“Vincoli ciechi”: i tagli alla spesa e il diritto alla salute

Paolo De Ioanna e Roberto Fantozzi si occupano degli effetti del vincolo di bilancio sulle prestazioni sanitarie e in particolare sulla loro disparità tra le regioni del Nord e del Sud. Dopo aver analizzato gli aspetti giurisprudenziali, essi documentano le disparità regionali nell’erogazione/fruizione dei Livelli Essenziali di Assistenza e sostengono che la funzione «sanità» dovrebbe essere organizzata secondo plessi territoriali ottimali (consorzi tra Regioni– aree regionali ottimali) prevedendo, contro l’opportunismo, sanzioni a carico dei soli amministratori.

Rispetto al diritto alla salute il vincolo dell’equilibrio di bilancio è venuto assumendo una funzione ermeneutica «forte», soprattutto nello svolgimento di una ben precisa linea della giurisprudenza, amministrativa e ordinaria, – che prende le mosse da precisi orientamenti della Consulta (cfr. in particolare, sent. Corte Cost. le n. 296 del 2012) – in materia di legittimità dei tetti di spesa sanitaria e delle restrizioni/specificazioni dei LEA (livelli essenziali di assistenza) declinati a livello regionale, anche sulla base di indici reddituali familiari. Il tema del vincolo non derogabile del bilancio pubblico ha valenza generale per comprendere i possibili sviluppi nelle linee di interpretazione del sistema della nostra Carta costituzionale. In particolare, si tratta di capire se e in che misura gli organi della rappresentanza politico democratica, (le Camere e il Governo), siano nelle condizioni di comprendere e quindi dominare, almeno sotto il profilo cognitivo, il nucleo significativo delle scelte in materia di bilancio che essi deliberano e i relativi effetti sulle posizioni soggettive – che danno corpo ai livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali ( art. 117, secondo comma, lett. m, della Costituzione) – con specifico riferimento ai territori che compongono l’unità del paese.

Una concezione realista e storicamente fondata di questi diritti dovrebbe articolarsi su due nessi essenziali: il diritto viene posto e riconosciuto direttamente nella Carta costituzionale; la sua declinazione deve necessariamente concretizzarsi dentro uno schema istituzionale che struttura tecniche e fonti di finanziamento del diritto idonee a renderlo stabile, tendenzialmente uguale e prevedibile; se queste fonti e queste tecniche rendono incerta, instabile e irragionevolmente diseguale la sua fruizione entriamo nell’area della violazione dei criteri di uguaglianza – diseguaglianza motivata ed oggettivata, che danno sostanza alle istituzioni costituzionalmente riconosciute. E il diritto alla salute è una istituzione riconosciuta come essenziale in Costituzione (art. 32 e 117, comma secondo, lett m).

Le scelte del legislatore hanno condotto il livello di diseguaglianza nelle prestazioni sanitarie tra le regioni del Nord e del Sud al di là di limiti coerenti e compatibili con il principio di uguaglianza – diseguaglianza, motivata oggettivamente. Il vincolo comunitario destruttura non solo e non tanto il livello di tutela ammissibile ma la stessa oggettività e ragionevolezza della sua applicazione. Costringe ad applicare la restrizione secondo tempi e modalità che non sono chiari, comprensibili e prevedibili.

Norme di legge, statale e regionale, e prassi radicano un’immotivata variabilità regionale, incertezza e non prevedibilità che equivalgono alla violazione del diritto; il nucleo essenziale non comprimibile, seguendo la lettura della Corte Costituzionale, coincide in sostanza con la sua stabilità e prevedibilità, su base territoriale e soggettiva. Il bene primario della vita in questione si fonda sulla sua fruizione certa, il suo perimetro (i LEA) deve essere certo, uguale e fruibile effettivamente su tutto il territorio nazionale anche se può essere definito, nel suo nucleo, in modo da contemperarlo con altre posizioni. Le Regioni devono assolvere a questi criteri di certezza e stabilità, finanziariamente fondati dallo Stato, ma ad esse non può invece essere delegata la compressione, non ragionevole e immotivata, di posizioni soggettive dei fruitori del diritto e degli operatori economici, pubblici e privati, che lo rendono in concreto attivabile.

Occorre, dunque, un assetto organizzativo e tecnico delle prestazioni, anche nei profili del loro finanziamento, che tenda a rendere uguale la posizione degli aventi diritto ai LEA, cioè faccia sì che l’azione politico legislativa si qualifichi per una chiara organizzazione verso la fruizione «uguale» dei LEA. Se sul territorio esistono differenze oggettive (popolazione, reddito, età, tipologia delle malattie, ecc) l’azione della legge (statale e regionale) e della amministrazione (regolamenti) deve tendere a eliminare queste differenze e a stabilizzare un sistema di aspettative soggettive che si fondi su una chiara giustificazione e comprensione delle eventuali differenziazioni: nonché sulla fondata percezione che esse saranno temporanee. Solo un sistema razionale che miri a realizzare un’effettiva uguaglianza delle aspettative dei singoli può dirsi coerente con l’assetto della stessa Costituzione. E la coerenza assume una sua valenza giuridica in quanto spiega le eventuali differenze di trattamento su basi oggettive e chiare; l’oggettività e la chiarezza rendono stabile e funzionale il sistema dei rapporti sociali e permettono una sua articolazione in formule giuridiche oggettive e eventualmente tutelabili anche in via contenziosa.

E in questo senso la residenza territoriale non può essere motivo di discrimine nella fruizione dei LEA. La «mala gestio» degli amministratori regionali e sanitari non può fondare in modo oggettivo e motivato una disparità di trattamento; si tratta di un diritto di cui il cittadino non può disporre, in quanto qualifica in un punto essenziale il suo rapporto, anche di natura fiscale, con lo Stato.

Il progressivo allargamento delle differenze nei livelli dei LEA tra le Regioni ed in particolare tra Nord e Sud – meglio documentato più avanti – viene in sostanza giustificato in ragione di vere o presunte inappropriatezze nella funzione di organizzazione dei fattori produttivi (risorse finanziarie e umane, gestione dei contratti, ecc) da parte di alcune Regioni, soprattutto nel Sud; partendo da queste inappropriatezze vengono definiti livelli di prelievo aggiuntivo (via IRAP o IRPEF) a carico dei residenti in queste Regioni «inefficienti».

Ma se il diritto alla salute nel suo nucleo essenziale deve essere garantito sempre dallo Stato, è logico che il finanziamento relativo gravi tutto su fonti statali, compartecipazioni e fondi di perequazione, come stabilisce in modo inequivoco l’art. 119, comma quarto; ed è chiaro che queste tre fonti devono chiudere il processo perequativo. Dunque quanto più le risorse sono scarse tanto più i margini per un riconoscimento delle differenze fiscali nei territori recedono per garantire l’assolvimento dei LEA; ma se il contesto costituzionale è questo, perché i residenti delle regioni inefficienti devono contribuire con prelievi aggiuntivi alle scelte non appropriate dei propri amministratori regionali? Si dirà, sulla base di una competenza gestionale intestata alle Regioni e da norme statali, introdotte nel 2005 e poi sempre confermate, che hanno previsto questi carichi fiscali aggiuntivi per i residenti nelle Regioni in situazione di disavanzi eccessivi, norme che hanno superato il vaglio della Consulta.

E’ su questo punto che occorrerebbe invece tornare, cogliendo anche l’occasione del nuovo contesto costituzionale che ridefinisce l’equilibrio di bilancio.

Le tesi fin qui sostenute sull’inderogabilità del diritto alla salute rispetto al bilancio pubblico e sulle persistenti differenze, tra Nord e Sud, nella fruizione dell’assistenza sanitaria, trovano una prima conferma nell’ultimo rapporto dell’OCSE sulla sanità (Series on Health Care QualityReviews, OECD, 2015). La relazione, infatti, pur evidenziando che i principali indicatori di salute della popolazione italiana sono tra i migliori dell’area OCSE, sottolinea che il dato aggregato nasconde «permanenti forti disparità tra le regioni». Anche la Corte dei Conti, nella relazione sulla finanza degli enti locali (Relazione sulla gestione finanziaria degli enti territoriali 2013), sottolinea che «ulteriori risparmi […] potrebbero rendere problematico il mantenimento dell’attuale assetto dei LEA, facendo emergere, nel medio periodo, deficit assistenziali, più marcati nelle Regioni meridionali».

Dal monitoraggio sull’applicazione dei LEA effettuato a livello regionale dal Ministero della sanità (con l’esclusione di Valle d’Aosta, Provincie Autonome di Bolzano e Trento, Friuli Venezia Giulia e la Sardegna) e basato su 31 indicatori (Griglia) riferiti all’attività di assistenza negli ambienti di vita e di lavoro, all’assistenza territoriale e a quella ospedaliera risulta che, nel 2012, erano adempienti le Regioni del Centro Nord (più la Basilicata) e adempienti «con riserva» o in condizioni «critiche» le regioni del Sud.

Il differenziale territoriale nella fornitura di servizi è confermato dall’indice di attrazione ospedaliera, dato dal rapporto tra pazienti in entrata e in uscita. In Lombardia e Emilia Romagna questo indice è 2,6 (ed in tutto il Centro Nord è maggiore di 1) ) mentre è 0,35 in Sicilia e 0,21 in Calabria.

Questi dati forniscono, però, solo una sintesi “statistica” sulle differenze territoriali. Per cercare di individuarne le cause è utile mettere in relazione, per ogni regione, il punteggio nei LEA con le risorse economiche, rappresentate dalla base imponibile delle imposte (addizionale Irpef, IRAP e IVA) che finanziano il sistema sanitario [1. Più dell’80% della copertura del fabbisogno sanitario è assicurata dall’addizionale irpef, dall’irap e dall’iva]. Questa analisi mostra che tra le due grandezze vi è una relazione diretta che vale rispetto sia al reddito medio familiare (proxy dell’addizionale Irpef) (Figura 1) sia al valore aggiunto (proxy dell’IRAP e dell’IVA). Le regioni con punteggi maggiori (minori) nella valutazione dei LEA sono anche quelle con maggiori (minori) risorse finanziarie. In un sistema equo, con effettive garanzie di perequazione, la correlazione tra queste due grandezze dovrebbe essere pressoché nulla.

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Per arricchire il quadro interpretativo consideriamo lo stato di salute percepito dai cittadini (self-reported status), opportunamente elaborato attraverso un indice di disuguaglianza [2. L’indice di disuguaglianza, nella formulazione proposta da Naga e Yalcin (2008), varia tra 0 e 1 (0 assenza di disuguaglianza 1Max disuguaglianza) ed è calcolato sui singoli cittadini di 16 anni e più a cui viene chiesto di classificare il loro stato di salute tra cinque possibili categorie: molto male, male, discretamente, bene, molto bene] (IDS) regionale.

L’IDS può interpretarsi come indicatore sintetico degli effetti prodotti, sulla salute dei cittadini, dall’offerta sanitaria di ogni regione, intesa sia come servizi erogati che come qualità degli stessi. La capacità descrittiva dell’IDS trova conferma nell’elevata correlazione (-0.8) con il punteggio dei LEA: dove quest’ultimo è più elevato è più alto il numero di cittadini che dichiarano di trovarsi in uno stato di salute «buono» e viceversa.

L’IDS assume valori maggiori nelle regioni del Sud (Figura 2), in particolare esso è pari a 0,37 in Calabria, 0,36 in Puglia e 0,355 in Sicilia mentre raggiunge il valore minimo di 0,26 a Trento (Figura 2).

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Infine, mettendo in relazione l’IDS con la spesa sanitaria pro-capite regionale emerge come le minori disponibilità di spesa per singolo cittadino si traducano in una maggiore disuguaglianza nello stato di salute dichiarato (Figura 3).

All’esigenza di una maggiore attività perequativa che corregga questi squilibri il legislatore ha dato parziale risposta con la nuova metodologia utilizzata per la ripartizione del finanziamento tra le regioni. A decorrere dal 2013, infatti, il D.lgs n 68/2011, ha previsto come criterio di ripartizione la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario. Anche questa metodologia, però, non è esente da criticità (Caruso E., Dirindin N., 2011).

Questa analisi conferma che non è assicurata la concreta fruizione da parte dei cittadini dei diritti sociali costituzionalmente garantiti. Una semplice proposta di intervento potrebbe essere la seguente: riorganizzare la funzione «sanità» secondo plessi territoriali ottimali (consorzi tra Regioni – aree regionali ottimali) e leggere questa competenza regionale solo come gestionale e organizzativa, senza associarla ad alcuna sanzione fiscale a carico dei residenti nella regione che incida sul profilo della garanzia dei LEA; inoltre, la sanzione necessaria per scoraggiare comportamenti opportunistici, potrebbe essere immediata e chiara a carico dei soli amministratori, politici eletti e dirigenti con responsabilità di spesa, e disposta direttamente nella legge statale, in quanto si tratta di una competenza esclusiva dello Stato.

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