Un reddito da disuguale cittadinanza?

Maurizio Franzini e Elena Granaglia tornano sul tema del reddito di base. Dopo aver elencato alcune delle confusioni e delle false credenze che ricorrono in questo dibattito, Franzini e Granaglia illustrano le diverse ragioni che possono giustificare un reddito basato sulla condizione di cittadino, indipendentemente dallo stato di povertà e richiamano l’attenzione su alcune caratteristiche della società contemporanea che rendono urgente porsi il problema se istituire quello che potrebbe chiamarsi un reddito di disuguale cittadinanza.

Sul reddito di cittadinanza e sul reddito minimo regna sovrana la confusione associata a una spessa coltre di false credenze.

Prendiamo come esempio di confusione quello che si dice della proposta del Movimento Cinque Stelle. In base ad essa, tutti coloro che vivono in nuclei familiari con risorse economiche inferiori alla soglia di povertà relativa e che si dimostrano disponibili a lavorare dovrebbero godere di un trasferimento monetario. Praticamente tutti dicono che il Movimento Cinque Stelle propone di introdurre un reddito di cittadinanza, ma in realtà si tratta di un reddito minimo o, meglio, di un reddito di inclusione. Infatti, il reddito di cittadinanza è un trasferimento erogato, in base a motivazioni di cui diremo tra breve, a tutti coloro che sono parte di una società – nella loro qualità di cittadini, appunto – e non dipende dalla loro condizione economica. Il reddito minimo, invece, è destinato a chi si trova in povertà e, a differenza del reddito di cittadinanza, al beneficiario è tipicamente richiesta una disponibilità a lavorare. Per questo suo aspetto può essere chiamato anche reddito di inserimento. Dunque, malgrado l’insistenza su pretese irriducibili differenze, la proposta dei Cinque Stelle ha le stesse caratteristiche di fondo del Reddito di Inclusione, appena varato dal Parlamento.

Per una piccola esplorazione delle false credenze può essere sufficiente menzionare uno degli argomenti più di frequente utilizzati per opporsi all’introduzione di un reddito minimo nel nostro paese che, come è noto, non dispone un reddito minimo universale, rivolto al complesso dei poveri (il Reddito di Inclusione appena citato ha questa finalità solo sulla carta; nella realtà, rimane categoriale, essendo limitato alle famiglie con figli). L’argomento è che la povertà, sia, in fondo, sempre riconducibile, almeno in parte, alla responsabilità individuale e che, anche per questo, l’erogazione di un reddito minimo finirà per intrappolare i poveri nella dipendenza. Per convincersi che si tratta di una credenza falsa basta uno sguardo disincantato al mondo e alle mille opportunità che non ci sono e per sfuggire alle sue implicazioni è sufficiente osservare che essa porta a negare a tutti i poveri il diritto a una esistenza dignitosa.

Quanto al reddito di cittadinanza, sul quale ci soffermeremo d’ora in poi, una falsa credenza è quella secondo cui il esso avrebbe il gravissimo difetto di dare allo stesso modo ai ricchi e ai poveri; dunque, sarebbe iniquo e avrebbe effetti redistributivi nulli. Qui si dimentica che il reddito di cittadinanza deve essere finanziato e che il peso del suo finanziamento ricade interamente sui più ricchi, con la conseguenza che per essi l’introduzione di quel reddito si risolverebbe in una perdita netta. Se si chiedesse perché i ricchi devono pagare (molto) e prendere (poco) anziché pagare direttamente la differenza netta, una risposta – non l’unica – sarebbe che il doppio movimento permette di rendere visibili due principi essenziali: i) che tutti i cittadini, anche i ricchi, hanno diritto – in quanto tali – a un reddito (e tra poco, riflettendo sulle ragioni del reddito di cittadinanza questo punto diventerà più chiaro); ii) che i più ricchi devono rendere possibile l’erogazione universale del reddito di cittadinanza.

E’ una falsa credenza anche che il reddito di cittadinanza finirà per legittimare e universalizzare il parassitismo e per negare l’opportunità fondamentale del lavoro. Per dubitare di queste credenze basta riflettere su quanti lavorano pur avendo un reddito familiare su cui contare. In realtà, disponendo di un reddito, molti potrebbero sentirsi inclusi nella cittadinanza e stimolati a cooperare anche attraverso l’impegno di lavoro.

Di false credenze ce ne sono molte altre. Non potendo esaminarle tutte, rimandiamo al recente libro di E. Granaglia e M. Bolzoni (Il reddito di base, Roma, 2016) che fornisce anche un quadro delle diverse possibili configurazioni del reddito minimo e del reddito di cittadinanza.

Vogliamo, invece, soffermarci sui possibili fondamenti di un reddito di cittadinanza. Per orientarsi a individuarli è utile riflettere sul fatto che non tutti beneficiano dei rendimenti che derivano da risorse comuni e che spesso vi sono vantaggi che non sono il frutto dello sforzo individuale. Il primo esempio è quello della terra e di altre risorse naturali; ci sono poi i beni ricevuti in eredità, almeno per la dimensione relativa al beneficio per gli eredi e i vantaggi dovuti al caso che accompagna il gioco della domanda e dell’offerta; c’è anche il mancato riconoscimento che il prodotto marginale dipende da come è organizzato il lavoro di squadra, dalle dimensioni dell’impresa, dalle dotazioni di investimenti e di infrastrutture, tutti fattori non riconducibili all’impegno di chi si appropria di quel prodotto.

Tali risorse andrebbero ripartite fra tutti; infatti, l’appropriazione di alcuni a danno di altri rappresenta una vera e propria espropriazione. Il loro valore, peraltro, dipende da molte circostanze, ma in linea di principio corrisponde a quello che si è disposti a pagare per esse e che può variare in funzione di numerose variabili. Ad esempio, Warren Buffet ha lucidamente riconosciuto di avere avuto la “fortuna di vivere in un momento e in un paese in cui i suoi talenti erano particolarmente apprezzati – talenti che in altri contesti potrebbero non avere alcun valore”.

Il reddito di cittadinanza, poi, può trovare fondamento anche nel diritto all’esistenza, invocato nel caso del reddito minimo.

In questo articolo, vorremmo, però, portare l’attenzione su due altre ragioni che ci paiono sottovalutate nella riflessione pubblica e che spingono nella direzione, se non di un reddito di cittadinanza pieno, di una misura ad esso assai vicina.

La prima ragione si basa sul fatto, accertato, che in tutti i paesi le origini familiari condizionano le prospettive di vita individuale e in alcuni di essi (tra i quali il nostro) chi proviene da background peggiori può soffrire di rilevanti svantaggi. Naturalmente, a tali svantaggi corrispondono i vantaggi di cui gode un altro segmento della società. Dunque, per alcuni cittadini l’appartenenza alla società è più svantaggiosa che per altri, indipendentemente dai loro comportamenti e ciò sembra costituire una valida ragione per prevedere un istituto che compensi questo svantaggio. Se l’uguaglianza di opportunità richiede di compensare gli effetti delle circostanze negative (cioè svantaggi di cui non si è responsabili), allora sarebbe la stessa uguaglianza di opportunità a richiedere un intervento nella direzione del reddito di cittadinanza.

Chi deve pagare per questo? I più ricchi, è la risposta immediata. Si potrebbe osservare che non tutti i ricchi godono del vantaggio a cui corrisponde lo svantaggio di molti altri. Ma a questa osservazione si può replicare che, nell’impossibilità di procedere a una precisa individuazione dei beneficiari, chiamare tutti i ricchi a partecipare al finanziamento di questa misura compensativa costituisce una soluzione ragionevole e per molti versi giusta. Infatti, in qualche modo la società ha premiato i ricchi ed è perciò giusto che essi indennizzino gli svantaggiati. In fondo, i filantropi così ammirati per il loro comportamento, invariabilmente dicono di avvertire l’esigenza di restituire qualcosa alla società che ha consentito loro di essere così ricchi. A chi è più giusto restituire se non a coloro che sono stati svantaggiati da quella stessa società? La filantropia, peraltro, redistribuisce secondo le preferenze dei donatori che spesso portano a privilegiare attività che nulla hanno a che fare con la compensazione dei più svantaggiati (si pensi, ad esempio, alle donazioni ai musei); d’altro canto, essa espone a rischi elevati di non coordinamento fra i diversi interventi.

Naturalmente, se le società adottassero politiche in grado di ridurre l’entità degli ingiusti svantaggi, il ricorso a questo reddito sarà meno necessario. In altri termini, si pone la scelta tra creare condizioni più favorevoli a esiti giusti nel mercato e nelle istituzioni e compensare gli svantaggi che altrimenti “resistono”.

La seconda ragione riguarda la possibilità di accedere a redditi elevatissimi approfittando di circostanze che consentono di fruire gratuitamente di alcuni essenziali input. Quando questi input riguardano l’attività quotidiana dei cittadini il problema assume aspetti speciali. Il riferimento è all’utilizzo dei dati personali come fonte di guadagno per chi controlla la rete. Le nostre attività quotidiane diventano occasione di profitto per la domanda che di tali dati esiste e che si manifesta principalmente ma non soltanto in ambito pubblicitario. I nostri dati servono, oramai, anche a orientare le campagne elettorali oltre che a indirizzare numerosi ambiti di ricerca molti dei quali hanno lo scopo ultimo di influenzare i nostri comportamenti. Siamo di fronte a un nuovo caso di “espropriazione” del cittadino nei confronti di quelle che dovrebbero essere risorse comuni e quindi a un possibile ragionevole fondamento per un trasferimento di cittadinanza.

Anche in questo caso la società può intervenire a correggere il problema alla fonte. In alternativa, la soluzione consiste in un reddito non condizionato allo stato di povertà.

Queste considerazioni mirano soprattutto ad attrarre l’attenzione su aspetti delle società contemporanee che possono aggravarsi con il tempo in assenza di antidoti adeguati – alla ricerca dei quali non sembra che vengano dedicati gli sforzi richiesti. Basti pensare ai rischi di disoccupazione strutturale connessi allo sviluppo dell’automazione.

Per articolare una proposta operativa sono necessari, naturalmente, molti approfondimenti e occorre prendere in considerazione numerosi altri aspetti, a iniziare da quello relativo all’opportunità di chiedere ai beneficiari una contropartita sotto forma di impegno lavorativo. La questione è complessa perché il trasferimento ha la sua giustificazione nella compensazione di uno svantaggio e, dunque, null’altro dovrebbe essere necessario per ottenerlo. Ma forse è ragionevole chiedere un minimo di reciprocità sotto forma di impegno a lavorare da parte di chi non lavora. Questa richiesta avrebbe maggior senso se i lavori disponibili – grazie anche a un illuminato intervento dei governi – fossero “decenti” e alla sua base potrebbe esservi un ragionamento di questo tipo: la compensazione per lo svantaggio è rappresentata dal benessere aggiuntivo che il reddito consentirà al netto della disutilità del lavoro che viene richiesto – e viene richiesto in quanto la reciprocità va salvaguardata e, dunque, ciascuno deve dare “qualcosa” alla società.

Ma i dettagli su cui riflettere sono anche altri. Chi sono, ad esempio, gli svantaggiati cui la compensazione si rivolge? Come si caratterizza una “reciprocità equa”? Con quali imposte deve essere finanziato il trasferimento? Come deve essere reso compatibile con altri interventi personalizzati sulla base dei diversi bisogni individuali (ad esempio, età e condizioni di salute)?

Dunque, c’è molto su cui riflettere. Ma è bene farlo nella massima chiarezza possibile, soprattutto degli obiettivi che si intendono perseguire e delle ragioni che li giustificano. Per muovere in questa direzione è indispensabile liberarsi da pregiudizi e confusioni. E per iniziare a farlo potrebbe essere utile trovare un termine migliore di reddito di cittadinanza. Forse basterebbe aggiungere un aggettivo o poco più: reddito da disuguale cittadinanza.

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