Transatlantic Trade and Investment Partnership: un’opportunità o un incubo?

Luciano Milone si occupa dell’accordo di libero scambio (Ttip), in corso di negoziazione tra USA ed Unione Europea, soffermandosi su uno dei suoi aspetti più complessi e delicati: l’abbattimento delle barriere non tariffarie riconducibili alle differenze nella gestione di politiche quali la salvaguardia dell’ambiente, la difesa della salute e della sicurezza, le disposizioni sul lavoro e i connessi timori che l’armonizzazione delle regolamentazioni e degli standard possa tradursi in una sorta di accordo al ribasso.

Un nuovo incontro è programmato per il prossimo luglio tra i rappresentanti dell’Unione Europea e quelli degli Stati Uniti nell’ambito dei negoziati commerciali, avviati nel 2013, finalizzati all’approvazione del cosiddetto ‘Trattato transatlantico sugli scambi e gli investimenti’ (Ttip). Obiettivo del trattato è quello di favorire il processo di integrazione economica tra le due aree attraverso la reciproca eliminazione o, quanto meno, la drastica riduzione degli ostacoli agli scambi commerciali e agli investimenti diretti esteri. Si tratta di un accordo regionale, a carattere discriminatorio, che coinvolge un insieme di paesi cui è attribuibile, complessivamente, circa il 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale ed un interscambio pari pressappoco a un terzo del commercio mondiale.

Il Ttip viene a collocarsi all’interno di uno scenario che, per quanto attiene alla sfera delle relazioni commerciali internazionali, nel corso degli ultimi tre decenni ha subito profondi mutamenti. In una prima fase, protrattasi sino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, il processo di liberalizzazione commerciale, avviatosi al termine del secondo conflitto mondiale all’interno del GATT (attualmente Organizzazione Mondiale del Commercio), si è infatti sviluppato principalmente secondo i principi del multilateralismo che, come è noto, denota un sistema di scambi in cui siano escluse pratiche commerciali discriminatorie. Le aree di libero scambio e di unioni doganali costituivano alcune tra le poche importanti deroghe al multilateralismo previste dal GATT. A partire dalla metà degli anni Ottanta e soprattutto dagli inizi degli anni Novanta del secolo scorso si è assistito alla proliferazione di accordi commerciali preferenziali a livello bilaterale o regionale, con il conseguente progressivo ridimensionamento del sistema multilaterale degli scambi: in particolare, quelli in vigore, corrispondenti a poche decine nel 1985, hanno raggiunto l’elevato numero di 267 agli inizi del 2016. In conseguenza di ciò, una quota sempre più ragguardevole dei flussi di commercio internazionale è venuta a collocarsi all’interno di accordi su base discriminatoria. Di fatto, attualmente la quasi totalità dei paesi partecipa ad uno o più accordi di tale natura.

Tra i fattori cui è ascrivibile l’affermazione del regionalismo su scala mondiale, due appaiono preminenti. Il primo è costituito dalle crescenti difficoltà manifestatesi nel corso degli anni a procedere sulla strada della liberalizzazione degli scambi attraverso i negoziati multilaterali del sistema del GATT-OMC. Queste difficoltà si sono manifestate in tutta evidenza nel corso dell’ultimo round di negoziati commerciali, il cosiddetto Doha Round, avviato nel 2001 e tuttora non concluso (su questo punto si veda, ad esempio, l’articolo di G. De Arcangelis, sul n. 42 del Menabò). Forti ostacoli sono emersi soprattutto nei confronti dei tentativi di estendere la cooperazione, a livello multilaterale, ai ‘nuovi temi’ del commercio internazionale: tra essi, i diritti di proprietà intellettuale, la concorrenza, la salvaguardia dell’ambiente, la tutela della salute, le norme tecniche, le disposizioni sul lavoro, i servizi, gli investimenti esteri, gli appalti pubblici. Più agevole si è spesso rivelato il perseguimento di una crescente cooperazione su queste problematiche attraverso accordi preferenziali, limitati ad un numero circoscritto di paesi.

Il secondo importante fattore che ha giocato un ruolo tutt’altro che trascurabile nel determinare l’indebolimento del sistema commerciale multilaterale, contestualmente al diffondersi del regionalismo, è rappresentato dal mutato atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di quest’ultimo fenomeno. Tale paese, infatti, strenuo difensore del multilateralismo nelle prime fasi della cooperazione postbellica, ha poi gradualmente abbandonato questa posizione per adottare un approccio più articolato, facendosi parte attiva nella promozione di accordi discriminatori con paesi disposti a portare avanti il processo di integrazione commerciale più speditamente rispetto a quanto fosse possibile nell’ambito del GATT-OMC.

Un limite importante degli accordi di libero scambio su base bilaterale o regionale è rappresentato dal fatto che essi – a differenza degli accordi multilaterali, fondati sul principio di non discriminazione – ostacolano il pieno sfruttamento dei vantaggi della specializzazione internazionale ed esercitano effetti distorsivi sui flussi commerciali e sull’allocazione delle risorse dei paesi membri. Il benessere sociale di questi ultimi risulta accresciuto solo nella misura in cui i benefici dovuti alla creazione di commercio prevalgano sulle perdite di benessere riconducibili alla ‘diversione’ di commercio. Ripercussioni significative di vario segno possono aversi altresì sul benessere sociale dei paesi esclusi dagli accordi preferenziali.

Il controverso e partecipato dibattito sul Ttip ha evidenziato la presenza di posizioni assai differenziate, se non del tutto divergenti, sulle sue implicazioni per la comunità internazionale. I proponenti e i suoi sostenitori più in generale prospettano ingenti guadagni, in termini di efficienza e di crescita, come effetto di un programma di apertura delle economie a vasto raggio quale quello proposto nei negoziati in corso. Tali benefici non resterebbero circoscritti ai soli paesi partecipanti, ma coinvolgerebbero l’economia globale nel suo complesso. A questa posizione ottimistica si contrappone quella assai critica, espressa in ambedue le sponde dell’Atlantico, da vasti settori dell’opinione pubblica, studiosi, sindacati, organizzazioni non governative e movimenti ambientalisti la quale lascia prefigurare rischi e costi sociali elevati. La diffusa diffidenza e, non di rado, l’ostilità nei confronti del Ttip sono state probabilmente non poco alimentate dalla segretezza che ha contraddistinto sino a tempi recenti le varie fasi delle trattative. La scarsa trasparenza figura tra le critiche mosse più di frequente dalla stampa, e dai media più in generale, alle modalità con le quali si sono svolti i negoziati: scarsa trasparenza che talvolta è stata interpretata come espressione di un deficit di democrazia.

Un’analisi puntuale delle potenzialità del Ttip, in termini di benessere sociale, potrà formularsi solo una volta che ne saranno pienamente noti i contenuti nella sua versione definitiva. Ciò non toglie che al momento sia possibile sviluppare alcune riflessioni in merito alle ragioni sottostanti alla posizione di quanti osteggiano l’accordo nel timore che esso possa tradursi in un’iniziativa dai connotati pesantemente negativi. Una parte importante del Ttip, dedicata al cosiddetto ‘accesso ai mercati’, mira a favorire l’integrazione economica tra i paesi partner agendo in quattro direzioni: l’abbattimento dei dazi doganali sulle importazioni, in realtà già piuttosto modesti pur con alcune eccezioni; la progressiva liberalizzazione dei servizi in molti settori; l’eliminazione delle restrizioni governative alla partecipazione delle imprese di paesi partner all’assegnazione degli appalti pubblici; un insieme di disposizioni mirate a facilitare gli investimenti diretti esteri. Una seconda parte è rivolta a ridimensionare l’incidenza delle barriere non tariffarie le quali, in seguito al progressivo abbattimento dei dazi doganali operato nel passato, rappresentano attualmente i principali ostacoli agli scambi internazionali. Vi è, infine, una terza parte che affronta un insieme di altri temi rilevanti in un contesto di mercati aperti: tra essi, la tutela dei diritti di proprietà intellettuale e le regole in materia di tutela della concorrenza.

Tra i numerosi rilievi critici mossi ai contenuti delle trattative in corso, di particolare rilevanza risultano quelli riguardanti l’obiettivo dell’abbattimento delle barriere non tariffarie agli scambi associate alle divergenze tra le normative nazionali che fissano gli standard in materie quali la sicurezza, l’ambiente, il lavoro, la salute. L’effetto restrittivo di queste normative tende ad essere tanto più forte quanto più è elevato per le imprese il costo di adeguamento dei propri prodotti alle disposizioni vigenti nei singoli paesi. Il trattato mira al coordinamento delle politiche nazionali su queste problematiche sia attraverso un’armonizzazione delle norme e delle procedure sia attraverso l’applicazione del principio del mutuo riconoscimento degli standard in vigore. Relativamente a questa problematica va considerato che, in presenza di elevata interdipendenza delle economie nazionali, politiche ‘interne’ come la difesa dell’ambiente, la salvaguardia della sicurezza e della salute, le disposizioni sul lavoro, la tutela della concorrenza possono esercitare forti ripercussioni sia sul commercio internazionale sia sulla localizzazione degli investimenti diretti esteri.

Proprio a causa dei riflessi che possono generare sulle condizioni di competitività dei propri beni e servizi sui mercati internazionali, queste politiche si prestano ad essere impiegate deliberatamente da parte di un paese, in alternativa alle tradizionali misure di politica commerciale, per il perseguimento di finalità strettamente protezionistiche. Attraverso esse, in un contesto di elevata mobilità dei capitali, si possono altresì orientare gli investimenti diretti esteri verso determinati paesi anziché verso altri. Da tali comportamenti discendono conflitti di interesse e distorsioni nell’allocazione delle risorse. Sulla base di queste considerazioni, iniziative quali quelle delineate nel Ttip nella direzione di un maggiore coordinamento delle politiche nazionali nelle aree di intervento appena indicate possono configurarsi, in linea di principio, come una soluzione appropriata. Da un’armonizzazione degli standard beneficerebbero anche i paesi non appartenenti all’area di libero scambio i quali, nelle loro esportazioni verso gli Stati Uniti e l’Unione Europea, non dovrebbero più confrontarsi con regolamenti e standard difformi da paese a paese.

In realtà, più che mettere in discussione la necessità di nuove e più estese forme di collaborazione internazionale che coinvolgano aree d’intervento tradizionalmente considerate di esclusiva competenza interna, gli oppositori del trattato manifestano la loro contrarietà per le modalità specifiche attraverso le quali si intenderebbe portare avanti una strategia di cooperazione tra Stati Uniti ed Unione Europea. Al riguardo si sono delineati due ordini di considerazioni. In primo luogo, si teme che l’adozione di un sistema di regole e standard uniformi in settori quali l’ambiente, il lavoro, la sicurezza e la salute si realizzi attraverso un accordo al ribasso. Questa spinta al ribasso si risolverebbe in un vantaggio per le imprese multinazionali e, più in generale, per le grandi imprese, mentre comporterebbe elevati costi sociali per la collettività. Tale timore è maggiormente avvertito in Europa, dove si ritiene che tali standard siano in genere più elevati rispetto agli Stati Uniti. Un ulteriore motivo di diffidenza verso l’accordo è che esso condurrebbe a forme di coordinamento tali da comprimere eccessivamente i residui margini di discrezionalità dei singoli stati nazionali nella gestione di politiche importanti per il benessere delle rispettive popolazioni. Dalla capacità delle parti coinvolte nel processo negoziale di individuare e porre in essere soluzioni adeguate a ridurre l’incidenza delle barriere non tariffarie, evitando che i rischi ed i timori qui prospettati prendano corpo, possono dipendere non poco le prospettive di successo del Ttip.

Schede e storico autori