Pro e contro Piketty: breve ricostruzione di un acceso dibattito

Nel primo degli articoli che questo Menabò dedica al libro di Piketty, Lepri ricorda che di disuguaglianze crescenti nel mondo si parlava da tempo e che Il capitale nel XXI secolo proietta nel futuro il timore che esse si allarghino ancora. Il dibattito planetario che ha suscitato anche tra i grandi nomi dell’economia è dovuto a questo. Lepri ricostruisce questo dibattito e sostiene che più degli attacchi degli avversari valgono alcune obiezioni ragionevoli alla sua tesi di fondo. Soprattutto, l’analisi delle tendenze storiche andrebbe confrontata con la realtà dei fattori che hanno condotto alla crisi attuale e che rendono difficile uscirne.

Era ora che si ricominciasse a discutere di economia in grande. Il dibattito che si è acceso sul libro di Thomas Piketty ha arricchito i ragionamenti di tutti, nonostante l’ottusità di molte delle reazioni avverse. Solo dopo essere scoppiata negli Stati Uniti la controversia è dilagata nel mondo, e anche in Italia. Eppure in Francia Il capitale nel XXI secolo, uscito a settembre 2013, aveva venduto in pochi mesi centomila copie, risultato strabiliante per un tomo di mille pagine pieno di grafici.

Sarà che ormai pochi leggono il francese. Di fatto oltre Atlantico, dove la traduzione è apparsa nel marzo 2014, le disuguaglianze, di reddito e di patrimonio, restano in più visibile crescita. Magari non si tratta di solo un 1% contro il 99%; ma anche se si tratta del 7% contro il 93%, come risulta da studi più seri, non va bene lo stesso.

Discende appunto dalla battaglia delle idee già in corso negli Usa la principale linea di attacco usata da destra contro Piketty: non sono esatti i suoi dati. Strano: era molto più stimolante esaminare se sia fondata la sua tesi principale, che le disuguaglianze continueranno ad allargarsi nel tempo. Questo però non l’hanno saputo fare gli avversari. Le obiezioni più valide sono venute da chi non aveva preconcetti.

Già prima dello studio di Piketty, erano giunte anche da noi analisi come quelle di Branko Milanović (Chi ha e chi non ha, Il Mulino 2012) o François Bourguignon (La globalizzazione della disuguaglianza, Codice 2013). Da due economisti del Fondo monetario internazionale, Michael Kumhof e Romain Rancière, era venuto il contributo più originale – Piketty lo cita – sul nesso tra sperequazione dei patrimoni e instabilità finanziaria (Leveraging Inequality, in «Finance & Development» dicembre 2010).

I dati di Piketty sono, però, più completi ed ampi di quelli finora pubblicati; un allegato tecnico con fonti e metodi è disponibile su internet. Eppure no: secondo alcuni, andava demolito. L’accusa principale di scarsa attendibilità, quella di Chris Giles, è stata pubblicata con rilievo il 24 maggio 2014 dal «Financial Times» (dove, poco prima, il capo commentatore Martin Wolf aveva recensito il libro con entusiasmo).

A consuntivo della contesa, l’apparato statistico in gran parte resiste alle critiche. «The Economist», pure più marcatamente liberista del «Financial Times», ha assegnato a Piketty una vittoria ai punti. Il solo caso in cui i nuovi dati di Giles non mostravano una crescita delle disuguaglianze nel tempo era la Gran Bretagna, e proprio lì risultavano meno accurati.

Da tenere in conto, invece, l’obiezione senza arrière-pensées di quattro economisti francesi, Odran Bonnet, Pierre-Henri Bono, Guillaume Capelle, Étienne Wasmer: escludendo gli immobili, il rapporto tra capitale e redditi non è affatto tornato agli alti livelli del XIX secolo. Nei loro calcoli risulta una forte salita dei prezzi delle case; mentre il rendimento effettivo del capitale immobiliare, ossia gli affitti, non è cresciuto come quota dei redditi nazionali.

Il premio Nobel Joseph Stiglitz non se ne meraviglia; ribatte che proprio il grande aumento del valore dei beni immobili spiega perché gli utili del capitale produttivo vero e proprio non siano calati. E’ una prima risposta a chi contro Il capitale nel XXI secolo ha invocato la legge dei rendimenti decrescenti.

Lo stesso Piketty non si lascia imprigionare nella formula retorica del ritorno all’Ottocento. Ad esempio il caso italiano gli pare estremo nel suo intreccio tutto da Novecento: circa un quarto della robusta crescita dei patrimoni privati dal 1970 al 2010 gli appare «fittizio» perché controparte dell’aumento del debito pubblico.

Ovverosia (pag. 282 della traduzione italiana): «Invece di pagare le tasse per rimettere in sesto i bilanci pubblici, gli italiani – o perlomeno quelli tra loro che ne avevano i mezzi – hanno prestato denaro allo Stato acquistando Buoni del Tesoro o attivi pubblici, cosa che gli ha permesso di accrescere il loro patrimonio privato senza per questo accrescere il patrimonio nazionale».

Complice il quasi temerario titolo che si è scelto, era inevitabile che Piketty suscitasse veementi passioni: che venisse applaudito oppure denigrato come il nuovo Marx. Diverte quanto pochissimi si siano accorti – una eccezione il politologo John Judis su «New Republic» – che la sua tesi è l’opposto della «caduta tendenziale del saggio di profitto» cara a Karl Marx (e da lui dovuta al ricardiano di sinistra Thomas Hodgskin).

Piketty lo sa, tanto che impiega quattro pagine (349-353) a spiegare perché se ne distanzia. Inutile. «Tenta di riportare in vita Marx» è stato il titolo di una recensione apparsa sul «Wall Street Journal», (21 aprile 2014) che concludeva dandogli del comunista e invitandolo a leggere – chi ci avrebbe mai pensato! – La fattoria degli animali e Buio a mezzogiorno. E pensare che a sinistra c’è chi, come James Galbraith, su «Dissent», vede in lui «soltanto un democratico di tipo rooseveltiano».

Una affinità di fondo con l’autore dell’originario Capitale non si può negare. Li accomuna l’ambizione a delineare un grande disegno della storia; e anche qualcos’altro. Quando Piketty scrive di aver individuato «una fondamentale contraddizione logica del capitalismo» tradisce un residuo hegeliano quanto al rapporto tra ragione e realtà; un epistemologo contemporaneo suggerirebbe che lì va cercato il punto debole.

Tra pro e contro internet ha permesso un dibattito intellettuale su scala planetaria a cui hanno partecipato nomi autorevolissimi. Piketty da subito aveva ricevuto il sostegno di due premi Nobel, Robert Solow e Paul Krugman. Nella varietà delle opinioni, si consolida l’idea che la disuguaglianza sia un problema strutturale, e non accessorio, dell’economia di mercato. Di «uno scoop strepitoso caduto nel momento giusto» ha parlato Michele Salvati.

Le critiche da considerare con più attenzione sono quelle rivolte contro la tesi centrale: ossia che in condizioni normali (chiusa una ampia parentesi che ha abbracciato parte del XX secolo) il tasso di rendimento del capitale (r) è superiore al tasso di crescita reale (g), fatto che produce una sempre crescente concentrazione della ricchezza.

Le obiezioni principali alla formula r>g (sulla quale si sofferma anche Franzini nel suo contributo a questo numero del Menabò) si possono suddividere in tre categorie: i) è valida ma è errato dedurne un costante accrescimento delle diseguaglianze; ii) non può restare valida a lungo, salvo condizioni eccezionali; iii) raffigura solo una parte della realtà.

Il primo tipo di obiezione l’ha riassunto in parole semplici il giurista Eric Posner (figlio del più noto Richard della scuola di Chicago): una «esplosiva dinamica della disuguaglianza» si può realizzare solo in condizioni estreme, ovvero «se ogni persona ricca: a) sposa una persona altrettanto ricca o lascia tutta l’eredità a un solo discendente; b) spende pochissimo; c) evade le tasse; d) non finanzia i politici e non dà nulla in beneficenza; e) fa investimenti ottimali evitando di farsi truffare da Madoff vari».

A sostenere che l’ineguaglianza cresce solo se il rendimento del capitale è reinvestito per intero si sono fatti avanti in molti, tra cui Greg Mankiw. Più sofisticata la variante di Debraj Ray: la formula di Piketty è inesatta perché compara una quantità (il livello del rendimento del capitale) con la crescita di una quantità (l’aumento del reddito medio). Hans-Werner Sinn è a cavallo tra questa obiezione e la successiva, perché ritiene che nel lunghissimo periodo r e g tendano ad eguagliarsi.

Il secondo tipo di critiche riguarda appunto le condizioni di validità della formula r>g. Da fronti differenti sia Larry Summers sia Tyler Cowen ritengono che occorra una elevata, o elevatissima, elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro. Per Krugman basta che sia poco superiore a 1. Kemal Derviş ritiene possibile che il progresso tecnologico continui a mantenerla alta, benché nello stesso tempo contesti le obiezioni del primo tipo.

Più pragmaticamente Kenneth Rogoff si richiama al dibattito in corso da anni su perché la ripartizione del reddito si sia modificata a favore del capitale: se la causa principale è il massiccio afflusso sui mercati di forza lavoro dai paesi emergenti, si arriverà prima o poi a un riequilibrio; se invece è la «marcia inesorabile dell’automazione», la pressione al ribasso sui salari continuerà. Daron Acemoglu e James Robinson intrecciano obiezioni del primo e del secondo tipo; suppongono che una economia dove la quota dei redditi da capitale è molto alta diventi inefficiente, cosicché il rendimento reale tenderà a scendere sotto il tasso di crescita.

Il terzo tipo di obiezioni si cala dalla teoria nel presente: dove, come nota l’ex governatore della Banca d’Inghilterra Mervyn King, «i mercati si preoccupano perché il tasso di interesse corretto per il rischio è inferiore al tasso di crescita, non perché il tasso di rendimento sia superiore». Allargando lo sguardo Diane Coyle – pur assai indignata contro l’ineguaglianza – pone una domanda semplice e cruciale: come la mettiamo con i tassi di interesse reali in calo da trent’anni? Brad DeLong tenta una risposta: concilia il timore corrente di una trappola deflazionistica con la dinamica individuata da Piketty ipotizzando colossali imperfezioni del sistema finanziario.

Ricardo Hausmann invita a misurare quanto frutti la maggiore concentrazione di capitale al mondo, le riserve valutarie cinesi: quasi nulla, a fronte di un debito su cui gli Stati Uniti hanno un costo reale inferiore a zero. Analogamente Milanović ipotizza che un unico rendimento globale del capitale possa risultare a lungo più elevato del tasso di crescita nei paesi avanzati, e più basso nei paesi emergenti.

Alla fine, i neo-liberisti come Mankiw o Allan Meltzer restano convinti che discettare di tutto questo serva a poco, perché l’ineguaglianza non fa danno. Ma qui basta appoggiarsi al Fmi: uno studio del febbraio 2014, Redistribution, Inequality and Growth, riscontra che quando è eccessiva rallenta la crescita. E se la bassa crescita dei paesi avanzati fosse già una conseguenza? Piketty potrebbe essere una nottola di Minerva.

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