Uber: non solo taxi. La forza destabilizzante di una piattaforma

Dario Guarascio dopo una breve ricostruzione delle origini e le tappe salienti dello sviluppo di Uber, esamina l’impatto che sta avendo sul funzionamento dei mercati e delle istituzioni e sui rapporti di lavoro. Guarascio mostra che Uber, al pari di imprese che hanno come asset chiave del loro processo produttivo i Big Data, opera in una sorta di “terra di nessuno”, in continua ridefinizione, per la tendenza a oltrepassare i limiti della regolamentazione in materia di privacy, rapporti di lavoro e compliance fiscale.

L’invasione massiccia ed improvvisa di zone della società poco (o per nulla) regolate è una caratteristica che contraddistingue le strategie di espansione adottate dalle imprese del capitalismo digitale. La capacità di colonizzare spazi materiali – ad esempio, le strade dove Uber svolge la propria attività di intermediazione tra clienti e guidatori – e/o immateriali – le reti informatiche all’interno delle quali Google o la stessa Uber monopolizzano le attività di archiviazione, elaborazione e riutilizzazione dei dati a fini commerciali – è ciò che ha consentito a queste aziende di acquisire, in breve tempo, un rilevantissimo peso economico e politico. L’adozione di tali strategie rimanda a ciò che Joseph Schumpeter definiva distruzione creatrice. Si tratta, cioè, della destabilizzazione di equilibri esistenti da parte di agenti economici dotati di tecnologie che portano in auge nuovi modelli di business decretando, al contempo, l’obsolescenza di quelli fino ad allora predominanti. Ma c’è di più. Le organizzazioni orientate al profitto che hanno come risorsa-chiave del loro processo produttivo i Big Data si trovano, oggi, a operare in un nuovo territorio, una sorta di terra di nessuno i cui confini, in perenne espansione, vengono continuamente ridefiniti dallo spingersi di queste imprese oltre i limiti della regolamentazione esistente in materia di privacy, relazioni lavorative e rispetto delle regole fiscali.

In questo quadro, la portata trasformativa e destabilizzante di Uber è identificabile guardando ad una moltitudine di dimensioni. In primis, la dimensione economica. A soli otto anni dalla sua costituzione, Uber è divenuta la start-up globale dotata del maggior valore azionario, raggiungendo i 69 miliardi di dollari. Una seconda dimensione, riguarda la penetrazione geografica della multinazionale del trasporto su gomma on-demand. Narra la legenda, che l’idea di Uber App sia balenata nella mente di uno dei suoi fondatori, Travis Kalanick quando, in una notte parigina, non è riuscito a trovare qualcosa che somigliasse ad un taxi per rientrare in albergo. Di lì, il progetto di una App per intermediare la domanda e l’offerta di trasporto privato al di fuori del circuito dei taxi tradizionali. Dopo meno di un anno, ecco debuttare UberCab che inizialmente opera nella sola città di San Francisco. Eliminata la dicitura “Cab”, a seguito di un intervento del giudice della California che riconosce nel nome un’allusione eccessiva ai taxi tradizionali, UberCab si trasforma in Uber e parte alla conquista del globo. Sul sito di Uber è oggi possibile scorrere la lista delle città dove la App è operativa. Sono coperti pressoché tutti continenti (Nord e Sud America, Europa, Medio Oriente, Asia e Australia) mentre, le città interessate dal servizio sono più di 580 e tra di esse ci sono le principali metropoli mondiali tra cui Città del Messico, New York, Los Angeles, Londra, Istanbul e Nuova Delhi.

La crescita del valore economico delle sue attività e la rapidità della sua diffusione a livello geografico, tuttavia, non sono meno rilevanti dell’impatto che Uber sta avendo sul funzionamento dei mercati, delle istituzioni e sulle relazioni lavorative. La distruzione creatrice o, meglio, la creazione di spazi nei quali le relazioni economiche si svolgono in assenza di un’efficace regolamentazione, determina squilibri radicali nei rapporti di forza tra i “gestori della piattaforma” (Uber) e gli operatori dei settori che vengono “investiti” dal suo materializzarsi (i guidatori di taxi); i soggetti che attraverso la piattaforma offrono i loro servizi (i guidatori che lavorano connettendosi alla App); e le istituzioni deputate alla regolamentazione. L’inarrestabile corsa di Uber ha cominciato a trovare ostacoli quando un fino ad allora ignoto e silente esercito di guidatori di riserva si è trasformato in una forza competitiva capace di spingere al ribasso la mole di lavoro ed i redditi dei tassisti tradizionali. Le cause civili hanno iniziato a moltiplicarsi. E ciò è avvenuto, in modo particolarmente acuto, in Europa dove, appellandosi alle tradizionali tutele a favore della categoria –tra queste, i limiti al numero di licenze erogabili dalle amministrazioni comunali e le tariffe minime –, i tassisti sono riusciti, in molti casi, ad ottenere il bando di legge all’uso di Uber App e in molti casi i tassisti hanno intentato e vinto cause nei confronti di Uber . Tuttavia, le posizioni ondivaghe ed eterogenee dei giudici europei pongono dubbi sulla reale capacità dei tassisti di fermare l’avanzata di Uber con le vie legali. E ciò è particolarmente vero se si riflette sulla potenza di fuoco della multinazionale nata a San Francisco, dal punto di vista delle risorse finanziarie di cui dispone per ingaggiare battaglie legali, da un lato, e del consenso di cui gode presso parte dell’opinione pubblica, dall’altro. Un consenso legato all’idea che l’installazione di Uber nella propria città abbia come unico esito quello di trasformare in realtà l’ideale di un maggiore benessere sociale perseguibile tramite una maggiore concorrenza nei mercati. Un maggior benessere dovuto alla riduzione attesa delle tariffe oltre che alla possibilità di una maggiore efficienza del servizio grazie alla costante connessione di clienti e guidatori.

Le contraddizioni generate da Uber emergono con particolare intensità guardando al rapporto che la piattaforma ha con i guidatori che lavorano attraverso di essa. Sono ormai moltissimi i contenziosi – registratisi in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito, come racconta il Guardian in un articolo del 9 dicembre 2016, – che hanno visto come protagonisti la società di San Francisco ed i suoi guidatori. Quest’ultimi si oppongono a condizioni tali che l’ottenimento di una retribuzione adeguata sembra possibile solo al prezzo di ritmi lavorativi massacranti. Dietro il moltiplicarsi delle cause di lavoro, tuttavia, è possibile scorgere un ulteriore tratto della terra di nessuno entro cui Uber opera.

I guidatori di Uber sono ascrivibili alla categoria di quelli che V. De Stefano (The Rise of the ‘Just-in-Time Workforce’: On-Demand Work, Crowd Work and Labour Protection in the ‘Gig-Economy’, ILO Working paper, 2016) ed altri definiscono on-demand workers. Questi individui hanno, come caratteristica principale, quella di non vedersi riconosciuto lo status giuridico di lavoratori. Configurandosi come self-contractors, in virtù dei “termini di servizio” che è necessario sottoscrivere per potervi accedere, il soggetto che presta i propri servizi tramite piattaforme come Uber – tra le più note, oltre ad Uber, ci sono le piattaforme che fungono da collettori di domanda ed offerta di servizi intellettuali come Amazon Mechanical Turk o Crowdflower o quelle che forniscono servizi alla persona e domestici come TaskRabbit – non godono di nessuna delle tutele a cui può accedere chi opera in forza di un regolare contratto di lavoro. Questo, ovviamente, incide anche sull’impatto fiscale delle attività di Uber, significativamente inferiore a quello che queste attività avrebbero se la piattaforma fosse riconosciuta come un datore di lavoro e i guidatori come dipendenti. Uber giustifica questa condizione asserendo che i guidatori sono completamente liberi di gestire la loro partecipazione alla piattaforma e, dunque, di organizzare autonomamente tempi e modi della loro attività. Al riguardo, va ricordato che lo scorso ottobre, un tribunale del lavoro inglese ha per la prima volta condannato Uber a riconoscere il salario minimo ed altre garanzie proprie dei contratti di lavoro standard a due lavoratori. I due drivers, come si può leggere nel resoconto del Guardian del 28 dicembre scorso , hanno fatto causa all’azienda contestando la legittimità del loro status di “self-contractors”.

Aprendo il sito italiano e cliccando sull’icona “diventa autista” si ha un rappresentazione chiara della politica di Uber e della sua concezione delle relazioni con gli autisti. Nella pagina in cui è possibile compilare il modulo di richiesta di iscrizione alla piattaforma, si può leggere: “…Diventa capo di te stesso e scegli tu liberamente quando guidare e quanto guadagnare senza vincoli né orari…[corsivo aggiunto]”. Queste affermazioni, tuttavia, contrastano radicalmente con la capacità di organizzazione, indirizzo e controllo dei guidatori e delle loro prestazioni che Uber esercita. E, inoltre, la piattaforma trattiene il 20% delle tariffe pagate dai clienti. Scavando più in profondità, la contraddizione tra le dichiarazioni della dirigenza e la realtà della condizione lavorativa dei guidatori di Uber assume le forme del paradosso. L’azienda propone se stessa come un infrastruttura tecnologica neutrale che si porrebbe come fine esclusivo quello di ampliare l’offerta di servizi resi da liberi professionisti favorendo, in questo modo, la libera concorrenza. Tuttavia, laddove controlla ampi segmenti del mercato del trasporto su gomma, come negli USA, Uber è, nei fatti, un datore di lavoro che non solo si trova in posizione semi-monopolistica rispetto alla domanda a cui si rivolge ma dispone anche di una platea quasi inesauribile di forza lavoro a cui non è tenuto a riconoscere alcun diritto e alla quale può imporre forme di monitoraggio ed organizzazione del lavoro con un elevatissimo grado di pervasività.

Ad ulteriore testimonianza di quanto la sorveglianza e la pressione sulle performance dei guidatori siano elementi chiave del suo modello di business, Uber ha recentemente lanciato un vasto programma di ricerca nell’ambito dell’economia comportamentale e della teoria delle decisioni. Accusata di pratiche vessatorie da guidatori “disconnessi” forzatamente dalla piattaforma in ragione della loro scarsa produttività, come documenta Sarah O’Connor sul Financial Times dell’8 settembre 2016, e intimorita dalle montanti critiche circa l’adozione di queste stesse pratiche, Uber sta ora tentando la strada della psicologia e degli incentivi per massimizzare l’efficienza dei propri guidatori. Come racconta Noam Scheiber sul New York Times, l’obiettivo fondamentale degli esperimenti condotti da un nutrito gruppo di psicologi, economisti e data scientists è quello di disegnare un set di incentivi capaci di indurre i guidatori a lavorare con tempi e modi consoni alla massimizzazione dei profitti da parte di Uber. Assumendo la forma di innocui messaggini da inviare sullo smartphone del guidatore al momento opportuno, tuttavia, questo sistema di incentivi dovrebbe anche garantire che le i drivers facciano queste scelte in apparente, totale autonomia. In questo modo, sarebbe scongiurata la possibilità di considerare la piattaforma vero e proprio datore di lavoro con il vantaggio di sottrarsi ai conseguenti obblighi di legge. Basandosi su “giochi” normalmente utilizzati negli esperimenti di economia comportamentale, Uber ha testato la reazione di guidatori fittizi sottoposti a delle condizioni lavorative tipo. In particolare, gli scienziati assoldati dall’azienda hanno calibrato gli incentivi più efficaci per far sì che guidatori prossimi a “staccarsi dalla piattaforma” fossero invece stimolati a lavorare ulteriormente coprendo l’intera domanda disponibile. Il tipo di incentivi rivelatosi più efficace è quello di carattere “negativo”: sullo smartphone di un guidatore che potrebbe stare per decidere di terminare la propria giornata lavorativa, ecco spuntare una serie di messaggi del tipo “…se stacchi adesso potresti perdere 100 dollari…”. La pressione psicologica implicita in un meccanismo di questo tipo è evidente. Una pressione, tesa al soddisfacimento completo della domanda ed alla massimizzazione del profitto che potrebbe anche avere serie conseguenze sulla sicurezza dei viaggiatori se il guidatore che ha ricevuto l’incentivo si trovasse a dover scegliere tra riposo e corse aggiuntive.

La destabilizzazione indotta dall’avvento di Uber, dunque, pone questioni rilevanti rispetto ad una moltitudine di questioni economiche e sociali. La difficoltà di regolamentarne l’attività, il potere di mercato pressoché assoluto di cui gode nell’intermediazione via-App del trasporto privato, le contraddizioni e le problematiche connesse alle condizioni lavorative dei guidatori, le potenziali minacce alla sicurezza dei viaggiatori, costituiscono temi che impongono di superare la visione naif di chi intravede in Uber solo un’allettante opportunità per introdurre maggiore concorrenza nel settore dei taxi. Al contrario, l’affaire Uber rende evidenti alcune delle sfide capitali che caratterizzano il capitalismo digitale in cui siamo sempre più immersi. Il controllo, da parte di soggetti economici privati, di tecnologie capaci di mettere in discussione rapporti di forza, regole e forme organizzative consolidate può avere conseguenze profonde e di lungo periodo che non sembrano essere ancora perfettamente chiare. Alla luce di tutto ciò, il via libera al dilagare della terra di nessuno Uberiana sembrerebbe richiedere una cautela molto maggiore di quella sin qui osservata.

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