Roma, punto e a capo

Silvana Cirillo condensa in questo articolo l’atmosfera che domina in “Roma. Punto e a capo” il libro da lei curato che è una sorta di romanzo a più mani sulla Roma degli anni successivi al dopoguerra e che comprende scritti di grandi narratori (nell’articolo Cirillo riporta passi di Flaiano, Pasolini e Parise)e di critici che quei narratori hanno studiato. Dall’articolo, e ancora più dal libro, emerge l’immagine di una città che come scrive Parise, rappresentava al meglio, quello che “gli stranieri chiamerebbero il fenomeno Italia”.

La vedrai da’ suoi colli:/dal Quirinale fulgido al Gianicolo,/dall’Aventino al Pincio più fulgida ancor ne l’estremo vespero,/ miracol sommo, irraggiare i cieli…/

Nulla è più grande e sacro. Ha in sé la luce d’un astro./

Non i suoi cieli irragia solo, ma il mondo, Roma.

(Gabriele D’Annunzio, Congedo 25 in Elegie Romane),

L’idea iniziale era minimale: dare voce alle periferie romane attraverso gli occhi e la penna di scrittori novecenteschi che ne avessero seguito o raccontato la nascita e lo sviluppo dal dopoguerra agli anni ‘60. Eravamo in pieno anniversario della morte di P. P. Pasolini e il collega Alessandro Zuccari ed io parlavamo a ridosso di mostre, convegni, incontri pasoliniani dove le periferie erano il nodo e lo snodo di qualunque discorso. “Pasolini – osservava Zuccari con partecipazione – conobbe  a fondo le diverse zone della città, ne ascoltò ogni respiro, e non smise mai di indagare in modo analitico seppure poetico quelle realtà marginali nelle quali si era imbattuto  arrivando forzatamente nel 1950, da immigrato…”

 Passò il momento, ma il progetto Roma rimase e si trasformò: ci volle poco ad accorgersi della riduttività di quel taglio e del torto che avremmo fatto alla nostra città, relegandola alla poverissima  periferia e alle sue baracche degli anni ‘60: “la lunga sfilata di baracche che dalla Via Nomentana arriva al Fosso di Sant’Agnese lungo la ferrovia Roma-Firenze a tutti nota per essere adiacente al popolosissimo ‘quartiere africano’, per essere stata lo sfondo del film Il tetto…”(Italo Insolera, 1962).

Roma meritava ben altro palcoscenico e chiedeva un ruolo da protagonista “tout court”: centro e periferie, vecchio e nuovo, armonico e disordinato; dopoguerra, anni ’60 e intero ’900…. Roma, punto e a capo, insomma.

La Roma postbellica, ferita ancora dagli anni bui della guerra, la Roma neorealista, ma anche la Roma rinata, gaudente e ribelle insieme, degli anni ‘60, della “dolce vita” e delle graffianti neoavanguardie. Stagione effervescente e ricca di aspettative che permise di riappropriarsi di Roma – non solo da parte dei romani – di  ripensarla e rileggerla nel suo insieme e di farne man mano un punto di incontro imprescindibile e obbligato per intellettuali e artisti.

 Dunque dalla città raccontata dagli scrittori, pensai, bisognava passare a quella vissuta dai  narratori, che è ben altra e più ampia categoria, e comprende soggettisti, sceneggiatori, registi, giornalisti, fotografi; ai loro sguardi, innamorati, stupiti, perplessi o disincantati  affidare inedite indicazioni di viaggio tra luoghi reali e luoghi metaforici, tra luci e ombre di questa nostra capitale. Come analizzare, infatti il rapporto con la città eterna intrecciato da un Flaiano, un Malerba, uno Zavattini, un Moravia, un De Cataldo e non considerarlo, oltre che  attraverso la loro letteratura, anche attraverso le loro incursioni in cinema e sceneggiatura? Così nacque un’altra idea di Roma: quella delle periferie e dei protagonisti della  stagione neorealista e di Flaiano Fellini, Gadda, Ortese, Landolfi, Malaparte, Malerba, Manganelli, Morante, Moravia, Pasolini, Zavattini; quella di De Cataldo e del tramonto della  retorica delle periferie: presentati da saggi acuti e penetranti di studiosi e critici (Marmo, Pomilio, Patrizi, Cirillo, Massari, Muzzioli, Cortellessa, Sgavicchia, Fratocchi, Carlino, Minuz, Del Castillo), che evidenziassero passioni, malumori, complicità, rifiuti, immagini, metafore…dei vari narratori. Incorniciati da due splendide raccolte di pezzi giornalistici mai pubblicati prima, scritti da Goffredo Parise ( Suite romana, sugli anni ‘70) e Gian Gaspare Napolitano (sulla Roma mondana tra anni 50 e 60). Quale Roma esce dunque dagli sguardi ora innamorati ora straniati, ora complici ora spaesati dei narratori scelti per questo lungo viaggio? E dai vari poeti chiamati “estemporaneamente” a ravvivarne le soste? E dai paralleli emozionanti percorsi fotografici atti a fissarne scorci e panorami? Una Roma complessa, armonica e asimmetrica, piena di piazze luminose e vicoli bui; materna e animalesca, mitica e infernale, assordante, opaca e fascinante. La Roma fatta di splendori e miserie che nelle sue evocative poesie musicava P. P. Pasolini.

Giugno 1958. Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un  film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista. Fellini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa ‘società dei caffè’ che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere. È una società che, passato lo spavento della guerra fredda e forse proprio per reazione, prospera un po’ dappertutto. Ma qui a Roma, per una mescolanza di sacro e di profano, di vecchio e di nuovo, per l’arrivo massiccio di stranieri, per il cinema, presenta caratteri più aggressivi, sub tropicali. Il film avrà per titolo La dolce vita. E si girerà in una irriconoscibile via Veneto. (E. Flaiano, La solitudine del satiro)

È stato detto: soltanto chi l’ha vissuto può sapere e raccontare che cosa sia stato il clima del dopoguerra a Roma. Si respirava un’aria euforizzante perché il ricordo del lungo incubo, di quella dissennata convivenza con la morte, faceva da propellente per una volontà di ripresa, di “rinascita”, potremmo dire, che si traduceva in un fervore di iniziative in tutti i campi. Roma apparve subito come la città ideale per convogliare sogni e speranze. Lo si vide con l’afflusso da ogni parte del mondo di scrittori, pittori, registi e, soprattutto, di giovani. Era accaduto lo stesso quando  chi aveva talento nel primo dopoguerra  imboccava la via di Parigi. Ora  era Roma ad avere quella incontrastata leadership. Fu un decennio tutto  da vivere e da ricordare  quello del 50-60 con il passaggio da una concezione di vita ancora dominata dagli ultimi strascichi di miseria e di fame al gusto ritrovato per la “dolce vita”. Anche il cinema, esaurita la splendida sofferta epopea  neorealista dei vari De Sica, Rossellini, Risi, anche il cinema intraprendeva  nuove strade. E’ proprio del 1959 l’uscita del film che rappresenterà un passaggio epocale, che chiude una fase storico –culturale  riflessiva e dolorosa, scarna direi, per indicarne una nuova, più grassa e fantasiosa: La dolce vita di Federico Fellini.

Roma, infatti, ormai capitale decretata dei media e del cinema, meta ambitissima di tutti gli artisti, aveva in quegli anni accolto tra le sue braccia, o nelle sue spire scrittori da tutta Italia, che si erano stabiliti lì fino a confondersi, quali figli adottivi, con gli originari romani.

Ho scelto di stare a Roma perché questa città, nel suo vociare, nel suo odore di cuoio e di sterco di cavallo e di cucine all’aperto, nei suoi cumuli di mercanzie, dalle pietre preziose agli stracci è innanzitutto la città che rappresenta  meglio quello che gli stranieri chiamerebbero il fenomeno Italia, poi perché proprio per questo e non a caso è la capitale, infine perché è la città italiana più libera e viva che io conosca.

(G.Parise,  Corriere 4,3, 1976.)

Le famose serate romane, i vari caffè, Rosati, Canova, Greco, i ristoranti, da Menghi, da Cesaretto risuonavano delle voci e delle accese discussioni di Cardarelli, Moravia, Patti, Brancati, Flaiano, Maccari, Pannunzio, Napolitano, gli stessi che si ritrovavano poi sulle pagine delle riviste culturali più impegnate, da Il Mondo a Nuovi Argomenti o nella casa a Viale Liegi dei coniugi Bellonci per lo Strega o a via s.Angela Merici a beneficiare dell’inventività di Zavattini. Che differenza  passava allora tra un Alberto Moravia, romano d’origine e un Pratolini trasferitosi nella capitale sin dal ‘41; o tra il napoletano Bernari, l’emiliano Zavattini, il bolognese Pasolini, il greco Savinio, il siciliano Brancati, l’abruzzese Flaiano, il milanese Gadda  e i romanissimi Cardarelli, Campanile, Morante, Bontempelli, Masino?

Ennio Flaiano, fra i più assidui collaboratori di Fellini e quotati sceneggiatori del momento, fu forse il più graffiante e malinconico ritrattista  dei costumi romani. A Roma regalò una commedia, Un marziano a Roma, aforismi, pagine di diario e interventi inimitabili su tutti i giornali; anche Cesare Zavattini, fu soggettista e sceneggiatore di film meravigliosi quali Ladri di BicicletteMiracolo a Milano, Bellissima, Roma ore 11,Umberto D, Il tetto, tutti ambientati a Roma, che rappresentarono il meglio del neorealismo italiano con quel tocco di surreale che solo Zavattini seppe inventare. Ma la Roma che rimane più impressa  tra le tante letture di quegli anni è senz’altro quella che viene fuori dai racconti di Malerba (chi può dimenticare le sviolinate d’amore dall’alto del Gianicolo nel Serpente?) di Moravia, di Pasolini, di Gadda. Quella ladruncola, furbacchiona, vivace e sboccata dei Racconti romani (1954), quella drammatica e popolana de La ciociara (1957) quella sofferta e faticosa ne La Romana, quella grigia e ignava de La noia. Ancora ci sorprende la Roma di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, dove l’aspetto “giallo” del delitto indagato dal maresciallo Ingravallo passa in secondo piano di fronte all’espressionismo inimitabile con cui l’ingegner Gadda ritrae la “sua” Roma del ventennio, tronfia, magmatica, plurilinguistica, grottesca. e amara. Anche nei romanzi di Pasolini, Ragazzi di vita e Una vita violenta, è il linguaggio il vero protagonista: stavolta, però,  il romanesco è la “lingua arcaica e preborghese  contrapposta all’italiano colto dei reazionari”. Ma la voce pasoliniana più suggestiva è quella poetica: a lei il compito di chiudere l’abbozzo di ritratto  fin qui tentato:

E come se Roma o il mondo avesse inizio / in questa vecchia sera, in questi odori millenari, cammino lungo il precipizio / che barbaro il Tevere apre tra dormitori / sordidi, e spagnoleschi quartieri / di terracotta,  piazzali, dagli splendori, / ridotti a qualche barocca e cerea / voluta di chiesa sconsacrata / e ora magazzino, tra vicoli neri / che polvere, luna vecchiezza, empietà / coprono di biancore cartilagine / che fa sonori i selciati alla pedata. (P.P. Pasolini, La religione del mio tempo in Opere, Milano 1961).

* “Roma, punto e a capo” è il titolo del libro curato da S. Cirillo pubblicato nel 2017 da Ponte Sisto, Roma. Il libro è introdotto da S.Cirillo e A. Zuccari e accompagnato da foto di Piergiorgio Pirrone.

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