Ricchi, poveri e rispetto delle norme. Su alcuni rischi trascurati delle disuguaglianze estreme

FraGRa riflettono sul rapporto tra condizioni economiche individuali e rispetto delle norme sociali sostenendo, in primo luogo, che, contrariamente a una diffusa opinione, i poveri non sono tali perché non rispettano le norme sociali e che semmai vale il nesso causale opposto. Gli autori ricordano poi che da una ricca documentazione risulta che i ricchi tendono a non rispettare le norme sociali più e non meno dei poveri e ritengono che maggiore attenzione dovrebbe essere prestata a questi poco visibili costi delle disuguaglianze estreme.

Che relazione hanno i comportamenti sociali con l’essere povero o ricco? Il rispetto delle norme sociali, oltre che di quelle legali, è in qualche modo collegato alla posizione che si occupa nella scala dei redditi e, più in particolare, al fatto di trovarsi molto in basso o molto in alto in quella scala?

Secondo una convinzione abbastanza diffusa e piuttosto antica – che in realtà sembra essere soprattutto un pregiudizio – la povertà è lo stato in cui inevitabilmente finisce chi è privo di valori morali ed è per sua natura portato a violare le norme che governano il funzionamento della società e dell’economia (cfr. M. Ravallion, The Idea of Anti-Poverty Policy, NBER Working Papers 2013). Questa convinzione sta alla base dell’idea che i poveri meritino il proprio stato perché si tratta, sostanzialmente, di soggetti devianti.

Alcuni studi recenti confutano radicalmente questa convinzione e mostrano che, nella relazione fra povertà e deviazione dalle norme, può essere più fondato il nesso causale opposto, ovvero quello secondo cui lo stato di povertà produce effetti che spingono a comportarsi in modo contrastante con le norme sociali e legali. In altri termini, non si sarebbe poveri in quanto soggetti devianti, ma la povertà – in cui si può cadere per una molteplicità di motivazioni diverse da quelle morali – indurrebbe poi i poveri a deviare dalle norme. Ad esempio, l’ultimo Rapporto della Banca Mondiale Mind, Society and Behavior porta l’attenzione su come “lo stress e le tensioni connesse all’essere in stato di povertà rappresentino delle forme di imposta sulle risorse cognitive”, che favoriscono sia negli adulti sia nei minori, lo sviluppo di comportamenti non cooperativi, di devianza dalle norme sociali. Sulla stessa lunghezza d’onda, S. Mullainathan e E. Shafir nel loro ultimo lavoro, Scarcity. The New Science of Having Less and How It Defines Our Lives (2014), sottolineano come vivere in condizioni di scarsità influenzi pesantemente la psicologia dei singoli.

Dunque, la stessa condizione di povertà esercita un effetto sui processi cognitivi, rendendo più costosa, quanto meno in determinati ambiti/momenti, la condivisione di norme sociali che il resto della collettività apprezza. E ciò può contribuire a rendere persistente e ad aggravare lo stato di povertà.

Inferire da quanto si è appena che solo la povertà può essere causa di comportamenti devianti o – quanto meno – che essa determini le forme più gravi di non rispetto delle norme sarebbe avventato. Finora si è prestata pochissima attenzione alla possibilità che anche la ricchezza, soprattutto quella più elevata, sia causa di quei comportamenti. Probabilmente ciò è avvenuto sulla base della convinzione che si diventa ricchi solo se si ha un’elevata dotazione di capitale morale o sociale (l’opposto di quello che spesso si assume rispetto ai poveri) o forse anche perché la ricchezza è vista come una sorta di assicurazione contro il rischio (e la necessità) di comportamenti poco sociali. Alcuni studi recenti sul legame fra ricchezza e rispetto delle norme sociali mostrano che chi nutre queste convinzioni deve affrettarsi a rivederle.

Gli studi a cui ci riferiamo sono diversi (per una breve sintesi, cfr. “How Wealth Plays Into Politics at a Personal Level”, The New York Times, 2/4/2016). Alcuni, basati sull’osservazione di comportamenti effettivamente adottati nella vita quotidiana, mostrano come i guidatori di automobili più costose sono molto più proni a violare il codice della strada di coloro che posseggono automobili meno costose. Il riferimento è alla violazione delle regole sulla precedenza nei confronti sia di altri guidatori sia dei pedoni. Altri studi, di carattere sperimentale, mostrano come i più ricchi, di nuovo se raffrontati ai più poveri, siano, da un lato, meno disposti a considerare gli aspetti equitativi delle scelte e, dall’altro lato, più disposti a mentire nelle contrattazioni e a ingannare per aumentare le chances di vincere un premio (per una presentazione di questi studi, cfr. P. Piff et al., Higher social class predicts increased unethical behavior, 2012). Nella stessa direzione, va un altro lavoro di Piff et al. (Having Less, Giving More: The Influence of Social Class on Prosocial Behavior) secondo cui i comportamenti pro-sociali sarebbero maggiormente diffusi tra i più poveri, sebbene questi ultimi abbiano meno risorse e un minore controllo sulle dimensioni economiche della propria vita. I più poveri, infatti, sarebbero più generosi, più disposti a dare ad attività filantropiche (negli esperimenti su cui sono basati questi studi si prescinde dai sussidi fiscali che oggi, negli Stati Uniti, sostengono la filantropia, e ci si basa, invece, su piccole somme che non danno potere a chi le eroga) e, complessivamente, ad aiutare gli altri.

Altri dati interessanti concernono la capacità di empatia, che sta alla base anche del dare agli altri. Uno studio, condotto attraverso la somministrazione d’interviste, ha cercato di stimare, appunto, la capacità di empatia; esso dimostra come i più poveri siano più sensibili alle emozioni dei propri partner di quanto lo siano i ricchi (M. Kraus et al., Social Class, Contextualism, and Empathic Accuracy, 2010). Un altro studio ancora (J. Stellar et al., Class and Compassion: Socioeconomic Factors Predict Responses to Suffering, 2012,), basato sull’esposizione ad un video che mostra sofferenza e dolore, mette in evidenza come i più ricchi restino sostanzialmente indifferenti, mentre i più poveri siano emotivamente coinvolti. I poveri, infatti, presentano una riduzione del battito cardiaco, mentre i ricchi non mostrano alcuna variazione (la riduzione del battito segnalerebbe la presenza di sentimenti empatici).

Anche se può apparire paradossale, l’idea secondo cui la ricchezza può generare comportamenti difformi dalle norme sociali è entrata nelle aule dei tribunali ed è servita a alleggerire le responsabilità individuali, come dimostra questa storia, realmente accaduta in una città del Texas. Un giovane e molto ricco minorenne ruba una cassa di birra, si ubriaca, si mette alla guida del suo pick up, perde il controllo e uccide quattro persone e ne ferisce altre nove. La Corte, accogliendo la tesi dello psicologo della difesa, lo scagiona, nonostante la pubblica accusa avesse chiesto venti anni di reclusione. La motivazione è che i ricchi sarebbero esposti ad una particolare malattia, chiamata affluenza, che comporta l’allentamento dei freni inibitori. O ancora, si pensi al recente caso di Firenze, dove il Tribunale ha assolto dall’accusa di detenzione a fini di spaccio una persona molto benestante trovata in possesso di una quantità smisurata di cocaina in quanto la sua condizione economica rendeva improbabile che tale quantità fosse stata acquistata a fini di spaccio anziché per un eccessivo consumo personale.

Sembra quindi che la condizione “oggettiva” della ricchezza possa giustificare comportamenti diversi da quelli coerenti con norme considerate giuste o, perfino, farli apparire non in contrasto con esse. La ricchezza sembra quindi in grado di far svanire la responsabilità individuale. E questo non è certo un esito auspicabile. Pur con tutte le difficoltà di tracciare il confine fra influenza del contesto e responsabilità – come illustrato dalla riflessione filosofica di più di due millenni –, in questi casi, come in molti altri, la responsabilità individuale (nei termini forti di accountability) sembra del tutto evidente.

Se i comportamenti sono in contrasto con le norme e se, come ci pare plausibile, riteniamo che essi, quanto meno in parte, siano frutto della responsabilità individuale, allora, non si capisce perché le deviazioni di alcuni debbano essere trattate più favorevolmente di quelle di altri. Ma anche se ritenessimo prevalente l’influenza delle condizioni di ricchezza in cui si vive, nulla obbliga ad accettarne supinamente le conseguenze. Al contrario, anche a parità di condizioni, esistono modi per contrastare l’influenza, intervenendo sulla formazione delle preferenze. Ad esempio, come abbiamo sostenuto di recente sul Menabò, uno dei compiti principali dell’istruzione pubblica, a tutti i livelli, è quello di formare un ethos democratico, che porti, qualsiasi sia la condizione di partenza, a trattare gli altri come uguali a noi e, come tali, ugualmente, degni di considerazione e rispetto.

Infine, anche se ritenessimo comunque limitato il contributo dell’istruzione – tra le possibilità dei ricchi c’è quella di sottrarsi all’istruzione pubblica – esiste sempre una via ulteriore, quella di intervenire direttamente sul contesto, contrastando le disuguaglianze estreme. Ci troveremmo, così, di fronte ad una ragione ulteriore a favore della riduzione delle disuguaglianze. Non si tratta di una considerazione particolarmente nuova. Infatti, già 180 anni fa, in Democrazia in America, Tocqueville sottolineava come una società dove le disuguaglianze economiche sono più contenute è anche una società dove l’ethos democratico ha più possibilità di svilupparsi. Anche per le ragioni che abbiamo esposto in queste note, si tratta di una considerazione che meriterebbe molta più attenzione di quella che oggi riceve.

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