Tecnologia, politica e le biforcazioni della democrazia

Fabrizio Barca, critica la tesi del determinismo tecnologico, sostenendo che le nuove tecnologie mettono di fronte a biforcazioni. Barca traccia un parallelo tra effetti sul lavoro e sulla democrazia e sostiene che dipenderà dalle scelte politiche se la rivoluzione informatica favorirà la democrazia deliberativa o l’autoritarismo e dipenderà dalla capacità dei lavoratori di partecipare al governo dei processi se essi controlleranno soltanto il proprio lavoro. Adottando questa prospettiva Barca sottolinea l’importanza del ruolo dei sindacati e dei partiti politici.

La capacità e l’incentivo di tutti noi di usare la politica per “cambiare il mondo”, ossia per influenzare il corso delle cose, sono scoraggiati dal dilagare di una visione deterministica del rapporto fra nuova tecnologia e democrazia, sia nella società, sia nei rapporti di lavoro. Il corso delle cose sarebbe sostanzialmente segnato e tutti noi dovremmo soltanto adattarci. L’agile saggio di Mario Sai – Vento dell’Est. Toyotismo, lavoro, democrazia, Ediesse, 2015 – arriva per mostrarci l’infondatezza di questo determinismo e per convincerci che la politica ha spazio di azione. Per apprezzare a pieno il contributo di Sai è utile partire dalla tesi simile, relativa alla democrazia politica.

A lungo si è voluto sostenere che la rivoluzione dell’informazione produce un effetto univoco di diffusione della democrazia politica: chi esercita il potere esecutivo, non potendo fare a meno della nuova tecnologia per assicurare innovazione e sviluppo (a meno di non perdere irrimediabilmente consenso), sarebbe costretto ad accettarne le conseguenze in termini di informazione dei cittadini, della loro possibilità di fare rete e quindi di controllare e influenzare chi governa. In realtà, come bene riassume Evgenij Morozov (si veda in particolare L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice edizioni, 2011), chi esercita il potere – anche i regimi autoritari – ha bene appreso come discriminare fra l’uso della nuova tecnologia necessario alla crescita economica e l’uso che metterebbe a repentaglio il proprio potere.

Anzi, sono stati disegnati gli strumenti per volgere la nuova tecnologia a discapito della democrazia: filtrando le informazione in base a parole chiave o ai comportamenti rivelati da chi le usa o produce; utilizzando le informazione per identificare e prevenire gli “antagonisti”; lasciando che il rumore della rete cresca a dismisura, con il risultato di imbonire i cittadini o di distrarli da azioni di effettiva opposizione. Insomma, sul terreno della democrazia politica, che la rivoluzione dell’informazione favorisca l’autoritarismo ovvero la democrazia deliberativa dipenderà da scelte politiche: nel disegno dei sistemi di informazione e nella ri-organizzazione dei partiti e in genere delle associazioni di cittadinanza.

Lo stesso vale per la democrazia nell’organizzazione produttiva presa in esame da Sai, che scrive: “dentro la Rete … sono possibili forme più pervasive di controllo [del singolo lavoratore], oppure si può accrescere la partecipazione di ciascuno alla vita lavorativa, integrandola nel processo decisionale, che diviene processo collettivo di discussione in cui l’autorità stessa potrà essere sottoposta a dibattito e confutazione”.

La biforcazione che Sai vede riguarda il conflitto immanente fra gli imprenditori che controllano capitale materiale e immateriale e i lavoratori che controllano solo il proprio lavoro. E’ il conflitto la cui evoluzione – sotto l’impulso delle organizzazioni del lavoro e con la reazione innovativa degli imprenditori – ha prodotto gli straordinari avanzamenti ottenuti dal capitalismo. Oggi quel conflitto si presenta – scrive Sai – come tensione “tra le capacità crescenti dei lavoratori di usare le tecnologie (e le conseguenti richieste di autonomia professionale e di auto-organizzazione dei tempi e delle attività) e la capacità del sistema aziendale di mantenere il governo dei comportamenti e dell’utilizzo del tempo, regolando la flessibilità e promuovendo fedeltà all’organizzazione”.

Come anche sul terreno della democrazia politica, a fare la differenza sarà la capacità o meno dei lavoratori di partecipare al governo dei processi. Questo è vero tanto nella “vecchia fabbrica manifatturiera”, quanto nel contesto immateriale di un call center, che nelle relazioni precarie di giovani “professionisti” o “a contratto” con l’acquirente unico dei loro servizi. Certo, nel rafforzare questa capacità torna ad assumere un ruolo rilevante il Sindacato, sempre che esso sappia cogliere la permanenza, in quelle diverse forme, del tradizionale rapporto capitalistico di produzione, e al tempo stesso comprendere, riconoscere e sfruttare la natura non deterministica della nuova tecnologia.

Ma Sai ci dice con forza, e siamo d’accordo con lui, che il Sindacato non basta. Così come per l’effetto della tecnologia sulla democrazia politica, servono soggetti collettivi generali, ossia ciò che la nostra Costituzione chiama “partiti”, i quali, attuando l’articolo 3 della Costituzione, garantiscano “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del nostro Paese”.

Nel rimettere l’accento sul partito, Sai condivide l’idea di un partito palestra o della “mobilitazione cognitiva” che ho tratteggiato (Barca F., La traversata. Una nuova idea di partito e di governo, Feltrinelli, , 2013) e poi sperimentato (Cfr. Rapporto “Un anno di Luoghi Idea(li) – Una proposta per il PD” http://www.luoghideali.it/tre-proposte-per-il-pd-fabrizio-barca/) con tanti altri e che ora sembra in molti luoghi d’Italia marciare con le proprie gambe. E’ un partito che ridà importanza ai cittadini e al loro sapere in coerenza con quella “democrazia per mezzo di dibattito” descritta da Amartya Sen (L’idea di giustizia, Mondadori, 2010). Ma questo partito, ci ricorda Sai, deve avere il tema della partecipazione dei lavoratori come sua “prima cura”.

Aprendosi al contributo delle organizzazioni di cittadinanza attiva, portatrici oggi di un patrimonio importante di conoscenza e di impegno sociale, il partito a cui pensa Sai deve cioè superare uno dei tratti che non rende quelle stesse organizzazioni adeguate, da sole, a condurre il cambiamento in porto: il fatto di essere egemonizzate da ceti urbani riflessivi, lontani dagli interessi delle classi subalterne e popolari. L’attenzione a questi interessi, alle scelte normative necessarie per imboccare nei luoghi di lavoro la strada della partecipazione dei lavoratori, e al proliferare di esperienze interessanti che già mettono in atto tale partecipazione, rappresenta il valore aggiunto importante di un partito che continui a proporsi l’obiettivo dell’avanzamento sociale e che voglia incidere sull’effetto delle tecnologie sulle nostre vite.

Insomma, ci dice Mario Sai, l’esito della partita è tutto da scrivere, non solo nella società ma anche nell’organizzazione del lavoro. Comprendere la natura della biforcazione aperta dalla nuova tecnologia ci aiuta a recuperare consapevolezza del dominio umano e delle organizzazioni sociali sugli scenari futuri. Per recuperare questo dominio e ottenere, anche grazie alla nuova tecnologia, nuovi progressi sociali, servono partiti dove conoscenza, preferenze e voce dei lavoratori pesino con forza sulle decisioni. Un insegnamento che ognuno di noi si porterà nel proprio bagaglio.

* Questo articolo sarà pubblicato prossimamente anche sulla rivista trimestrale della CGIL “Quaderni di Rassegna Sindacale”.

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