Terra dei fuochi, la lezione appresa

Antonio di Gennaro si occupa della “Terra dei fuochi”, alla quale ha dedicato – assieme a un folto gruppo di ricercatori - molti anni di studio. di Gennaro basandosi sui dati suggerisce un’interpretazione del caso (e della situazione attuale) che è molto diversa da quella mainstream proposta dai media negli ultimi tre anni; infatti, essa rimanda alla crisi strutturale della terza area metropolitana d'Italia – Napoli, con il suo popoloso hinterland - drammaticamente orfana, più che di bonifiche, di politiche e strategie.

Sarebbe un’occasione formidabile, quella della “Terra dei fuochi”, per una riflessione sulle politiche ambientali in Italia, e sulla capacità del nostro apparato legislativo  e amministrativo di progettarle e implementarle. Ora che il clamore sembra essersi placato (in realtà abbiamo imparato che è solo un alternarsi ciclico di fasi ad alta e bassa attenzione dei media, periodicamente riattivato da nuovi ritrovamenti e denunce), dovrebbe essere finalmente possibile ragionare, a mente fredda,  sugli eventi di questi ultimi tre anni.

Perché, se di “Terra dei fuochi” si parla almeno dal 2003 – anno di pubblicazione del rapporto Legambiente sulle ecomafie, nel quale l’espressione è impiegata per la prima volta – è dall’estate del 2013 che tutto si è amplificato e accelerato, con l’intervista del pentito Carmine Schiavone al telegiornale Sky, nella quale si racconta come il clan Bidognetti si sia arricchito per un ventennio, seppellendo nei suoli fertili della piana campana rifiuti di ogni tipo, provenienti in prevalenza da industrie del nord.

L’impatto è enorme, e senza fine è la serie di servizi e reportage sul tema, la cui tesi implicita è la seguente: i clan hanno seppellito nella piana campana ingenti quantità di rifiuti speciali e pericolosi, sovente miscelati al flusso disordinato di rifiuti urbani; i suoli e le falde della piana campana – quella che una volta chiamavamo Campania felix, l’ecosistema agricolo più fertile del globo terracqueo – ne sono stati diffusamente contaminati; le produzioni ortofrutticole coltivate su quei suoli sono anch’esse irrimediabilmente avvelenate; il consumo alimentare di quei prodotti agricoli è la causa del picco di malattie tumorali che affligge le popolazioni della Piana campana.

Questo schema viene proposto come un ragionamento scontato, auto-evidente, che non ha bisogno di prove e conferme. Sin dal primo momento, quanti non appaiono immediatamente persuasi dalla ferrea concatenazione di cause ed effetti, vengono tutti identificati come “negazionisti”.

E’ comunque questo stesso schema di ragionamento a guidare il governo nella scrittura del decreto sulla Terra dei fuochi, emanato nel dicembre 2014. L’obiettivo urgente, per rassicurare opinione pubblica e consumatori, è quello di individuare e mappare le aree agricole contaminate, e interdire l’ulteriore coltivazione. Nel frattempo la diffidenza nei confronti dei prodotti agricoli provenienti non solo dall’area interessata, ma dall’intera regione, attanaglia i mercati, e si moltiplicano in giro per l’Italia i casi di esercizi commerciali che espongono avvisi del tipo “Qui non si vendono prodotti provenienti dalla Campania”.

Ad ogni modo, con il decreto viene attivato un gruppo di lavoro per il monitoraggio e la mappatura delle aree agricole contaminate. Entrano in gioco l’Istituto superiore di sanità, l’Istituto zooprofilattico per il Mezzogiorno, le Università, i servizi di prevenzione del Sistema sanitario nazionale, i servizi tecnici regionali. La piana campana diventa il territorio più monitorato d’Europa. I risultati di questa indagine capillare sono convergenti: lo stato di salute dei suoli e delle acque della piana campana è simile a quello della altre pianure agricole europee a comparabile grado di antropizzazione. Migliaia di controlli sulle produzioni agricole (allo stato siamo a circa quattromilacinquecento determinazioni) ha consentito l’individuazione di soli due campioni di ortaggi contaminati da piombo, che non deriva dai rifiuti ma dalla benzina super che impiegavamo una ventina di anni fa. Ad uguali conclusioni giungono i dati del RASFF, il sistema di allerta rapido dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, e i controlli sistematici effettuati dalla grande distribuzione organizzata, che rimane il principale acquirente del prodotto campano, in prevalenza destinato ai mercati del centro-nord ed europei.

Nel frattempo, le indagini del gruppo di lavoro ministeriale identificano una trentina di ettari (sui cinquantamila interessati dal monitoraggio) da interdire alla coltivazione a causa della concentrazione anomala di potenziali contaminanti. Sul piano epidemiologico, la serie storica di dati dei registri tumori, a partire da quello dell’ASL Napoli 3, attivo da un ventennio, evidenzia come l’incidenza delle principali malattie tumorali (il numero di nuovi casi ogni centomila abitanti), sia in linea con il resto d’Italia, e comunque caratterizzata da un trend decrescente, mentre la mortalità per le stesse patologie (sarebbe a dire il numero delle persone affette che non supera la malattia) è significativamente più elevata nella piana campana rispetto alle altre parti del paese. Detto in altri termini, nella Terra dei fuochi ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più, ed allora il discorso riguarda aspetti completamente differenti, che investono le  performances del servizio sanitario nazionale, la diffusione delle pratiche di prevenzione e screening precoce, la tempestività ed efficacia delle cure.

La mole di dati dei quali disponiamo per questi territori martoriati è imponente, probabilmente senza eguali per nessun’altra regione d’Europa. Alla luce di queste conoscenze, lo schema implicito, che dai rifiuti conduce ai tumori, passando per le attività agricole, ha mostrato tutta la sua debolezza.

Sul piano operativo, l’accertamento dei fatti ecologici ed epidemiologici – basato sulle indagini di campo, piuttosto che su inferenze e narrazioni a tavolino – è importante, perché consente di definire i problemi reali che siamo chiamati ad affrontare. Se vogliamo apprendere qualcosa dalla lezione della Terra dei fuochi, è proprio dal territorio della piana campana – nella sua attuale configurazione, territoriale, demografica e sociale –  che è indispensabile ripartire.

Un territorio che durante l’ultimo trentennio ha visto i casali della piana, intorno al capoluogo, tumultuosamente raddoppiare la superficie urbanizzata, e fondersi in un’unica conurbazione che abbraccia un centinaio di comuni: una periferia indistinta nella quale si concentra il massimo del disagio abitativo, economico e sociale, della domanda inevasa di servizi essenziali, il più elevato deficit di cittadinanza, per usare l’espressione di Fabrizio Barca. Anche il rapporto tra Napoli e le città dell’hinterland, per la prima volta nella storia, si ribalta: il capoluogo adesso è minoritario, dei tre milioni di abitanti della città metropolitana, meno di uno risiede ormai all’interno di esso.

Pure, nella grande conurbazione, il sessanta per cento del territorio rimane rurale, con un tessuto di ventitremila aziende agricole che producono, su una superficie ridotta, il trentacinque per cento del valore della produzione agricola della Campania. Si tratta di produzioni intensive, pregiate, che la grande distribuzione organizzata compera ed esporta, e che rappresentano un’importante voce attiva della disastrata economia metropolitana. Il motore dell’agricoltura regionale è ancora qui, ma si tratta di una realtà semiclandestina, che il censimento ISTAT non è più nemmeno in grado di rilevare interamente, a causa degli aspetti di frammentazione e commistione con lo spazio urbano. Quello che abbiamo scoperto in questi tre anni, è che nel disordine metropolitano, la rete di aziende agricole professionali, snobbato dalla programmazione pubblica e dalle politiche comunitarie, ed anzi identificato come centro di rischio, alla fine, è l’unica cosa che funziona.

Lo spazio rurale metropolitano, che pure è dominante dal punto di vista dell’estensione territoriale, è trasparente alle politiche pubbliche, assieme ai suoi abitanti, e finisce per trasformarsi in uno “spazio vuoto”, un’area di risulta priva di valori specifici, nella quale un sistema urbano fuori controllo può vomitare tutti i suoi problemi ed esternalità, a partire dalle grandi discariche, come la famigerata RESIT di Giugliano,  che per un trentennio hanno funzionato come recapito dei rifiuti – sia autoctoni che d’importazione – e che ancora attendono i necessari interventi di messa in sicurezza e riqualificazione. Per inciso, tutte cose che sapevamo già, senza bisogno di rivelazioni di pentiti o di sofisticati monitoraggi, perché scritte da più di un decennio nel Piano regionale di bonifica dei siti inquinati.

Il dramma della Terra dei fuochi è tutto qui, in un’area metropolitana, la terza del paese, ancora priva di un sistema minimo di governo del territorio, di una strategia pubblica in grado di restituire senso e coerenza ad un mosaico scombinato di realtà urbane sofferenti e di poveri pezzi di countryside. La protesta degli abitanti della Terra dei fuochi – i due milioni di cittadini che popolano l’hinterland metropolitano di Napoli –  parte da qua, da un ambiente di vita avaro di opportunità e vissuto come incerto e ostile, nel cui disordine anche gli scampoli di ruralità finiscono per essere percepiti, anziché come risorsa, come fonte di rischio.

Se tutto questo è vero, ciò di cui ha disperatamente bisogno la cosiddetta Terra dei fuochi,  non sono le bonifiche, pure necessarie, e reclamate a gran voce dell’arcipelago di comitati, che della crisi ambientale hanno fatto un questione identitaria, quanto le politiche. A questo punto, la missione della nascente città metropolitana dovrebbe essere quella di mettere ordine in un mosaico territoriale fuori controllo; di dotare questo sistema congestionato degli standard minimi di civiltà, di ricreare un ambiente sicuro e attrattivo per i cittadini come per le aziende. In tutte queste cose, si è visto, lo spazio rurale non rappresenta il problema, quanto piuttosto la risorsa dalla quale partire per ricostruire un paesaggio di vita credibile.

Sono cose che riguardano per intero la dissestata filiera dei poteri, da quelli locali fino al governo centrale, maledettamente più impegnative degli interventi placebo messi in campo per arginare la tempesta mediatica degli ultimi tre anni. Nel frattempo, in attesa che le politiche ripartano, continuare a fronteggiarsi sul piano dei simboli e delle narrazioni fantastiche, rimane senza alcun dubbio la cosa più comoda da fare.

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