Quando il gioco non vale lo scontrino

Civil servant esamina l’idea, riproposta di recente in ambito governativo, di lanciare una lotteria abbinata all’emissione degli scontrini fiscali per combattere l’evasione. Civil servant sostiene che, malgrado le apparenze, non si tratta di una buona idea. Infatti, a seconda di come si organizza la lotteria, può essere incoraggiata l’emissione di scontrini di importo molto inferiore al valore delle transazioni effettive oppure occorre prevedere premi di importo simile a quello dei tributi che si riuscirebbe a recuperare.

Per scoraggiare l’evasione tributaria, il DDL bilancio ha rispolverato la proposta di una lotteria abbinata agli scontrini fiscali. Si tratta di una misura apparentemente suggestiva, già sperimenta in paesi come la Cina, il Portogallo, la Romania e l’Albania, ma che può rivelarsi addirittura controproducente. In alcuni paesi è previsto un premio in denaro, corrisposto direttamente dal commerciante; in altri il premio consiste in titoli di stato; in Slovacchia i fortunati partecipano addirittura ad un programma televisivo a premi. Solo dove l’evasione era quasi totale, come in Cina, la lotteria fiscale ha dato qualche risultato. Per l’Italia, le stime del governo, basate sull’esperienza portoghese, parlano di incassi aggiuntivi netti inferiori agli 80 milioni di euro l’anno: una goccia nel mare dell’evasione. Per di più, si tratta di valori così aleatori che il Tesoro si è guardato bene dall’iscriverli in bilancio.

In effetti, qualsiasi allibratore clandestino di qualsiasi ippodromo e perfino parecchi studenti del primo anno di statistica o economia smonterebbero questa proposta in pochi minuti. Supponiamo, infatti, che venditori e clienti non siano del tutto stupidi e non siano affetti da ludopatia. E’ abbastanza evidente che un acquirente normale, con una normale propensione a tollerare l’evasione, chiederà uno scontrino fiscale invece di uno sconto solo se il premio (incerto) atteso dalla lotteria sarà superiore alla riduzione di prezzo (certa) che può ottenere. D’altra parte un venditore altrettanto normale, con una normale inclinazione ad evadere le tasse, si convincerà a mettere mano al misuratore fiscale solo se il premio che gli spetterebbe supera l’indebito guadagno derivante da una transazione in nero.

Possiamo immaginare almeno due tipi di lotterie: il primo è del tutto simile ad un gratta e vinci, con un premio fisso ad ogni estrazione, indipendente dall’ammontare dello scontrino; il secondo metodo prevede un premio proporzionale all’ammontare della transazione. Scartiamo subito la prima forma di lotteria, perché è evidente che essa condurrebbe soltanto ad una proliferazione di scontrini di importo trascurabile, che garantirebbero comunque la partecipazione alla riffa fiscale. Con questo banale stratagemma, sia il venditore che il compratore sarebbero soddisfatti, mentre il fisco finirebbe per rimetterci, come non potrebbe accadere nemmeno al più sprovveduto dei biscazzieri. Come se non bastasse, il fisco si accanirebbe sulle transazioni da pochi euro, tipiche dei clienti e dei venditori meno abbienti, mentre finirebbe per favorire l’evasione sulle grandi transazioni, appannaggio dei VIP.

Una lotteria fiscale meno naïve dovrebbe dunque prevedere necessariamente un premio proporzionale all’importo degli scontrini estratti. Non conta molto se la posta in palio sia divisa più o meno equamente tra venditore e compratore. Quel che conta è il vantaggio cumulativo che entrambi sperano di ottenere da ciascun euro in più indicato nello scontrino. Se questo euro può fruttare al massimo una somma inferiore alla aliquota fiscale complessiva, allora ad entrambe le controparti conviene accordarsi per uno sconto di importo appena inferiore al “risparmio” fiscale. Anche ipotizzando che lo “sconto” sia pari solo all’aliquota IVA, come già accade in molte transazioni irregolari, la lotteria fiscale dovrebbe dunque prevedere, in media, un premio di circa un euro ogni sei euro di spesa certificata. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto rimborsando all’incirca uno scontrino ogni sei, oppure una qualsiasi combinazione tra premio unitario e probabilità di estrazione tale che il valore atteso della vincita sia pari a 18 centesimi per ogni euro pagato regolarmente (p.es.: un premio 1.000 euro ogni 5.556 euro di scontrini emessi). Anche contando sulla forte propensione al gioco di molti individui, sarebbe difficile prevedere meno di una vincita ogni 100-200 scontrini. Il costo di gestione di un simile meccanismo sarebbe esorbitante.

Per limitare questi costi ed evitare contestazioni, il DDL bilancio prevede che tutti gli scontrini riportino il codice fiscale del compratore, come quelli delle farmacie, ma questo scambio di dati ad ogni transazione dilaterebbe i tempi necessari per qualsiasi acquisto. Inoltre il DDL limita la partecipazione alla riffa solo agli esercizi collegati telematicamente al fisco. Questo requisito finirebbe per favorire i grandi centri commerciali, la cui compliance fiscale è già elevata, mentre taglierebbe fuori gran parte di quelle piccole imprese che sono il cuore dell’evasione italiana. Naturalmente, in un paese in cui non si riesce a garantire il collegamento regolare di circa mezzo milione di slot machine, concentrate in meno di 150.000 locali, sarebbe difficile verificare le connessioni di oltre un milione di piccoli esercizi, laboratori e studi professionali. Insomma la lotteria fiscale si rivelerebbe un inferno per il fisco e per i contribuenti onesti ed un paradiso per i furbi.

A ben vedere, lo scontrino gratta e vinci non è altro che una versione da casinò della ricorrente proposta di rendere detraibili le spese documentate anche per i consumatori, oltre che per le imprese. In questo caso la vittoria per l’acquirente è certa, mentre il vantaggio per il fisco consiste nella speranza che i venditori dichiarino maggiori guadagni netti da tassare. La prova che neanche questo sistema funziona troppo bene è sotto gli occhi di tutti: infatti i maggiori evasori sono proprio le imprese, i professionisti e gli artigiani che possono già scaricare le fatture pagate ai propri fornitori. In realtà, c’è quasi sempre una coincidenza di interessi tra le parti di una compravendita a danno del fisco: chi vende preferisce nascondere gli incassi, mentre chi compra vuole spesso sfuggire agli studi di settore, basati proprio su indicatori del tenore di vita, e talvolta anche alle attenzioni della criminalità, che sembra stimare la capacità di “contribuzione” delle proprie vittime in modo molto più accurato del fisco.

Invece di sprecare la propria creatività su misure così bizzarre, la lotta all’evasione potrebbe essere condotta con mezzi molto meno fantasiosi, come la riduzione delle commissioni pagate dai commercianti onesti sulle transazioni elettroniche, che funzionano come una lotteria al contrario, in cui chi fattura regolarmente paga anche un pegno. Risulterebbe un provvedimento utile perfino esentare i commercianti dall’emettere un doppio scontrino ogni volta che si accetta una carta di credito: farebbe risparmiare tempo, l’uso della carta chimica per gli scontrini (molto inquinante) e la produzione di rifiuti. Oppure si potrebbe pensare ad un meccanismo di retrocessione agli acquirenti di una frazione delle somme pagate mediante carte di credito, come fa già il gestore di una nota carta di credito. Per incentivare i pagamenti tracciabili non sarebbe neanche necessario procedere ad un premio monetario, che peserebbe immediatamente sulle casse dello stato, ma basterebbe accreditare eventuali bonus sul conto previdenziale dei contraenti o trasformarli in crediti d’imposta, facili da gestire e da controllare. Ma forse riforme così modeste e a basso costo non sono abbastanza sexy per essere sbandierate in campagna elettorale.

Schede e storico autori