Scienze sociali e capacità critiche. Una pista di lavoro sulle fondamenta sociali dell’economia

Vando Borghi, dopo aver sinteticamente ricostruito le modalità attraverso cui il progetto neo-liberista è andato radicandosi negli ultimi decenni, concentra la propria attenzione sulle potenzialità, ai fini di un cambiamento di marcia, dell’approccio centrato sull’“economia fondamentale” e si sofferma sulle due principali coordinate di questo approccio: la centralità delle dotazioni e dei servizi che costituiscono l’infrastruttura economica della vita quotidiana di tutti i cittadini e l’ancoraggio territoriale.

Un progetto realizzato? Effetti della de-politicizzazione. Il progetto neoliberista, notava già anni fa Wendy Brown (Edgework: Critical Essays on Knowledge and Politics, Princeton, 2005), non consiste in un disvelamento delle leggi di funzionamento oggettivo della realtà in base al quale promuovere forme ben fondate di organizzazione sociale. Piuttosto, quel progetto ha una natura costruzionista: elabora una determinata concezione del mondo e dei rapporti sociali, a partire dalla quale l’economia è ricentrata sull’estrazione di valore (ben diversa dalla produzione di valore; L. Gallino, Finanzcapitalismo, Torino, 2011); e la impone come visione fattuale e oggettiva (“there is no alternative”) attraverso un costante lavorio su molti piani (politico, culturale, istituzionale, sociale). Lavorio che vede nel progressivo e sempre più intenso processo di depoliticizzazione, tanto dell’economia quanto delle altre materie oggetto dell’azione pubblica, un fattore fondamentale per la propria capillare affermazione (G. Moini, a cura di, Neoliberismi e azione pubblica, Roma, 2015).

E’ grazie a tale depoliticizzazione che, ad esempio nel contesto europeo, le diverse riforme avanzate convergono sostanzialmente nello svuotamento dello Stato e nella ridefinizione dei “servizi di interesse generale” in “servizi di interesse economico generale”, da sottoporre a liberalizzazione e, in molti ambiti, a privatizzazione. Questo ed altro mette in luce un efficace studio (F. Barbera, J. Dagnes, A. Salento, F. Spina, a cura di, Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale, Roma, 2016; dal momento che rimanderemo spesso ad esso, di qui in poi sarà: EF) che raccoglie le analisi di diciassette studiosi italiani. In esso viene messo a fuoco sia, in generale, il modo in cui  il progetto neoliberista ha modificato il rapporto tra economia e società, sia gli effetti che il suo dispiegamento ha avuto, più specificamente, sui settori “fondamentali” dell’economia, questi ultimi identificati come beni e servizi la cui produzione ed erogazione fornisce le infrastrutture indispensabili alla vita quotidiana di tutti i cittadini.

L’esito di tali trasformazioni è ben lontano da quello con cui le retoriche sulla modernizzazione e sull’efficienza dei servizi le giustificavano, laddove è invece macroscopico l’aumento delle diseguaglianze che esse hanno prodotto, non solo in termini strettamente economici, ma anche di accesso a quell’insieme di servizi e di infrastrutture indispensabili a tutti per una giusta qualità della vita. E andando al nocciolo, le domande da farsi come scienziati sociali che non intendono derogare al proprio compito critico, sono: come e perché un progetto i cui effetti sono così negativi per un così ampio numero di persone, dopo essersi imposto, continua a sussistere e a riprodursi? Che tipo di meccanismi sociali mette all’opera? Quali spazi esistono per le persone per modificare tale stato di cose? E infine, ma niente affatto meno importante: in che modo le scienze sociali contribuiscono a moltiplicare o invece a contrarre questi spazi?

Guardare all’ “economia fondamentale”: una pista di lavoro promettente. Un tentativo importante di rispondere a queste domande è quello che introduce e mette al lavoro un approccio centrato sull’“economia fondamentale”, sviluppato da una rete di ricerca di respiro internazionale e multidisciplinare (vd. il Centro di ricerca sul cambiamento socioculturale dell’Università di Manchester e la relativa presentazione. Una prospettiva che si configura come particolarmente promettente e che ha recentemente trovato anche un approdo italiano (vd. appunto EF, nonché il n. 142 della rivista Sociologia del lavoro, dedicato a “Declino e reinvenzione del lavoro nell’economia fondamentale”).

Possiamo definire lo sforzo di indagine di questi studiosi come un’opera illuminista. E’ infatti uno stato di minorità e di oscurantismo economicista quello in cui da trenta anni a questa parte ci ha gettato l’egemonia del progetto neoliberista in tutte le sfere del pensiero e dell’azione sociale, rispetto al quale queste analisi hanno appunto l’obbiettivo di fare luce. La natura illuminista che caratterizza quest’opera di analisi consiste proprio nel tentativo di mettere in evidenza le contraddizioni sistemiche che il progetto neoliberista ha fin qui nascosto dietro la propria brillante apparenza e di creare le condizioni, di conoscenza prima di tutto, per un progetto alternativo. In effetti, sottolineano gli autori del volume italiano, la sfida (e il conflitto), ancor prima che politica “è di ordine cognitivo, e probabilmente spetta alle scienze sociali”.

Due le coordinate fondamentali di questo approccio. La prima, l’enfasi sulla centralità di quell’insieme di dotazioni e servizi che costituisce l’infrastruttura economica della vita quotidiana di tutti i cittadini: è su questo, l’economia fondamentale appunto, che va concentrata l’attenzione scientifica e politica. L’insistenza sui cosiddetti “settori avanzati” e sull’innovazione tecnologica – la cui importanza, naturalmente, non è in discussione – ha invece spesso fatto perdere di vista la cornice entro la quale essi devono comunque essere concepiti e valutati, cioè la natura funzionale a quella infrastruttura della quotidianità e alle esigenze sociali che in essa devono trovare sostegno. D’altra parte, quando quella infrastruttura è fatta oggetto di attenzione politica, essa viene riconfigurata come ambito da sottrarre al controllo pubblico ed al quale estendere la competizione di mercato per l’erogazione di beni e servizi. Il programma centrato sull’economia fondamentale si caratterizza invece per l’obbiettivo di “restituire l’economia alle esigenze del mondo sociale” (EF).

La seconda, l’ancoraggio territoriale dell’economia fondamentale, dal momento che le attività ed i servizi che la costituiscono risultano necessariamente legati ad un contesto territoriale (locale o nazionale). Questo aspetto svolge un ruolo importante per le potenzialità politiche di tale approccio, poiché chiama ad una (ripresa di) responsabilità dei soggetti che quei contesti territoriali concorrono a regolare, in relazione alla qualità dell’infrastruttura di cui l’economia fondamentale consiste e che è indispensabile per la vita quotidiana di tutti i cittadini, oltre che agli effetti occupazionali ed economici in generale. Una importanza che esige, allo stesso tempo, di ripensarne in direzioni più radicalmente democratiche le forme di regolazione. Alla radice delle enormi diseguaglianze che sono venute sviluppandosi in questo trentennio, infatti, non c’è tanto un problema di redistribuzione (come pure molte letture, anche solide, tendono a sostenere) quanto piuttosto un problema concernente il modo di accumulazione, cui appunto fa drammaticamente difetto la democrazia, tanto nella sfera strettamente economica e imprenditoriale, quanto in quella politico-istituzionale e, ancor più, nel raccordo e nel coordinamento delle due.

A “bassa intensità”: il neoliberismo in salsa italiana. Un neoliberismo “a bassa intensità” costituisce la cifra delle riforme del lavoro, delle imprese pubbliche e dei servizi pubblici locali susseguitesi in Italia nel corso di circa trentacinque anni. Se il lavoro, reinterpretato secondo il “circuito culturale postfordista” (EF), è stato progressivamente sottomesso alle logiche manageriali, l’azione pubblica è stata a sua volta sottoposta, via liberalizzazioni e privatizzazioni, all’imperativo della massimizzazione del capitale e della finanziarizzazione. A tale quadro contribuiscono poi le trasformazioni dell’impresa, fondate su un rapporto tra quest’ultima e la finanza che si è andato invertendo: l’impresa è così divenuta “un’articolazione dei mercati finanziari” e uno strumento dominato dall’obbiettivo della massimizzazione dell’interesse degli investitori. E in questa trasformazione, il lavoro ne paga il costo più alto, divenuto irrilevante e talvolta addirittura d’ostacolo al perseguimento di interessi meramente finanziari. Questi ultimi sono infatti così naturalizzati nell’ordine delle cose che è nelle “stesse regole di calcolo del rendimento del capitale che si trova il suo ritrarsi dalla missione di produzione di reddito” (EF). Se si osservano i settori dell’“economia fondamentale”(servizi ferroviari, gestione del patrimonio culturale, servizi sociali, gestione rifiuti urbani e differenziazione, sistema idrico), si riscontra che sono accomunati dal crescente indebolirsi del principio che ne aveva ispirato la nascita, l’obbiettivo del benessere collettivo; piuttosto, sono sempre più assorbiti nel processo di “estrazione di valore”, vale a dire nel meccanismo finalizzato a “generare profitti (o, piuttosto, rendite) senza generare prosperità” (EF).

Quali sono allora le condizioni di possibilità per una alternativa alle forme dominanti di integrazione tra economia e società? L’approccio dell’“economia fondamentale” setaccia i risultati di un’analisi di “sociologia della capacità critica”, attraverso la ricognizione delle eterogenee basi teoriche ed esperienze concrete di ciò che Polanyi definiva l’“autodifesa della società”: dal movimento per i beni comuni o quello per la decrescita, alle forme innovative di agricoltura o all’economia solidale, per non fare che pochi esempi. Occorre tuttavia guardare oltre la natura spesso molecolare di queste forme di resistenza al progetto neoliberista, e va inteso in questo senso il tentativo di definire una “licenza sociale” (EF), una modalità di governance delle attività economiche e imprenditoriali che esca dal volontarismo della “responsabilità sociale” dell’impresa e che espliciti il vincolo che lega le attività svolte nell’economia fondamentale con le comunità locali e i gruppi di utenti cui sono rivolte.

La critica, ai tempi del neoliberismo. Il programma di lavoro della “economia fondamentale” è denso di strumenti conoscitivi e analitici, nonché di piste preziose per l’iniziativa politica e culturale, va fatto conoscere, studiato e discusso. Si tratta, inoltre, di una dimostrazione di come la sociologia, le scienze sociali in generale, abbiano molto da offrire a chi non si è (magari allegramente) rassegnato allo stato di cose correnti. Occorre probabilmente fare attenzione ai rischi di chiusura sistemica dell’approccio proposto (ad esempio, a proposito di come tale prospettiva di ricerca è illustrata nel volume italiano cui ci siamo ampiamente riferiti, l’obbiettivo dell’estrazione di valore spiega molto, ma non tutte le trasformazioni dell’economia fondamentale discusse sono immediatamente interpretabili secondo questa chiave). Ed occorre, inoltre, guardarsi anche dai limiti e dai pericoli dell’illuminismo, come ci hanno insegnato le menti più brillanti della teoria critica (che ancora può ampiamente aiutare i nostri tentativi di sottrarci alla doxa). Per uscire dallo stato di minorità, far luce e chiarezza laddove domina l’oscurità è indispensabile. Tuttavia occorre fare i conti, come già Walter Benjamin aveva intuito, con la valenza religiosa ed il dominio della connessione intima che in ciascuno di noi salda la struttura dei bisogni materiali all’immaterialità del desiderio. Come recentemente ha rimarcato Carlo Freccero (L’idolo del capitalismo, Roma, 2016), se vogliamo comprendere e trasformare ciò in cui siamo immersi, “non possiamo ignorare questo aspetto fideistico che si pone alla base del neoliberismo”.

Le letture critiche della realtà corrente, come ha mostrato Didi-Huberman (Come le lucciole: una politica delle sopravvivenze, Torino, 2010), rischiano spesso di restituirci un quadro di dominio totalizzante, come di un fato cui non si può sfuggire. E’ importante invece elaborare delle analisi la cui accuratezza e lucidità non si capovolgano paradossalmente in un destino già scritto, ma che sappiano mostrarci, secondo la metafora che Didi-Huberman reinterpreta da Pasolini, dove e come le lucciole sopravvivono, nonostante tutto. E in questa elaborazione le scienze sociali hanno/devono assumersi una responsabilità cruciale, una sfida che appunto ci pare venga pienamente colta nella prospettiva di ricerca discussa.

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