VIVENDI-MEDIASET: fine di un’era?

Medianus sostiene che l’operazione dell’anno Vivendi-Mediaset potrebbe introdurre maggiore concorrenza e mettere fine alla stagione del conflitto di interesse che ha caratterizzato la politica e i media negli ultimi 20 anni. Secondo Medianus ciò avverrà a patto che la dominanza nella tv in chiaro di Mediaset non si sposi con quella di Telecom Italia nelle telecomunicazioni, attraverso il ruolo di Vivendi nelle due società. Medianus richiama la necessità di chiare regole pro-concorrenziali e invita ad attendere i risultati dei lavori delle Autorità.

Quella che è stata definita la “guerra dei vent’anni” nella televisione (e nella politica) in Italia potrebbe avere un epilogo o, comunque, una svolta nel 2017.

Mediaset, la società controllata dalla famiglia Berlusconi, sta subendo una scalata da molti definita ‘ostile’ da parte del tycoon Francois Bolloré, controllore del Gruppo Vivendi, colosso internazionale dei media.

La vicenda è rilevante sia sotto il profilo politico (il superamento della ”esperienza televisiva” della famiglia Berlusconi segnerebbe il superamento via mercato – del mai risolto conflitto di interessi che riguarda il Presidente di Forza Italia), sia sotto il profilo del mercato dei media – e dell’informazione in generale – nel nostro paese, perché scongelerebbe il duopolio RAI-Mediaset nel mercato della televisione in chiaro e introdurrebbe nuove dinamiche competitive.

Il punto interrogativo è tuttavia d’obbligo perché, per il momento, il gruppo Vivendi ha fermato la sua scalata alla soglia oltre la quale scatta l’obbligo di lancio dell’Offerta Pubblica di Acquisto. E ciò è dovuto a una vecchia legge – la famigerata Legge Gasparri – che impedisce concentrazioni tra soggetti che si trovino in una posizione significativa tanto nel settore dei media, quanto in quello delle telecomunicazioni.

Già, perché oggi il gruppo Vivendi è anche – e soprattutto – il controllore (almeno di fatto) di Telecom Italia – il soggetto dominante sul mercato delle comunicazioni elettroniche, titolare della risorsa essenziale della vecchia rete pubblica – pur possedendo appena il 23,943% del capitale sociale.

L’articolo 43, comma 11, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 – che recepisce e integra la Legge Gasparri – prevede che “le imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 10 agosto 2003, n. 259, sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni (SIC) ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo”.

Secondo alcuni osservatori questa norma puntava ad evitare che il soggetto dominante nel settore delle telecomunicazioni (Telecom Italia) potesse espandere la sua posizione di forza anche nel settore audiovisivo. All’epoca Telecom Italia aveva, infatti, partecipazioni nell’emittente La7 (allora Telemontecarlo) e in qualche misura alcuni leggevano questa norma come un possibile argine allo sviluppo di un concorrente forte, verticalmente integrato, nel mercato della televisione in chiaro nel quale, secondo l’Agcom, sia RAI che Mediaset detenevano una posizione dominante congiunta. Quella norma, quindi, pensata nei primi anni duemila come argine per un possibile ingresso di Telecom Italia nel mercato televisivo ritorna oggi ‘in difesa’ di Mediaset rispetto a possibili scalate ostili volte a contenderne il controllo alla famiglia Berlusconi.

L’attuale Governo, per bocca del Presidente Gentiloni e del Ministro Calenda, ha commentato negativamente il tentativo di scalata di Vivendi “per le modalità” con le quali l’operazione si è svolta, definendo Mediaset ‘un asset strategico per il paese’.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), chiamata a verificare se le soglie del citato art.43 siano state superate, ha avviato un’istruttoria a fine anno. In una nota e in una successiva delibera, l’Autorità ha fornito le sue prime valutazioni. Da queste si evince che tanto Telecom Italia, quanto Mediaset sembrano superare, in termini di ricavi, le soglie stabilite dalla legge nei rispettivi settori di riferimento.

Il successivo passaggio consisterà nello stabilire se le partecipazioni di Vivendi in entrambe le società attribuiscono ad essa una posizione di controllo o di collegamento. La nozione di ‘controllo’ è associata non tanto alla partecipazione azionaria (sopra il 50%) ma alla capacità di determinare un’influenza dominante in ragione della partecipazione azionaria, della distribuzione degli altri azionisti, dei patti di sindacato e così via. La nozione di ‘collegamento’ – pure citata dalla legge – si riferisce invece a partecipazioni superiori al 10% del capitale azionario. Secondo l’art. 2359 del Codice civile, infatti, sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza notevole si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati. Come in questo caso.

L’autorità deve quindi stabilire se alle posizioni assunte da Vivendi, rispettivamente, in Telecom Italia e in Vivendi si possa attribuire almeno un’influenza notevole (collegamento) se non un’influenza dominante (controllo).

L’apertura dell’istruttoria è stata sufficiente, per il momento, a congelare la posizione di Vivendi ad un passo dal lancio di un’Opa (circostanza che avrebbe potuto far fatto scattare il controllo di Vivendi su Mediaset).

In ogni caso ove fosse dimostrato il controllo o persino il semplice collegamento di Vivendi nelle due società tale esito sarebbe oggi vietato dalla Legge.

In quel caso sarà interessante capire quali spazi di manovra saranno lasciati a Vivendi e quali strategie la stessa società intenderà adottare (ad esempio ‘scegliere’ tra Telecom e Vivendi). Un possibile esito, secondo molti osservatori, potrebbe essere un accordo tra Bolloré e Berlusconi; tuttavia, secondo la legge anche un tale accordo (ove comportasse un controllo congiunto su Mediaset) sarebbe vietato in ragione della posizione rivestita da Vivendi in Telecom Italia. In ogni caso ogni intesa andrebbe comunicata all’Autorità per le sue valutazioni.

Sapremo presto, entro la fine del mese di aprile, se le verifiche che sta compiendo l’Agcom condurranno a questa conclusione, ovvero se il gruppo Vivendi, per rientrare nei limiti di legge, deciderà di eliminare la situazione di ‘collegamento’ in una delle due società.

Al di là degli aspetti giuridico-formali, quelli economicamente più rilevanti di questa vicenda riguardano in primo luogo, come si è detto, la possibilità che il principale gruppo televisivo privato italiano possa superare il confine dell’italianità e rientrare nel gruppo internazionale Vivendi. In tal modo accederebbe a contenuti e strategie di internazionalizzazione che sono finora mancate al gruppo Mediaset, troppo confinato al territorio italiano per reggere la concorrenza di multinazionali come Sky (e ciò è provato dalla difficoltà ad investire nei diritti trasmissivi del calcio nazionale ed europeo). Inoltre, economicamente rilevante sarebbe anche lo sfruttamento delle sinergie tra mondo delle tlc e mondo dei media, tipico dei fenomeni crescenti di convergenza che osserviamo in Europa e negli Stati Uniti.

Il lancio di offerte cosiddette ‘Quadruple Play’ (telefonia fissa, telefonia mobile, internet e tv) da parte di un unico operatore, con prezzi competitivi, che sono una realtà in molti paesi, in Italia stentano a decollare.

Oggi non è più possibile pensare separatamente alle regole per le telco e i media come sembra auspicare la vecchia Legge Gasparri. Profonde interdipendenze si manifestano ormai sia dal lato dell’offerta, con i continui processi verticali di integrazione proprietaria e contrattuale, sia dal lato della domanda, con un consumatore sempre più interessato alla fruizione ubiqua, e persino in mobilità, di contenuti ad elevata capacità di banda, indipendentemente dalla piattaforma trasmissiva e dal terminale con il quale si connette.

Tipicamente, i processi di convergenza telco-media, pongono il tema del confine dei mercati rilevanti, con un perimetro destinato ad allargarsi al crescere della varietà dei prodotti e servizi oggetto di integrazione. Il paradigma di riferimento è quello dei mercati multi-versante rispetto ai quali le dinamiche concorrenziali avvengono su più direzioni e con una serie di effetti, per il benessere sociale, non più misurabili e valutabili considerando un singolo versante. Al tempo stesso, occorre tuttavia governare con attenzione i processi di transizione perché è al loro interno che possono manifestarsi fenomeni selettivi di rafforzamento di posizioni dominanti, specie nei casi in cui i fenomeni di convergenza interessino operatori che sono dominanti (singolarmente o congiuntamente) nei rispettivi “versanti”.

Il tema che si pone è se i vantaggi della convergenza di traducano in un ampliamento della libertà di scelta dei consumatori all’interno di una data offerta e come tale libertà vada rapportata ad un possibile restringimento della libertà di scelta tra offerte concorrenti.

Si tratta di una vecchia e non sopita questione che si era già posta all’inizio degli anni duemila, sull’ondata delle concentrazioni verticali negli USA. Allora, tuttavia, l’approccio antitrust era quello più semplice e si fondava su perimetri certi, e tutto sommato stabili, dei mercati rilevanti. Il divieto di esclusive e/o la promozione di wholesale offer a vari livelli di disaggregazione, tanto sulle reti quanto sui contenuti, hanno rappresentato i rimedi tipici.

Oggi il quadro è profondamente diverso perché questi fenomeni hanno luogo nel cosiddetto ecosistema digitale, con l’ingresso prepotente di nuove forme di aggregazione, distribuzione, fruizione, valorizzazione dei contenuti. Tutto ciò è avvenuto all’ombra della rivoluzione nell’advertising generata da una profilazione degli utenti sempre più sofisticata.

Guardando all’accesso ai contenuti, occorre comprendere se eventuali esclusive sui contenuti siano davvero giustificate o mantengano caratteristiche di foreclosure e se si debba procedere ad offerte wholesale con banda dedicata per canali HD.

Così come bisogna chiedersi se la tutela del pluralismo politico-sociale e culturale sia solo un residuo ingombrante dell’era analogica o piuttosto – magari con regole più leggere ma non meno efficaci – non debba continuare a rappresentare una preziosa bussola in grado di orientare il confronto democratico nel rapporto con i media anche nell’ecosistema digitale. Oppure se la libertà di scelta di un consumatore interessato alla fruizione di everything, everywhere sia ancora compatibile con ostacoli alla interoperabilità dei decoder, dei software e delle piattaforme che impediscono la piena mobilità nonché la “portabilità” dei contenuti.

Una regolazione pensata in contesti diversi deve aggiornarsi per non costituire un freno allo sprigionarsi della concorrenza nell’ecosistema. Ma ciò va fatto senza dimenticare le finalità pro-concorrenziali e di tutela del pluralismo che costituiscono, ancora oggi, requisiti indispensabili affinché i processi di convergenza siano equilibrati e vantaggiosi per l’industria e per i consumatori. E’ vero: le incursioni francesi in Italia sono tante e riguardano pezzi storicamente importanti del sistema economico italiano, dalle assicurazioni alle banche, dall’energia alle telecomunicazioni, dalla distribuzione commerciale ai media. Ed è altrettanto vero che, al contrario, per le imprese italiane è molto difficile penetrare nel sistema economico francese, anche per forme di protezionismo e di statalismo assai più incisive di quelle del nostro paese.

Ma è davvero un paradosso che oggi la difesa dell’italianità possa utilizzare come strumento una normativa introdotta dal Governo Berlusconi in pieno conflitto d’interesse. In molti si chiedono se un cambio nel controllo di Mediaset non possa, invece, rappresentare una grande opportunità per accrescere il pluralismo nei media italiani, sganciandoli dalla politica e proiettandoli in una dimensione competitiva internazionale. Un certa italianità c’è anche nel nostro modello di pluralismo televisivo e nel conflitto di interessi con la politica. Di essa non sentiremmo certo la mancanza. Nelle prossime settimane ne sapremo di più.

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