Università di serie A e studenti di serie B: avvertenze per l’uso dei ranking

Maurizio Franzini, partendo da un report dell’Economist sulla situazione delle Università nel mondo, esamina caratteristiche e funzioni delle classifiche globali delle Università. Basandosi anche su alcune evidenze prodotte dall’ Economist, Franzini teme che, per come sono oggi costruite, quelle classifiche possano penalizzare qualità della didattica e creazione di “capitale umano” e propone alcune riflessioni più generali sul ruolo che le classifiche, anche le meglio congegnate, dovrebbero avere nella definizione delle politiche universitarie.

“….molti studenti non imparano abbastanza. Si affaticano meno di quanto facessero in passato. La performance media dei laureati americani rispetto a quelli di altri paesi è bassa e in peggioramento. L’istruzione universitaria non favorisce la mobilità sociale ma consolida le barriere esistenti. Allo stesso tempo i costi sono quasi raddoppiati in termini reali nel corso degli ultimi 20 anni. Le iscrizioni sono in calo”.

Questo poco esaltante giudizio meriterebbe meno attenzione se non fosse riferito al sistema universitario, quello statunitense, considerato il migliore del mondo e assunto come termine di riferimento da molti paesi. A emetterlo è l’Economist, nel suo ultimo numero, all’interno di un rapporto dedicato alla situazione delle Università nel mondo, eloquentemente intitolato “Excellence vs. Equity” che affronta molti temi di interesse, su qualcuno dei quali ci ripromettiamo di tornare in modo approfondito sul Menabò.

Ma come è possibile che il sistema universitario migliore del mondo produca esiti così modesti? Se un gran numero di università americane sono di serie A perché i risultati della loro attività (o di una parte consistente della loro attività) sono da serie B se non anche peggio?

Iniziamo dal principio e cioè da cosa giustifica il giudizio che le università americane sono, in gran numero, le migliori del mondo. Si tratta dei ranking, delle classifiche globali sulle università del mondo che proliferano, come tutta l’industria del ranking.

I procacciatori di classifiche prosperano in tanti ambiti, aiutati da svariate condizioni favorevoli. Tra tutte, la principale è, forse, il disorientamento che prende i consumatori, i risparmiatori, i cittadini e anche i policy makers quando si trovano di fronte a decisioni che sembrano richiedere molto di più di quel che sanno e di quel che conoscono direttamente. A costoro, peraltro, non vengono dati “pezzi” di informazione utili, che ciascuno potrà utilizzare per confezionare la propria classifica. Forse neanche di fare questo sono considerati (o si sentono) capaci. Qualcun altro –spesso tutt’altro che ingenuo e disinteressato – sceglie i “pezzi” di informazione rilevanti e li riduce a un numeretto –la posizione in classifica – che diventa tutto quel che conta. Semplificazione e paternalismo, potrebbe dirsi. L’esito è una sorta di culto dei primi, dei quali spesso si sa soltanto che sono i primi e si ignora, in particolare, in base a quale criterio lo siano.

Oggi, stando a un’autorevole studiosa dell’argomento, Ellen Hazelkorn, ci sarebbero in circolazione 11 ranking delle università mondiali (che sarebbero più di 15000) e svariate decine di ranking regionali o nazionali.

Tra i globali il più antico è l’ Academic Ranking of World Universities (ARWU) della Jiao Tong University di Shangai. Esiste dal 2003 e il suo creatore, Nan Cao Liu ha dichiarato che l’esigenza di crearlo nacque quando si decise di avvicinare le università cinesi alle migliori del mondo, ma ancora non si sapeva quali queste fossero. Seguì a breve distanza il Times Higher Education Quacquarelli-Symonds World University Ranking per effetto della collaborazione tra la Quacquarelli-Symonds e il Times. Spiegando le motivazioni di questa iniziativa, Quacquarelli ha dichiarato che si voleva mettere a disposizione degli studenti e delle loro famiglie un indicatore utile per scegliere le università migliori. E il carattere globale dell’indice fa pensare che si pensasse a studenti e famiglie in grado di scegliere non solo l’università ma anche il paese.

In base alla classifica di Shangai, tra le prime 100 università al mondo oltre 50 sono americane (in gran parte private) così come sono americane 19 delle prime 20. A grande distanza, in quella classifica, segue la Gran Bretagna, quindi la Svizzera, i Paesi Bassi, l’Australia, il Canada, la Francia, la Germania. L’Italia, come è noto, è assente. Nessuna delle nostre è in serie A, almeno in questa serie A.

Ma, appunto, come si finisce in serie A? Scorrendo i criteri utilizzati dai produttori di classifiche si nota che in maniera straordinariamente preponderante si tratta di criteri legati all’attività di ricerca, valutata prevalentemente in base a indici bibliometrici o a riconoscimenti internazionali, inclusi i premi Nobel ottenuti. La qualità della didattica è praticamente assente e quando è presente lo è attraverso un indicatore (il rapporto tra docenti e studenti) assai poco indicativo.

Quindi, essere in questa serie A non implica che si sia anche nella serie A della didattica e della creazione di “capitale umano”. Anzi, può benissimo accadere, come testimonia l’Economist, che si sia in serie A nel campionato della ricerca e in serie B in quello della didattica. Di più: questa contrastante collocazione nei due campionati potrebbe non essere casuale, nel senso che proprio il tentativo (più o meno coronato da successo) di finire in serie A nella ricerca può spingere verso la serie B della didattica. Se, per catturare studenti sensibili al ranking o anche per effetto di politiche che aspirano a portare in serie A il maggior numero di università nazionali e per questo le premiano, le università spingono i propri docenti a moltiplicare gli sforzi nella ricerca l’esito verosimile sarà una riduzione del loro impegno sulla didattica e, quindi, il suo peggioramento. Non si tratta di un risultato sorprendente. E’ ben logico che quando un agente svolge una pluralità di compiti, incentivarlo a svolgerne uno significa disincentivarlo dallo svolgerne altri.

L’Economist ritiene che questo spieghi la situazione dell’Università americana e che a rendere più probabile questo esito concorra il fatto che nel mercato del lavoro sia relativamente più apprezzato l’aver studiato presso Università di serie A piuttosto che l’effettivo possesso di abilità e competenze migliori. Il titolo di studio conterebbe più per il suo valore di segnale della capacità di essere accettati e approvati in una delle Università di serie A che non per altro. La conseguenza di questo atteggiamento è anche quella di creare uno iato tra il rendimento che il titolo di studio acquisito in una delle top University ha per il singolo – che è elevato, grazie ai notevoli differenziali retributivi che assicura – e il rendimento che esso ha per la società nel suo insieme – che è basso perché le conoscenze e le competenze dei laureati, da cui esso dipende, sono limitate.

Queste considerazioni sono particolarmente importanti se si considera la tendenza delle università nel mondo a emulare il modello americano e, quindi, a cercare di accrescere il numero delle proprie università incluse nella serie A globale. Prova di questa tendenza è, ad esempio, la Exzellenzinitiative avviata in Germania nel 2005 con l’obiettivo di riportare in alto il vessillo delle università tedesche, contrastando il dominio anglo-sassone. Ma iniziative analoghe sono state prese, per restare in Europa, in Francia e in Finlandia (come documentano L. Cremonini et al. , in Higher Education Policy 2014). Forse, il nostro presidente del Consiglio, quando qualche mese fa, ha dichiarato che esistono anche da noi università di serie A e di serie B aveva in mente qualcosa del genere; azzardando si può ipotizzare che intendesse dire che occorre fare in modo che le Università che militano nella serie A nazionale riescano a entrare nella serie A globale e che le altre siano lasciata al proprio destino.

Di queste tendenze l’Economist sembra preoccupato e i buoni argomenti per esserlo non mancano. Il principale lo conosciamo già: i ranking danno peso solo alla ricerca e trascurano, anzi scoraggiano, la formazione del capitale umano. Che il modo nel quale oggi si costruisce il ranking sia criticabile è noto e molti lo hanno criticato illustrandone anche la manipolabilità attraverso strategie relativamente semplici di cui alcuni si sarebbero già serviti, come prova il caso su cui è stata richiamata l’attenzione, dell’Università di Alessandria di Egitto temporaneamente ascesa, grazie a simili manipolazioni, ai vertici di una classifica basata sulle citazioni.

Ma i ranking potrebbero essere fatti meglio e allora la domanda diventa: coloro che hanno a cuore il miglioramento dei sistemi universitari dovrebbero battersi per la produzione di ranking migliori o dovrebbero essere comunque sospettosi dei ranking? La risposta a questa domanda dipende largamente dal modo nel quale i ranking, anche quelli buoni, vengono utilizzati dagli studenti e, soprattutto, dalla politica.

Se gli studenti volessero tutti iscriversi a una delle n università di serie A ben difficilmente potrebbero essere tutti accolti e, nel caso lo fossero, nulla garantirebbe che la qualità della didattica di cui beneficeranno non sarà compromessa proprio dall’esigenza di moltiplicare l’offerta per accoglierli. Non lo garantisce neanche una politica che metta a disposizione delle n università fondi crescenti sottraendoli a tutte le altre – che inevitabilmente retrocederebbero per mancanza di studenti e di fondi. L’esito più probabile è, invece, che le n università diventino più selettive e le crescenti difficoltà di accesso permetteranno non solo di aumentare le tasse universitarie ma anche di accrescere il valore che il titolo di studio da esse conferito ha in un mercato del lavoro nel quale i “segnali” prevalgono sul capitale umano.

Una strategia alternativa potrebbe consistere nel mettere a disposizione degli studenti un vasto insieme di informazioni, senza pretendere di ridurle al numeretto rappresentativo della posizione in graduatoria, limitando così il rischio di delegare ad altri scelte che ciascuno dovrebbe compiere nel modo più consapevole e, probabilmente, mitigando anche la tendenza alla concentrazione della domanda su un numero molto limitato di università. Inoltre, e soprattutto, la strategia politica potrebbe consistere nell’indirizzare l’attenzione alle Università che non sono in serie A per cercare di elevare le loro performance. Questo non vuole affatto dire che a tali Università si dovrebbero dare più fondi. Vuole semmai dire che bisognerebbe metterle in condizione di individuare e superare gli ostacoli che le hanno destinate alla serie B. In realtà l’individuazione delle cause del loro insuccesso rispetto ai parametri rilevanti costituisce il passo preliminare dell’analisi. Qualche tempo fa Rodrik e suoi associati sostennero la necessità di porre quella che loro chiamavano la “diagnostica della crescita” alla base delle politiche di sviluppo. Si tratta, sostanzialmente, di individuare i fattori che maggiormente vincolano il processo di sviluppo e intervenire prioritariamente su di essi per rimuoverli. Forse si potrebbe invocare una “diagnostica dell’Università” e utilizzare ranking ben congegnati per individuare le università che anno dopo anno hanno maggiormente bisogno di questa “diagnostica”. La “diagnostica” avrebbe il pregio di essere specifica, di disaggregare quello che va disaggregato e forse anche di facilitare l’individuazione di soluzioni innovative e non necessariamente indolori.

La questione naturalmente è molto complessa. Ma proprio per questo non sarà la semplice idea che bisogna puntare solo sulle università di serie A (anche se correttamente individuate) a risolverla. Più in generale la soluzione non verrà dai soli incentivi a competere per riuscire ad arrivare in serie A. E non solo perché il numero di posti in serie A è limitato. Sembra più appropriato fissare livelli accettabili nella ricerca e nella didattica e fare in modo che un gran numero di università riesca a raggiungerli, anche quelle che a un punto del tempo, ma non necessariamente per sempre, si trovassero in serie B. Di questo potrebbero giovarsi anche il pluralismo e la varietà, beni piuttosto essenziali per la democrazia, soprattutto nel lungo periodo.

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