A cosa servono i vecchi?

Majlinda Joxhe e Fabrizio Patriarca intervengono nel dibattito sul ruolo degli anziani in Italia focalizzandosi sul contributo produttivo dei lavoratori anziani. Joxhe e Patriarca basandosi sui dati dell’indagine PIAAC condotta dall’OCSE, analizzano le differenze per classe di età nelle competenze e nelle abilità impiegate dai lavoratori e le principali conclusioni che raggiungono sono che il ruolo svolto dai lavoratori cambia con l’età e, inoltre, che vi è una forte complementarità tra le competenze delle diverse generazioni nel processo produttivo.

L’infelice tweet del governatore Toti sull’utilità dei vecchi ha avuto il merito di stimolare il dibattito su ruolo degli anziani, in particolare in una società come la nostra, in cui la quota di anziani sul totale della popolazione, ha continuato e continuerà a crescere, come ricorda anche l’ultimo rapporto Ageing in Europe, Eurostat 2020. Un aspetto rilevante riguarda l’effetto dell’invecchiamento della popolazione sul mercato del lavoro, in particolare nel suo impatto sulla produttività. Da un lato, medici e psicologi hanno provato come l’avanzamento dell’età può determinare una perdita sia di capacità fisiche che di capacità cognitive. Dall’altro, gli economisti del lavoro hanno spesso sottolineato come a questo declino della produttività individuale in età avanzata non corrisponda una diminuzione dei salari, che al contrario, in Europa e ancora di più in Italia, presentano profili crescenti nell’età fino al pensionamento.

Nella letteratura economica si sottolinea tuttavia come questo disallineamento non sia che l’altro lato della medaglia di un rapporto inverso tra produttività e salario nelle fasi iniziali della vita lavorativa. Il fatto che un lavoratore ci perda relativamente all’inizio della propria vita lavorativa per poi recuperare quando più anziano, sarebbe il risultato di un meccanismo sottostante simile a quello dei salari di efficienza, che determina un maggior attaccamento all’impresa, un maggior impegno da parte dei lavoratori e una riduzione del turnover (il tasso di ricambio dell’occupazione nell’impresa). Ciononostante, diversi sociologi ed economisti del lavoro, sottolineano che una struttura dei mercati interni del lavoro fortemente imperniata sull’anzianità, se combinata ad un processo duraturo di invecchiamento della popolazione quale quello cui stiamo assistendo, minaccia la competitività di medio e lungo periodo del nostro sistema produttivo. Ad aggravare la situazione contribuirebbe poi l’innalzamento dell’età pensionabile, un cambiamento necessario a rimediare all’altro effetto dell’invecchiamento della popolazione, quello della sostenibilità dei sistemi di protezione sociale.

La via di uscita da questo circolo vizioso risiederebbe nelle cosiddette politiche di invecchiamento attivo, politiche frequentemente evocate, relativamente studiate, raramente implementate. Politiche che solitamente sono incentrate sulla formazione continua, che sicuramente è uno strumento fondamentale, per quanto anch’esso marginale nelle politiche del lavoro italiane, che si scontra con la scarsa propensione sia dell’impresa che del lavoratore ad investire su un capitale umano che ha comunque un orizzonte temporale limitato. Al fine di disegnare politiche alternative ed efficaci, e magari passare dall’evocare all’agire, è importante a nostro avviso entrare nei dettagli della relazione tra anzianità e produttività. Innanzitutto, occorre analizzare più a fondo l’impatto dell’età sul capitale umano, e poi distinguere tra effetti sulla produttività individuale e su quella d’impresa.

Se le capacità fisiche tendono indiscutibilmente a ridursi con l’avanzare degli anni, la relazione tra età e indicatori di performance dipende fortemente da quale dimensione della performance si considera, con alcune dimensioni non fisiche che mostrano addirittura una relazione crescente con l’età (si veda De Ven et al. in Journal of Organizational Behaviour, 2008 per una survey). In particolare, a tal proposito si usa distinguere da una parte tra due tipi di capacità cognitive: quelle “fluide”, che riguardano la performance e la velocità nel compiere operazioni nuove, includendo velocità percettiva e capacità di ragionamento, e quelle “cristallizzate”, che riguardano la conoscenza accumulata, come la capacità di esprimersi e la dimensione del vocabolario. Le prime peggiorano con l’età mentre le altre possono anche migliorare.

 A nostro avviso è però necessario considerare un aspetto ulteriore, spesso sottovalutato dagli economisti del lavoro, ovvero quello della complementarità nel processo produttivo tra lavoratori che possono anche avere caratteristiche simili relative al livello educativo e l’inquadramento, ma con compiti differenti. In altre parole, l’invecchiamento dei lavoratori può accompagnarsi ad un cambiamento del loro ruolo nel processo produttivo, cambiamento in termini di attività compiute e di relazione con gli altri lavoratori. Questo meccanismo, a nostro avviso, è in grado anche di spiegare un’inconsistenza nella letteratura empirica (si veda Gobel e Zwick in De Economist 2008) sull’impatto dell’età sulla produttività, impatto che risulta negativo se misurato tramite la performance dei singoli lavoratori mentre risulta non significativo se misurato sulla performance a livello di impresa.

A tal fine, riportiamo parte dei risultati di un’analisi che stiamo svolgendo, utilizzando i dati per l’Italia di un’indagine internazionale condotta dall’OCSE che valuta le prestazioni delle competenze in un quadro multidimensionale: l’indagine PIAAC (Program for the International Assessment of Adult Competencies, OECD 2013). Questa indagine raccoglie informazioni sulle diverse attività e capacità coinvolte nelle diverse tipologie di occupazione. In particolare, il database riporta ventiquattro indicatori: cinque si riferiscono all’elaborazione delle informazioni (lettura, scrittura, matematica, capacità ICT e problem-solving), i restanti diciannove corrispondono a caratteristiche generali delle attività svolte (discrezionalità, apprendimento sul lavoro, capacità di influenza, abilità cooperative, capacità di auto-organizzazione, abilità fisiche, destrezza, ecc.). Le figure 1A e 1B riportano i coefficienti relativi alla classe di età di una regressione su ciascuno dei 24 indici controllando per genere, livello di educazione e ore lavorate, usando i pesi campionari disponibili in modo da essere rappresentativi per settore di attività economica (NACE Rev.1). Ad esempio, per i lavoratori nella classe 25-34, la percentuale di tempo impiegato in attività di cooperazione è mediamente superiore di un punto rispetto a quelli della classe di riferimento, che è quella 35-44.

I risultati evidenziano una marcata differenza degli indici per classe di età, con un significativo andamento monotono e crescente o decrescente in quasi tutti i casi. In linea con la letteratura medica e psicologica, le attività fisiche, quelle che richiedono discrezionalità o il compimento operazioni numeriche hanno un profilo per età decrescente. La cosa vale anche, in maniera meno scontata, per le attività di vendita e il tempo di lavoro in cooperazione. Ci sono al contempo numerose tipologie di attività che mostrano un andamento inverso. Questo vale in particolare per le attività che coinvolgono unidirezionalmente gli altri lavoratori, in opposizione alla cooperazione. È il caso delle attività da formatori, di quelle che consistono nell’influenzare, pianificare e organizzare i processi di lavoro, e di quelle di consulenza e diffusione.

Nell’ambito delle dimensioni cognitive, lo stesso andamento crescente riguarda le operazioni di scrittura, di problem-solving e infine l’attitudine e il tempo speso a formarsi ed informarsi. La figura 2, che presenta i risultati per l’aggregazione degli indici di fonte PIAAC secondo la metodologia proposta da Peri e Sparber (in American Economic Journal: Applied Economics 2009), aiuta a sintetizzare e rendere più nitido il quadro: il tempio medio impiegato in attività manuali decresce con l’età e quello impiegato in attività di altro tipo quali quelle cognitive, interattive e soprattutto quelle organizzative hanno aumenta con l’avanzare dell’età.

Si può notare facilmente che le attività e le capacità con una relazione crescente con l’età si concentrano spesso in occupazioni relative al segmento più ricco del mercato del lavoro, come il mondo delle professioni e del management. Nel disegnare le politiche per l’invecchiamento attivo e quelle previdenziali ciò suggerisce l’importanza di considerare anche gli aspetti di disuguaglianza tra lavoratori anziani. Allo stesso tempo questa divisione evoca anche la distinzione tra capacità che si apprendono e capacità che si sviluppano, distinzione che è alla base delle analisi su quali lavori siano più o meno a rischio di essere sostituiti dalle macchine (Autor in Journal of Economic Perspectives, 2015).

In ogni caso, l’evidenza rilevante è la fortissima eterogeneità tra le attività, le capacità e quindi il ruolo nel processo produttivo di anziani e non. Questo conferma la nostra ipotesi di una rilevante forte complementarità tra generazioni diverse, in accordo alla quale sarebbero indicate politiche del lavoro che affrontino il tema dell’invecchiamento in una logica del passaggio del testimone anziché in quella della rottamazione e del conflitto intergenerazionale.

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