Spegnere il fuoco, costruire la casa: l’Europa dei pompieri e degli architetti

Maurizio Franzini prende spunto dall’affermazione di Delors secondo cui l’Europa ha bisogno di pompieri e di architetti per chiedersi se ai molti pompieri si affianchino oggi architetti all’altezza del compito. La risposta negativa spinge Franzini a mandare qualche messaggio all’architetto che verrà il principale dei quali consiste nell’invito a dare più importanza, nella progettazione del suo edificio alla disuguaglianza, e a approfondire i suoi legami con la spesa sociale e, soprattutto, con il funzionamento dei mercati.

“L’Europa ha bisogno del duro lavoro dei pompieri, ma soprattutto ha bisogno di architetti”. Queste parole sono di uno dei “padri nobili” dell’Unione Europa, Jacques Delors,  che le ha pronunciate più volte, e anche di recente.

In effetti, i pompieri sembrano essere faticosamente al lavoro nel tentativo di domare i vari focolai che minacciano l’Europa e alcune delle sue più belle costruzioni. Anche gli architetti sembrano non mancare ma a ben guardare non di veri architetti si tratta. Se, come spesso accade,si  limitano a raccomandare interventi di restauro dell’edificio già costruito, essi dovrebbero più correttamente essere considerati pompieri (magari nel back office) più che veri e propri costruttori visionari di un diverso e migliore futuro.

Questi architetti-pompieri affiorano tra le righe di molti documenti prodotti a Bruxelles (un esempio: il Rapporto dei 5 presidenti di circa un anno fa, a cui si è riferito anche Patriarca nello scorso numero del Menabò) e talvolta vivono vite diverse nelle due fasi in cui dividono il tempo: sono pompieri della prima fase (l’unica davvero visibile) e architetti nella seconda, ma architetti con indosso ancora gli abiti del pompiere e immersi in un preliminare brainstorming piuttosto che nella realizzazione del plastico del nuovo edificio.

Dunque, occorre continuare a cercare gli architetti di Delors e per riconoscerli forse è utile ricordare quale mestiere essi debbano fare e che virtù occorrano. Ci aiutano queste fresche parole, scritte da Marco Vitruvio Pollione una trentina d’anni prima della nascita di Cristo:

“L’architettura, disciplina dell’edificare, sceglie, dirige e giudica i contributi pratici e teorici di molte altre scienze e arti…… Il vero architetto dovrà possedere doti intellettuali e attitudine all’apprendere”.

Con questi requisiti, importanti ma non inaccessibili, di architetti, c’è da scommetterci, potrebbero trovarsene diversi.  Ma il rischio è che qualche requisito sia soddisfatto solo in modo formale. Il rischio, quando si tratta di costruire una nuova casa europea, è che l’architettoabbia attitudine ad apprendere, ma apprenda le cose sbagliate; si tratta di un rischio tutt’altro che marginale quando dall’interno della vecchia casa gli occupanti possono difendere i propri spazi con megafoni potenti e chissà quali altri strumenti di conservazione.

Provo a fare un esempio: “Viviamo in un mondo dove gli europei, che sono  il 7% della popolazione, coprono il 25% della produzione e assorbono il 50% della spesa sociale”. Questa affermazione, che tende a rappresentare l’Europa come un continente di “spendaccioni sociali” – se così si può dire -è stata ripetuta diverse volte da politici europei di primo piano. Secondo una diffusa opinione la prima a formularla è stata Angela Merkel, in occasione di una sua visita in Moldavia nel 2013 e il lavoro di alcuni “segugi”, partiti alla caccia della fonte, ha portato a concludere che la cancelliera tedesca l’avrebbe estratta da un rapporto della Fondazione Adenauer.

L’architetto, se facesse propria questa informazione, e in base ad essa decidesse che un pilastro del suo edificio sarà una ridotta spesa sociale, rischierebbe di commettere un errore.  Infatti, è vero che la popolazione europea è circa il 7% di quella mondiale ed è anche vero che la produzione del nostro continente è circa ¼ di quella mondiale. Ma è molto dubbio  che la nostra spesa sociale sia metà di quella mondiale. Un valutazione più attendibile è che essa si aggiri attorno al 35%. Forse questo dato a molti  potrà sembrare sufficiente  per continuare a classificarci come “spendaccioni sociali”, ma i problemi – di particolare interesse per l’architetto –sono altri e cioè:  che effetti produce quella spesa sociale? Possiamo, eventualmente, trovare un modo di ridurla evitando, però, che alla sua riduzione seguano crescenti disagi e malesseri sociali, ai quali il nostro architetto dovrebbe essere molto sensibile (visto che sta costruendo la casa europea di cui ben conosce la tradizione e i valori)?

E’ rilevante, a questo riguardo, ricordare alcuni dati: secondo Eurostat, nel 2014, 122 milioni di cittadini dell’Unione Europea, cioè poco meno di ¼  della popolazione complessiva, erano a rischio di povertà. Tale rischio si manifesta quando vale almeno una delle seguenti 3 condizioni: ci si  trova in uno stato di effettiva povertà economica, si soffre di qualche forma di severa deprivazione, si vive in nuclei familiari a bassa intensità lavorativa. Quel dato, abbastanza impressionante, è in crescita rispetto al 2008 e raggiunge valori sensibilmente più elevati in numerosi paesi, tra i quali il nostro, dove poco meno di 1/3 della popolazione si trova in questo  deprecabile stato.  Un altro dato da tenere presente è quello relativo alla disuguaglianza, nei vari paesi, nella distribuzione dei redditi disponibili: spesso è molto alta e comunque risulta ovunque in crescita nel corso degli ultimi due o tre decenni.

La spesa sociale, naturalmente, non ha soltanto lo scopo di contrastare la povertà e di ridurre le disuguaglianze. Tuttavia questi deludenti risultati distributivi per un continente di “spendaccioni sociali” non possono passare sotto silenzio e l’architetto dovrebbe preoccuparsene un bel po’, soprattutto se coltiva l’idea che  una diversa (e non necessariamente minore) spesa sociale possa essere uno dei  pilastri del proprio edificio.

La ricerca delle cause di questo stato di cose può imboccare varie direzioni, tra le quali vi è certamente l’efficacia redistributiva della spesa sociale che in diversi paesi è molto bassa. Ma una direzione troppo spesso trascurata eppure decisiva è quella che porta verso gli esiti distributivi che si determinano nei mercati e che influenzano la distribuzione dei redditi cosiddetti di mercato, cioè precedenti all’intervento redistributivo dello stato che si realizza attraverso le imposte, da un lato, e i  trasferimenti, dall’altro.

I dati presentati nell’articolo di FraGRa sulla predistribuzione, in questo stesso numero del Menabò, lasciano pochi dubbi: la disuguaglianza nei redditi di mercato è cresciuta nella quasi totalità dei paesi europei, talvolta a ritmi davvero vertiginosi. E anche qui si distingue il nostro paese: con una volata quasi mozzafiato, nel 2010 abbiamo superato gli Stati Uniti in questo indicatore di disuguaglianza.

Ma al di là di quello che accade al nostro paese c’è una semplice conclusione da trarre: in Europa i mercati sono una macchina che produce disuguaglianza (e anche povertà) elevata e crescente. La spesa sociale, anche ammesso che sia da “spendaccioni”, non riesce ad evitare che questa macchina determini condizioni di disagio sociale diffuso e assetti non proprio in linea con quelli corrispondenti alle idee più condivise di giustizia sociale.

Il nostro architetto avrebbe, dunque, molto su cui riflettere. In particolare dovrebbe riflettere su come ridurre la disuguaglianza di mercato e le strade per farlo sono numerose (si veda al riguardo il già citato articolo di FraGRa su questo numero del Menabò). Un solo esempio specifico: volendo valorizzare i suggerimenti di alcuni degli architetti-pontieri potrebbe imporre alle Competitiveness Authorities  delineate nel Rapporto dei cinque Presidenti di tenere conto, nel definire le forme accettabili della concorrenza, anche degli effetti che potrebbero prodursi sulle disuguaglianze nei redditi, in particolare  attraverso la creazione di rendite e le modalità della loro distribuzione.

Per muovere in questa direzione, l’architetto dovrebbe liberarsi anche di altre idee tanto diffuse quanto discutibili. In particolare delle due seguenti:  quella secondo cui se la povertà è un problema non altrettanto può dirsi della disuguaglianza e quella che considera la crescita economica la soluzione di tutti i mali (quindi anche di questi disagi sociali) e teme che dare priorità alla disuguaglianza significhi indebolire l’efficacia di questo potente antidoto ad ampio spettro.

Non è qui il caso di entrare nel merito di queste idee e della loro discutibilità o fallacia, a seconda dei casi.  Altre volte il Menabò se ne è occupato e continuerà a farlo. Si può però mettere in guardia l’architetto dal farsi condizionare da documenti che fanno fatica perfino a  menzionare questi termini. Ad esempio, nell’ultima Growth Survey  della Commissione Europea, la parola “crescita” compare 47 volte,  “povertà” 7 volte e “disuguaglianza” 0 volte.  E nel Rapporto dei 5 Presidenti è addirittura assente la parola “povertà”.

Sottrarsi a questa “visione” è indispensabile per il nostro architetto che potrà progettare un edificio dove un mercato diversamente funzionante potrebbe permettere di avere più giustizia sociale senza più spesa sociale. Ma per raggiungere questo scopo dovrà impegnarsi per usare al meglio i propri strumenti:  il disto laser per prendere bene le misure, lo  scalimetro per passare senza sorprese dai plastici alla realtà e così via.  Facendo tutto questo l’architetto mostrerebbe che l’edificio della giustizia sociale non può essere costruito se una delle sue tessere essenziali, il mercato, non si fa in alcun modo carico di contribuire a quell’edificio. Non solo, ma la più grande soddisfazione per lui, potrebbe essere quella di sentir dire dell’Europa da lui progettata quello che è stato detto del Guggenheim di New York: è un edificio che ascolta le ragioni di architettura, mercato e democrazia.…ed è anche bellissimo.

Schede e storico autori