Sustainable Development Goals? Meglio la Laudato Si’

Salvatore Monni e Massimo Pallottino ricordano che lo scorso 25 settembre a New York sono stati presentati i nuovi Sustainable Development Goals (SDGs) rispetto ai quali sono stati formulati numerosi giudizi positivi. Monni e Pallottino, illustrando le principali caratteristiche della nuova agenda di sviluppo delle Nazioni Unite spiegano perché, a loro avviso, essa sia meno innovativa di quanto si tende a ritenere. A questa conclusione i due autori giungono anche attraverso un confronto con l’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco.

Il 2015 è un anno importante per chi si occupa di temi legati alla globalizzazione e allo sviluppo sostenibile. Al termine di un processo lungo, che non ha mancato di sollevare perplessità (come abbiamo avuto già modo di rilevare sul Menabò e come M. Pallottino argomenta in Aggiornamenti Sociali, fasc. 8-9, 2015) l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha finalmente varato, alla fine di settembre, i nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, i Sustainable Development Goals – SDGs. Diciassette obiettivi (vedi figura 1) accompagnati da 169 targets che segneranno per i prossimi quindici anni gli sforzi della comunità internazionale alla ricerca di un orizzonte di sviluppo sostenibile. E’ invece della fine di maggio la pubblicazione dell’enciclica di Papa Francesco, la Laudato Si’, un testo impegnativo e coraggioso che si rivolge ai credenti, ma anche (nella tradizioni di altre grandi encicliche sociali) a tutte le donne e gli uomini di buona volontà per costruire una nuova alleanza tra l’umanità ed il pianeta su cui essa vive.

monnifig1“The pope v the UN: who will save the world first?” Cosi titolava il Guardian in una recente e interessante comparazione tra l’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco ed gli SDGs, la nuova agenda di sviluppo  delle Nazioni Unite. Si tratta di due documenti dalla genesi estremamente diversa: gli SDGs sono figli di un quindicennio di sforzi per la messa in opera dei Millennium Development Goals, ma segnato da una profonda crisi finanziaria e da forti  rivolgimenti sociali e politici su tutto il pianeta. La Laudato Si’ giunge invece con una valenza programmatica rispetto all’atteggiamento della chiesa cattolica nei riguardi delle problematiche sociali, pur in continuità con le precedenti posizioni, ma con elaborazione certamente nuova nel metodo e nella proposta complessiva.

Come sottolinea il giornale britannico, si tratta di due documenti molto diversi nei contenuti e nell’approccio: certamente più risoluto il documento papale nell’indicare la causa dei problemi e nel proporre un cambio di paradigma (rimettere il rapporto tra l’uomo e l’ambiente al centro del processo di sviluppo); il secondo, nel migliore dei casi, limitato nell’indicare e nel tentare di monitorare (ci riesce?) con i suoi 17 obiettivi le tendenze di uno sviluppo identificato secondo criteri ‘granulari’ (no target left behind ha ironizzato qualcuno facendo il verso al principio no one left behind, che le Nazioni Unite hanno posto alla base del nuovo framework), ma forse privo di una visione realmente coerente. La reticenza nel sostenere la proposta degli SDGs con una proposta ‘diagnostica’ davvero incisiva e di indicare una prospettiva di trasformazione sicuramente efficace rimangono i limiti più evidenti del lavoro iniziato già diversi anni fa e presentato lo scorso 25 settembre a New York. La molteplicità degli attori e delle intelligenze coinvolte lasciava sperare in qualcosa di meglio, come ha fatto trasparire anche papa Francesco, quando ha parlato, di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunite per approvare gli SDGs, proprio del rischio di un esercizio burocratico o tecnocratico soprattutto concentrato nell’enumerare mete e  obiettivi e nel fornire  indicazioni statistiche.

Eppure leggendo le agenzie di stampa internazionali, si osserva che non sono soltanto le Nazioni Unite a celebrare  la nuova agenda come lo strumento per una stagione di rinnovata ed efficace attenzione ai temi dello sviluppo sostenibile; anche capi di stato, intellettuali, esponenti di molte organizzazioni non governative sembrano convinti che lo sforzo, pur con alcuni limiti abbia prodotto un buon risultato. Perché? Si tratta semplicemente di dichiarazioni dettate da un ovvio ‘ottimismo istituzionale’?

In parte è probabilmente così, soprattutto per quanto riguarda i governi, ma non è da sottovalutare un meccanismo come quello descritto da Owen Jones nel suo libro The Establishment, secondo cui una delle più potenti leve per l’azione (o l’inazione) delle élites dei paesi più ricchi è quella dell’assenza di alternative a questo modello di sviluppo: “There is no alternative”, diventa uno slogan ma anche una posizione programmatica che giustifica la difesa dello status quo, pur con tutte le sue crepe. La differenza è dunque soprattutto tra chi vede la necessità di un’alternativa al modello di sviluppo corrente, prospettiva che appare chiaramente nell’enciclica di Francesco; e chi alla possibilità di un’alternativa non crede affatto. Per i secondi allora anche i modesti risultati ottenuti con gli SDGs possono sembrare risultati titanici.

Titanico può essere introdurre qualche elemento di sostenibilità ambientale, in un framework complessivo costruito attorno ad una visione dello sviluppo economico senza veri elementi di cambiamento rispetto al passato. Nell’approccio degli SDGs non mancano riferimenti alle tre dimensioni della sostenibilità (ambientale, sociale ed economica); manca però l’interconnessione tra di esse, malgrado fosse chiaramente presente nel Rapporto Brundtland, che sin dal 1987 aveva segnalato le tre dimensioni come interdipendenti ed interconnesse: non è possibile perseguire lo sviluppo economico senza esplorarne i contraccolpi ambientali e sociali. Questo richiederebbe un’analisi attenta delle tensioni presenti tra i vari obiettivi e dei trade-offs che si presentano nelle politiche pensate per realizzarli: un’analisi del tutto assente dall’orizzonte degli SDGs, e purtroppo anche dal lavoro delle commissioni statistiche cui è stato delegato proprio in questi mesi il compito di approfondire il tema della misurazione da un punto di vista tecnico, e probabilmente di risolvere alcuni dei problemi che non hanno trovato una soluzione politica soddisfacente.

Anche il non agire però ha un costo: un’evidenza sempre più ampia segnala che  la violazione dei limiti biofisici della terra si accompagna ad  una sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. C’è un elemento su cui non si riflette abbastanza: pur senza automatismi, la concentrazione del potere economico corrisponde alla concentrazione del potere sociale e politico. Le decisioni sembrano, da questo punto di vista, affidate esattamente a coloro che non hanno alcun motivo di prenderle. Ma secondo il Global Footprint Project, l’umanità impiega ormai meno di otto mesi, per consumare lo stock di ‘capitale naturale’ di pertinenza dell’anno; per gli ultimi quattro mesi di ogni anno, l’umanità consuma ‘a credito’, scavando un fossato che qualcun altro dovrà riempire: attualmente a pagare il prezzo sono i più poveri ed i più marginali della terra, quella metà di mondo la cui ricchezza è pari ad un sessantacinquesimo di quella in mano all’1% più ricco, come segnala un recente rapporto di OXFAM. Ma la parte più consistente del conto dovrà essere saldata da coloro che abiteranno il pianeta nelle generazioni future, e che con esso dovranno imparare a convivere in modo meno distruttivo di quanto facciamo ora.

Non è soltanto Francesco a suggerire la necessità di un cambiamento. In occasione dell’Expo, un gruppo di attivisti e ricercatori guidati da Vandana Shiva avevano proposto il manifesto “Terra viva” , suggerendo la necessità di una transizione dall’attuale modo di pensare basato su un approccio lineare ed estrattivo, verso un approccio circolare basato sulla reciprocità del dare e ricevere. E si moltiplicano le esperienze in cui l’antropologo Arturo Escobar (Cfr. «Preface to the 2012 Edition», Encountering Development – The Making and Unmaking of the Third World, Princeton University Press, 2012) troverebbe la possibilità di sviluppare un‘discorso di transizione’, nell’identificare pratiche esistenti e prospettive verso una ‘trasformazione culturale ed istituzionale radicale – per la verità, una transizione verso un mondo del tutto diverso’. La creatività delle comunità e degli individui riesce per fortuna a proporre elementi di novità, ben al di là delle grandi sintesi adottate a livello globale; e di questa creatività ci sarà assoluto bisogno nei prossimi mesi, per riempire di contenuti e di partecipazione la necessità di fare fronte a questioni che si fanno ogni giorno più urgenti.

Gli SDGs si presentano però ora, nota un commentatore autorevole come William Easterly come ‘senza senso, trasognati, confusi’ (SDG come Senseless, Dreamy, Garbled); o piuttosto come una scatola vuota che deve essere riempita da processi che restituiscano il senso di un agire globale: una prospettiva coerente che si sostanzia in impegni precisi e in una partecipazione diffusa soprattutto nel fissare le priorità reali in ogni situazione concreta, e nel monitorarne i progressi. Non a caso il tema dell’organizzazione del monitoraggio è al centro del dibattito di questi mesi, e non è ancora chiaro l’orizzonte entro cui si muoverà quel High Level Political Forum che sembra aver ereditato il mandato di mantenere un osservatorio permanente sul modo in cui gli SDG verranno implementati. Di sicuro, sarà necessario mantenere alto il livello dell’attenzione, perché gli SDG possano diventare occasione per aprire dei processi politici di dialogo e coinvolgimento, aperti ad un confronto con gli attori sociali, fino ad ora non molto ascoltati nelle diverse fasi del percorso.

Nella stessa prospettiva, assume un’importanza particolare anche il prossimo appuntamento di Parigi, quella COP 21, in cui la comunità internazionale è chiamata a dare sostanza agli impegni contro il riscaldamento globale, primo segno di una rinnovata attenzione verso un pianeta del quale sembra sia necessario occuparsi seriamente se si vuole assicurare la stessa sopravvivenza del genere umano.

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