Ragionando sul merito della legge di revisione costituzionale

Ugo Trivellato si occupa del referendum costituzionale e, dopo aver affermato che su diversi temi circoscritti la riforma è condivisibile, sostiene che rispetto alle innovazioni salienti (superamento del bicameralismo paritario; nuovi rapporti fra Stato e Regioni) la riforma presenta diffuse ambiguità e incongruenze. Inoltre. Trivellato dubita che l’assetto istituzionale risultante possa intaccare i capisaldi della Costituzione e conclude richiamando il “velo d’ignoranza” come condizione per deliberare norme fondamentali della convivenza.

Due premesse. La prima: sono uno statistico, non un giurista. Rispetto alla legge di revisione costituzionale la competenza professionale mi è dunque di modesto aiuto: direttamente, sulla riduzione dei costi di funzionamento delle istituzioni; indirettamente, per l’attitudine ad affrontare le questioni con ottica sistematica e attenzione ai fatti. Per il resto, sono un cittadino informato. La seconda premessa: se qualcuno dei lettori ritenesse che nella scelta fra il Sì e il No al referendum si debba tenere conto del contesto politico, perderebbe il suo tempo andando oltre queste righe.

Penso, infatti, che la scelta debba essere guidata dalla valutazione sul merito della riforma. Come ha scritto Nadia Urbinati: “Mai come ora è importante che i cittadini non si facciano derubare della loro funzione primaria, poiché – nonostante i leader politici cerchino di farne un plebiscito pro o contro [il governo] – questo è un referendum costituzionale, una decisione sovrana sull’ordine istituzionale che vogliamo”. La Costituzione – l’attuale o quella riformata – resterà. E suonano sorprendenti affermazioni del tipo “La riforma è imperfetta, ma l’importante è incominciare a cambiare; poi la si migliorerà”. La capacità di apprendere dall’esperienza è essenziale per migliorare le politiche pubbliche. Ma invocarla per sostenere una revisione della Costituzione, della quale si riconoscono imperfezioni, è segno di spensierata sconsideratezza.

Dico subito che su vari temi circoscritti la riforma è condivisibile. Sull’abolizione del CNEL. Sulla promozione della parità di genere nella rappresentanza. Sulla limitazione del ricorso ai decreti-legge. Sulla corsia preferenziale riservata ai disegni di legge del Governo. E via dicendo. Non indugio su di essi, se non per notare che alcuni sono stati inutilmente enfatizzati (sulla parità di genere serve aggiungere qualcosa all’art. 3 della Costituzione?) e diversi altri si sarebbero potuti affrontare con strumenti più semplici.

I costi di funzionamento delle istituzioni. Il tema della riduzione dei costi di funzionamento delle istituzioni non ha grande rilievo. Ha però assunto una visibilità abnorme, e distorta, per due ragioni: la ridda delle prime stime, prive di evidenze empiriche, dai 57,7 milioni di una stringata nota della Ragioneria Generale dello Stato ai 490 milioni della ministra Boschi; la successiva, becera deriva sui costi della politica che ha imperversato sui media, con toni a volte aberranti. Grazie alla documentata analisi di Roberto Perotti, oggi è chiaro che il risparmio massimo per i contribuenti è di 130 milioni a regime.

Vengo alle innovazioni cruciali: superamento del bicameralismo paritario e composizione e funzioni del nuovo Senato; definizione di nuovi rapporti fra Stato e Regioni.

Il superamento del bicameralismo paritario e il nuovo Senato. La motivazione per abbandonare il bicameralismo paritario è l’eccessiva lunghezza del procedimento legislativo, per l’andirivieni delle proposte di legge fra Camera e Senato. Nel dibattito referendario l’attenzione si è polarizzata sul fatto che il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Che la doppia fiducia al Governo sia ripetitiva, forse di intralcio, è vero. Ha dunque senso riflettere su puntuali modifiche al riguardo, a partire dai regolamenti parlamentari.

Ma il conferimento della fiducia non è un atto abituale. Il compito primario e continuativo del Parlamento è altro: legiferare, possibilmente bene. Se si mette mano al bicameralismo paritario, serve innanzitutto identificare le cause della sua inefficienza. Ora, non è vero che il bicameralismo sia il principale responsabile di un procedimento legislativo farraginoso (vedi il recente contributo di Maurizio Franzini). È la diagnosi a essere sbagliata: si approvano troppe leggi, fatte spesso in fretta e ancora più spesso male. E i ritardi, quando ci sono, sono dovuti essenzialmente a fattori politici.

Ma entriamo nel merito della riforma. Il nuovo Senato «rappresenta le istituzioni territoriali […]. È composto da 95 senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da 5 senatori […] nominati dal Presidente della Repubblica». Qual è la coerenza fra la missione affidata al Senato – rappresentare le istituzioni territoriali – e la sua composizione?

Trascuro alcune bizzarrie: 5 cittadini illustri nominati in un’assemblea di rappresentanza delle istituzioni territoriali; 21 sindaci senatori, quando il loro mandato è altro. Resto alla sostanza. L’idea di un “Senato delle Regioni” era buona; la sua traduzione operativa è, però, incongrua. Infatti, «i Consigli regionali […] eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti, e nella misura di uno ciascuno fra i sindaci dei Comuni» della regione. Si dà quindi luogo a rappresentanze politico-partitiche, non delle istituzioni regionali.

Sulle modalità di elezione dei senatori la legge stabilisce che i senatori, eletti dai consigli regionali «con metodo proporzionale», lo devono essere – eletti – «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Come ciò possa avvenire, è oscuro. Se prevarrà il Sì, sarà curioso vedere come la legge elettorale per il Senato verrà scritta. Perché, per quanto capisco, delle due l’una: o il vincolo della «conformità [alle] scelte espresse dagli elettori» non significa alcunché oppure sarà serio il rischio di violare la libertà di voto dei consiglieri regionali.

L’esame delle funzioni attribuite al Senato accresce i motivi di perplessità. In sintesi:

  • Si definiscono 6 procedimenti legislativi, ai quali il Senato concorre in modo diverso. Ciò è fonte di incertezze e di potenziali conflitti. Ed infatti Il legislatore stabilisce che «i presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». E se non c’è l’intesa? Ma anche se ci fosse, sarebbe alto il rischio di un giudizio di illegittimità costituzionale per vizi procedurali.
  • Quanto al merito, le competenze affidate al Senato sono numerose, fino alla «autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea», ma nel complesso deboli. In particolare, esso ha poca voce sulla finanza pubblica, di importanza primaria per le Regioni. Sulla legge di bilancio, che decide della ripartizione delle risorse fra Stato, Regioni e amministrazioni locali, il ruolo del Senato è fievole: «esamina [il pertinente disegno di legge approvato dalla Camera e] può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione».
  • Infine, il Senato è a forte rischio di inefficienza, per il doppio incarico di senatore e consigliere regionale/sindaco – e con senatori da rileggere ogni volta che cade una giunta regionale o un sindaco –.

La definizione dei nuovi rapporti fra Stato e Regioni. La revisione del 2001, che fu la prima modifica della Costituzione adottata con referendum, muoveva da un’ispirazione regionalista, condivisibile. Era però guidata anche dalla preoccupazione di togliere consenso alla Lega. Viziata da tale “calcolo, introdusse irragionevoli competenze concorrenti di Stato e Regioni su materie – energia, infrastrutture strategiche, grandi reti di trasporto – che in parte esorbitano dalla stessa scala nazionale. Ha così indotto un diffuso contenzioso fra Regioni e Stato e intralciato processi decisionali. L’odierna riforma si proponeva di ovviare a queste incongruenze. Purtroppo, lo ha fatto con lo stesso metodo di 15 anni fa, segnato dal “calcolo o spirito di maggioranza”.

Quanto al merito, essa rovescia l’impianto costituzionale del 2001: dalla competenza generale delle Regioni, salve materie riservate allo Stato – in chiave esclusiva o concorrente –, all’eliminazione delle materie di legislazione concorrente e alla definizione di due elenchi di materie: di «legislazione esclusiva [dello] Stato» e di «potestà legislativa [delle] Regioni».

È un bene o un male? L’interrogativo è troppo ampio. Conviene articolarlo. Una prima domanda: la riforma ridurrà drasticamente il contenzioso fra Stato e Regioni? V’è da dubitarne. La riforma soffre infatti di sconcertanti ambiguità, che verosimilmente genereranno incertezze e conflitti. Due ne sono le ragioni.

  • Fra le competenze assegnate allo Stato e alle Regioni vi sono sovrapposizioni. Un esempio: lo Stato ha competenza su «valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici», le Regioni su «promozione dei beni culturali e paesaggistici». Che differenza c’è fra valorizzazione e promozione? Per quanto capisco, nessuna. A meno che per promozione non si intenda pubblicità…
  • Buona parte delle competenze esclusive dello Stato riguarda «disposizioni generali e comuni su» materie quali istruzione, salute, governo del territorio, ecc.. Chi è competente per quanto non attiene a disposizioni generali e comuni? Anche qui un solo esempio: è dello Stato la competenza esclusiva per “disposizioni generali e comuni su tutela della salute, politiche sociali e sicurezza alimentare»; è delle Regioni la potestà legislativa su «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali». È immediato notare che queste due competenze non coprono l’intera materia della salute e delle politiche sociali. Le aree scoperte, qui e nelle altre materie, sono il terreno sul quale nasceranno conflitti di competenza. Quel che la riforma ha cacciato dalla porta – i conflitti di competenza – rientra dunque dalla finestra. In uno Stato “regionalista” vi sono materie per le quali, inevitabilmente, la competenza è concorrente; serve riconoscerlo e predisporre sedi e regole per esercitarla in modo coordinato.

Una seconda domanda riguarda il giudizio sulla marcata torsione della riforma in senso centralista. Un presupposto può essere che lo Stato è più efficiente e meno corruttibile delle Regioni. Ma in questa materia la competizione fra le due amministrazioni è, sfortunatamente, vivace; e che lo Stato sia il sicuro perdente è da escludere. Possono tuttavia entrare in gioco preferenze diverse. Di fronte alle profonde trasformazioni che scuotono l’intera umanità, la valorizzazione dello Stato-nazione pare a me miope: dettata da paura più che da lungimiranza. D’altre parte, l’impegno per realizzare istituzioni democratiche sovranazionali – per noi l’Europa – non può non essere accompagnato da un rafforzamento di forme di autogoverno regionali. Con uno slogan, la prospettiva è “l’Europa delle (macro-)regioni”. In quest’ottica, mortificarne il ruolo non è un passo nella giusta direzione.

Infine, merita riflettere sulle disparità fra regioni che la riforma determina. La nuova disciplina non vale, infatti, per le Regioni a statuto speciale. Ora, per l’Alto Adige c’è il vincolo di accordi internazionali, che giustifica il rinvio alla revisione dello statuto. Ma per le altre Regioni a statuto speciale è problematico trovare giustificazioni a questa scelta, che accresce vistosamente le loro competenze e risorse, rispetto a quelle a statuto ordinario.

Su possibili conseguenze della riforma della Costituzionale nel quadro del nostro ordinamento. La distinzione e limitazione dei poteri, la terzietà degli organi di garanzia e un accorto sistema di controlli e contrappesi sono capisaldi della Costituzione che la riforma tocca in misura circoscritta. Le modifiche riguardano l’elezione del Presidente della Repubblica, «dal settimo scrutinio [con] la maggioranza dei tre quinti dei votanti», e i 5 membri della Corte Costituzionale, «tre nominati dalla Camera e due dal Senato». Di queste modifiche, per quanto so, non sono state date motivazioni nitide. Sintomo, questo, di non rassicurante superficialità nell’intervenire su snodi delicati dell’assetto istituzionale.

Non è quindi improprio chiedersi quali ricadute potrà avere la riforma sull’ordinamento esistente, del quale è parte la legge elettorale per la Camera. Tra le due leggi non c’è alcun nesso di natura giuridica. Ma vi sono altri nessi, non trascurabili: nell’ispirazione che permea le due leggi –volute con determinazione dal Governo – e, ancor più, negli esiti che congiuntamente possono determinare. In sostanza, l’“Italicum” porta all’elezione diretta del premier. Alla quale è associata la maggioranza assoluta della Camera, indipendentemente dal livello di consenso al primo turno. In definitiva, il «capo del partito» (?!) e la maggioranza controllano sia l’esecutivo sia il potere legislativo – ripeto, per legge e non per ampiezza del consenso –. E v’è qualche rischio che l’elezione degli organi di garanzia ricada anch’essa nella sfera dominante del Governo, tramite il controllo della maggioranza.

Per le norme basilari della convivenza, per i patti costituzionali, vale la regola aurea formulata da John Rawls: debbono essere dettate “sotto un velo d’ignoranza”. Sarebbe bene che i nostri legislatori vi prestassero maggiore attenzione.

Schede e storico autori