piena nella stagione estiva. E allora anno dopo anno il campeggio si era ingrandito, erano state realizzate abusivamente alcune costruzioni –  necessarie alla gestione dei servizi – sottraendo sempre più spazio al corso d’acqua, ridotto a poco più di un rigagnolo dagli ingenti prelievi di monte. In fondo che lì ci fosse un fiume se lo ricordavano in pochi, e comunque “non costituiva pericolo” come disse in tribunale il geometra del Comune. E invece quella notte il Beltrame diede un segnale drammatico della sua presenza, rivelando la scelleratezza delle scelte effettuate e riprendendosi in poche ore il territorio che gli era stato rubato. Le perizie difensive hanno parlato di evento straordinario e imprevedibile, causato dalle piogge eccezionali e, probabilmente, da un tappo creatosi a monte, in una strettoia, per l’accumulo di detriti. Questo ha lasciato nell’opinione pubblica l’idea che la causa principale della tragedia sia stata la mancata manutenzione, il non aver tagliato la vegetazione e ripulito l’alveo. Secondo altri esperti, invece, l’evento era assolutamente prevedibile, dal momento che quel corso d’acqua aveva già esondato altre volte in passato e solo due anni prima, nel 1998, aveva allagato tutta la struttura.

La storia di Soverato può sembrare adesso, così raccontata, un episodio unico, una irripetibile mistura di avidità, ignoranza (delle più basilari nozioni di dinamica fluviale) e criminale leggerezza. Una tragedia che per essere evitata non aveva bisogno di studi scientifici e complicati modelli idraulici ma solo di un po’ di buon senso. E invece rappresenta un caso esemplare di come in Italia si sia operato in materia di gestione dei fiumi e difesa del suolo. Invece di concepire sensate strategie di pianificazione, incardinate sul concetto della non occupazione delle aree destinate all’espansione naturale dei corsi d’acqua, la difesa del suolo è stata basata quasi esclusivamente sulla realizzazione di opere di ingegneria idraulica, disseminando i nostri fiumi di briglie, difese spondali e muri per la messa in sicurezza. In molti casi si è trattato di interventi puntuali, privi di una effettiva valutazione della reale efficacia e delle conseguenze a scala di bacino. Il problema era risolto, forse, a livello locale ma il rischio non era eliminato bensì semplicemente trasferito più a valle. Piuttosto che puntare a una reale messa in sicurezza del territorio e a un corretto equilibrio tra esigenze di crescita e tutela della natura, si è privilegiata la logica degli interessi economici, utilizzando gli interventi strutturali per occupare le aree di pertinenza fluviale e incrementare a dismisura la crescita edilizia.

L’anniversario dell’evento di Soverato è un’occasione per fare un serio bilancio di cosa si è fatto per migliorare le politiche di difesa del suolo nel nostro Paese, di cosa è cambiato in questi 10 anni. Poco a Soverato, dove ancora non si conoscono con certezza le cause dell’alluvione, dove le strategie per aumentare la sicurezza consistono esclusivamente nella spesa di somme ingenti per pulizia dell’alveo, dove non è stato effettuato uno studio approfondito sull’intero sistema fluviale – finalizzato alla valutazione e gestione del rischio lungo tutto il corso d’acqua – ma è stato realizzato un argine in moduli di cemento che difende certamente la strada dal torrente ma non il torrente dalle auto, dal momento che uno di questi moduli è ormai da anni spostato per consentire l’accesso a una strada, in pieno alveo, che porta a un rimessaggio di barche e a un locale notturno sorto a pochi metri dal luogo della tragedia! E poco è stato fatto anche nel resto dell’Italia, come emerge nel periodico ripetersi di eventi calamitosi e nell’incremento dell’entità dei danni provocati dalle inondazioni e delle spese ordinarie – per la manutenzione delle opere – e straordinarie. È quindi necessario, come il CIRF[1] chiede con forza da anni, un cambiamento deciso dei presupposti alla base delle politiche di difesa del suolo. Da una parte si deve abbandonare l’utopia di una “messa in sicurezza” di tutto il territorio, imparando a “convivere” in maniera intelligente e programmata col rischio residuo, spesso inevitabile, attraverso la riduzione della vulnerabilità degli edifici all’inondazione, l’implementazione di un razionale sistema di strumenti assicurativi, il rafforzamento delle tecniche di previsione delle piene.

Dall’altra bisogna inseguire una maggiore sicurezza non attraverso l’artificializzazione dei fiumi bensì incrementando la loro naturalità, eliminando una volta per tutte l’assurda convinzione che i due obiettivi siano tra loro in antitesi. Assecondare – dove le condizioni del territorio lo permettono – le dinamiche fluviali significa migliorare le condizioni dell’ecosistema e al tempo stesso ridurre il rischio idraulico e le spese. Delocalizzare strutture a rischio, puntare al riequilibrio del ciclo sedimentario, restituire spazio al fiume allontanando gli argini, incrementare la capacità di laminazione del reticolo idrografico minore sono solo alcune delle soluzioni possibili, sperimentate con successo in molti Paesi europei e ultimamente anche in qualche contesto italiano. È auspicabile che questo insieme di strumenti e soluzioni non continuino a caratterizzare solamente alcuni interventi sporadici o isolate “buone pratiche” da mostrare nei convegni, ma che rappresentino una modalità sempre più diffusa di governo del territorio. Affinché quei 13 morti non rimangano solo una memoria ingombrante.


[1] Il CIRF (Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale) è un’associazione tecnico-scientifica senza fini di lucro fondata nel luglio 1999 per alimentare il dibattito sulla riqualificazione degli ecosistemi fluviali e promuovere criteri di maggiore sostenibilità nella gestione dei corsi d’acqua. L’azione del CIRF si basa su informazione e divulgazione (in particolare tramite il sito www.cirf.org e la rivista online “RF”), corsi di formazione ad enti pubblici e professionisti, workshop e convegni, progetti pilota.

Schede e storico autori