Povertà e disuguaglianze in un recente Rapporto della Banca Mondiale

Marco Valerio Del Buono e Stefano Filauro presentano il Rapporto della Banca Mondiale "Poverty e Shared Prosperity. Taking on Inequality" il cui scopo principale è fare il punto sulle tendenze della povertà e della disuguaglianza a livello globale e all’interno dei vari paesi. I due autori illustrano i principali dati contenuti nel Rapporto e si soffermano su alcuni aspetti problematici relativi alla loro costruzione e interpretazione. Inoltre, danno conto delle misure di policy raccomandate dalla Banca Mondiale.

La Banca Mondiale (BM) ha da poco avviato la pubblicazione di un report annuale dal titolo “Poverty and Shared Prosperity” con lo scopo di monitorare il progresso compiuto dai vari paesi nel raggiungimento degli obiettivi in materia di povertà globale e prosperità diffusa che la stessa BM si era data nel 2013 .

In particolare, il primo obiettivo è la riduzione del rapporto tra il numero di persone in povertà estrema e il totale della popolazione mondiale (Headcount Ratio– HR) al 3% a livello globale entro il 2030. La Prosperità diffusa – Shared Prosperity (SP) – si riferisce ai singoli paesi ed è data dal rapporto tra la crescita del reddito del 40% più povero della popolazione e quella del reddito complessivo. Naturalmente la Prosperità sarà più diffusa se tale rapporto cresce.

Il report di quest’anno, dal titolo “Taking on inequality”, non si limita solo ad analizzare gli obiettivi menzionati ma analizza anche lo stato della disuguaglianza a livello globale. I dati, provenienti da survey sul benessere delle famiglie, si riferiscono al reddito per i Paesi avanzati e per l’America Latina e al consumo per la maggioranza dei paesi in via di sviluppo. Ciò crea, naturalmente, problemi di comparabilità tra i Paesi. I risultati che emergono sembrano indicare una confortante riduzione della povertà globale ma appaiono disomogenei e ambigui per quanto riguarda la diffusione della prosperità e le disuguaglianze all’interno dei paesi.

L’analisi empirica dell’evoluzione della povertà estrema segue le considerazioni emerse nel Global Monitoring Report pubblicato dalla stessa BM nel 2015 e già analizzato da Bloise e Barbieri sul Menabò. La soglia di povertà estrema è fissata a 1,90 $ giornalieri in Parità di Potere d’Acquisto sui prezzi del 2011. Ad ogni modo le tendenze più recenti confermano la straordinaria riduzione della povertà estrema, così misurata, in corso dagli anni ’90. Se nel 1990 i poverissimi erano 1850 milioni, e l’HR raggiungeva il 35%, nel 2013 il loro numero si è ridotto a 767 milioni e l’HR al 10,7%. Dalle tabelle seguenti possiamo notare non soltanto l’evidente trend decrescente ma anche le persistenti differenze tra le diverse aree geografiche.

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Concentriamo l’attenzione su tre regioni, Asia Orientale, Asia Meridionale e Africa Sub-Sahariana, in cui si concentra il 94% dei poverissimi. In Asia la caduta dell’HR è la conseguenza della drastica riduzione del numero dei poveri (oltre un miliardo) che, peraltro, ha dato un contributo determinante alla riduzione della povertà estrema globale. In Africa il numero di poveri è aumentato, ma meno della popolazione, con il risultato di un moderato declino dell’HR. I dati dimostrano che l’obiettivo del 3% entro il 2030 può essere raggiunto anche se almeno due motivi suggeriscono cautela. Il primo è che quando un Paese ha già ridotto di molto la percentuale di poveri, ulteriori riduzioni diventano più difficili; il trend tende, quindi, a diventare più piatto. Il secondo motivo è che se è vero che il numero di poveri è molto diminuito, non altrettanto può dirsi per l’indice di poverty gap che tiene conto anche della distanza dei poveri dalla soglia; questo indice è rimasto più o meno costante e ciò rivela quanto sia difficile migliorare le condizioni dei più poveri tra i poveri.

Per analizzare l’andamento della SP dobbiamo spostare il nostro sguardo all’interno dei vari paesi. Come si è accennato, l’ indice utilizzato per misurare il fenomeno – lo share prosperity premium – è definito come la differenza tra la crescita del reddito medio del 40% più povero della popolazione nazionale e la crescita del reddito medio dell’intera popolazione nazionale:

 

SP premium = g40 – gmean

 

Un valore positivo indica che il reddito (o il consumo, a seconda della variabile utilizzata) dei più poveri è cresciuto più del reddito medio, quindi più del reddito dei più ricchi, per cui il benessere si può considerare più diffuso.

Secondo il Report in 60 degli 83 Paesi esaminati il reddito (o consumo) del bottom 40% è aumentato   – un dato di per sé positivo- e in 49 Paesi il tasso di crescita è stato superiore a quello dei più ricchi, cioè hanno sperimentato uno SP premium positivo.

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Il Report pone molta enfasi su questo indice di prosperità condivisa ma non offre argomenti in grado di mostrarne la solidità e la significatività. Viene spesso evocata una correlazione positiva tra la maggiore condivisione della prosperità, come misurata dall’indice, e la riduzione delle disuguaglianze. Tuttavia, l’indice è costruito sulle variazioni percentuali, quindi non riflette le differenze nelle variazioni assolute; inoltre manca di considerare eventuali modificazioni della distribuzione, per effetto della crescita, all’interno della macro classe rappresentata dal bottom 40%. Infatti, se crescesse soprattutto il reddito di chi ha già redditi più alti in quella macro-classe, l’esito potrebbe benissimo essere un aumento e non una diminuzione delle disuguaglianza in presenza di un SP premium positivo. A dire il vero, in una nota viene riconosciuto che un SP premium positivo è solo “un primo passo necessario per favorire l’uguaglianza” (pag. 66). Ma ciò non impedisce al Report di trasmettere un messaggio ben diverso. Volendo seguire un approccio più rigoroso si dovrebbe almeno dimostrare che in presenza di un premium negativo è impossibile che la disuguaglianza complessiva si riduca.

E veniamo alla disuguaglianza, che è il tema centrale del Report di quest’anno e che viene esaminata, in primo luogo, a livello globale, considerando cioè il Mondo come un unico paese.

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Nella Figura 1 l’indice di Gini globale (asse destro) mostra una rilevante riduzione, dal 69,7 del 1988 al 62,5 del 2013. Sull’asse sinistro è invece rappresentata la deviazione logaritmica media che permette di decomporre la disuguaglianza complessiva nelle due componenti: Between (cioè disuguaglianza tra Paesi) e Within (cioè disuguaglianza interna ai Paesi). Infatti la disuguaglianza complessiva può essere considerata il risultato della “somma” della disuguaglianza tra i redditi medi dei vari paesi e della disuguaglianza – attorno a quei redditi medi – nei cari paesi. Il grafico mostra come il peso della componente Within sia notevolmente aumentato e ciò vuol dire che la riduzione della disuguaglianza globale è frutto della riduzione della disuguaglianza tra redditi medi dei Paesi, largamente dovuta alla crescita (dai caratteri fortemente disegualitari, peraltro) di paesi come la Cina e l’India che incidono molto sull’indice perché le differenze nei redditi medi sono pesati con la popolazione.

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La figura 2 mostra l’andamento dell’indice di Gini medio delle macro regioni del Mondo, non pesato rispetto alla popolazione. I trend mostrano importanti differenze, ma in tutte le macro aree, ad eccezione dell’Africa Sub-Sahariana, il livello dell’indice medio del 2013 è non inferiore a quello del 1988. Tuttavia, le stime relative agli anni più recenti sembrano mostrare un cambio di tendenza, con un indice di Gini interno decrescente in numerosi Paesi.

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Nel Report si mette in guardia contro un eccessivo ottimismo nel giudicare questi dati, in quanto le stime sono recenti, e fanno riferimento agli anni successivi a una crisi che ancora non ha cessato di produrre effetti e ripercussioni. Non si può, quindi, dire con qualche certezza se il trend continuerà ad essere decrescente. Al riguardo è rilevante anche l’interpretazione dell’evidenza empirica sulla relazione tra crescita delle economia e andamento della disuguaglianza, basata sulle cosiddette “ondate di Kuznets”, avanzata di recente da Milanovic, e illustrata da Boldrini e Dente sul Menabò. Anche per questo sembrano necessarie policy in grado di produrre una riduzione della disuguaglianza che, come sottolinea anche il Report, è un indispensabile raggiungerei due obiettivi di minore povertà e maggiore prosperità condivisa.

Allo scopo di ricavare delle indicazioni di policy per intervenire nei tre ambiti analizzati, il Report presenta i casi di cinque Paesi che hanno raggiunto risultati eccezionali nel contenimento della povertà estrema, nella diffusione della prosperità e soprattutto nella riduzione della disuguaglianza. I cinque paesi sono: Brasile, Cambogia, Mali, Perù e Tanzania.

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Il campione è costituito da Paesi a reddito basso o medio-basso e ciò permette di affermare che non vi è un inevitabile trade-off tra equità e crescita economica e che la lotta alla disuguaglianza non deve essere prerogativa dei soli Paesi avanzati.

I cinque Paesi sono molto diversi tra loro e hanno seguito percorsi diversi negli anni 2000. Per ciascuno di essi, il Rapporto individua un fattore chiave specifico: per il Brasile si tratta delle politiche sociali, la cui introduzione è stata favorita dalla contingenza economica e dalle condizioni esterne; per la Cambogia lo sviluppo di industrie ad alta intensità di lavoro, risultato di un decennio di alta crescita economica; per il Mali il miglioramento del settore agricolo; per il Perù l’apporto degli investimenti stranieri e, infine, per la Tanzania la combinazione di sviluppo di alcuni settori e di più avanzate politiche sociali.

La tesi sostenuta nel rapporto è che, malgrado queste differenze, i vari casi hanno elementi comuni che hanno contribuito a risultati così significativi: la stabilità macroeconomica, il controllo dell’inflazione, il funzionamento del mercato del lavoro, e soprattutto l’implementazione di politiche efficaci nell’intaccare le fonti primarie di disuguaglianza. Pertanto, premesso che non esiste una ricetta unica valida in ogni contesto, la riduzione della disuguaglianza richiede politiche come queste, che riguardano essenzialmente tre aree. La prima area è l’investimento in capitale umano, soprattutto attraverso le politiche per l’infanzia, la sanità pubblica e l’istruzione primaria, in modo da evitare disparità di opportunità già nei primi anni di vita. La seconda è la rete delle infrastrutture, per lo sviluppo delle aree più arretrate del territorio nazionale, come quelle rurali, dove tipicamente si concentrano i più poveri. La terza è il sistema fiscale, che dovrebbe essere rivisto in modo da accrescerne la progressività, in un’ottica di redistribuzione della ricchezza; per esempio l’estensione delle tasse sulla proprietà, potrebbe limitare il fenomeno dell’eccessiva concentrazione di ricchezza nelle mani dei top 10% o 1%.

Questi suggerimenti di policy – precisi nell’indicare gli ambiti degli interventi ma un po’ vaghi sui contenuti di questi ultimi – hanno, comunque, una chiara implicazione: le politiche sono determinanti per ridurre le disuguaglianze e per migliorare le condizioni dei più poveri.

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