Populismi nazionali e sovranazionali alla luce della crisi

Roberta Calvano torna sul tema dei partiti populisti già affrontato nel Menabò, dando conto dell’attività fin qui svolta da questi partiti all’interno del Parlamento Europeo. Esaminando in particolare il Movimento 5 Stelle e l’UKIP, Calvano rileva, da un lato, le difficoltà che questi partiti hanno nel formulare proposte efficaci e, dall’altro, l’influenza che alcune delle loro proposte, spesso criticabili, finiscono per avere sia sulle strategie degli altri partiti, che sul dibattito sui diritti e sulle trasformazioni dello stato costituzionale. 

Nell’accingersi a riflettere sui diversi punti di contatto tra i partiti populisti, o meglio, tra i partiti-non partiti il cui consenso elettorale è esploso nel corso degli ultimi anni in Europa tra elezioni politiche ed europee, si pone da subito una questione definitoria. Andrebbe stabilito infatti cosa si intenda oggi per populismo, che strumenti ci consegnino per leggere la realtà odierna le teorizzazioni che già agli albori del novecento, da Fraenkel in poi, sono state fatte, quali elementi contraddistinguano i cosiddetti partiti populisti, cresciuti anche a seguito della crisi di legittimazione democratica dell’Ue e ulteriormente irrobustitisi in molti stati membri sul crinale della crisi economico finanziaria degli ultimi cinque anni. L’operazione inversa sarà invece tentata in queste brevi riflessioni, analizzando cioè gli spunti che vengono dal dato istituzionale e politico parlamentare Ue in questa fase. Ciò al fine di formulare ipotesi che costituiscano una valida traccia per leggere la realtà e continuare a seguire le vicende del populismo in Europa e in Italia.

Il 3 ottobre scorso il socialista Pierre Moscovici, candidato commissario europeo agli affari economici ed ex ministro delle finanze francese, nel corso di 3 ore di audizione davanti alla commissione economica del Parlamento europeo, presieduta dall’italiano Gualtieri, ha tentato di rassicurare gli eurodeputati del PPE circa la sua volontà di garantire il rispetto dei parametri europei di stabilità anche da parte della Francia, i cui bilanci destano più di una preoccupazione. L’episodio è il segnale evidente di forti scricchioli nell’asse tra PSE e PPE che dovrebbe garantire la “governabilità” di un’Ue che il 28 maggio scorso ha visto (come Mastropaolo ha segnalato sul Menabò), il trionfo di partiti estranei a quello che è stato storicamente “l’arco costituzionale” di Bruxelles, con il Front National risultato primo partito francese, lo United Kingdom Indipendence Party (Ukip) di Nigel Farage primo partito inglese (con un terzo dei seggi inglesi al PE) ed il Movimento cinque stelle (M5S) secondo partito italiano alla luce dell’insperato e forse difficilmente ripetibile 40,8 % del Partito democratico.

Il M5S nato in rete, e protagonista dal 2013 del dibattito parlamentare italiano, è noto al lettore, mentre lo UKIP va sinteticamente descritto come movimento nato dalla costola del partito conservatore inglese in occasione della stipula del Trattato di Maastricht ed in vista della volontà di avversare la partecipazione britannica all’UE, riuscendo sotto l’attuale leadership ad accrescere i propri consensi grazie allo scippo del vessillo dell’euroscetticismo dalle mani del partito conservatore. I due movimenti, a seguito delle elezioni del 28 maggio scorso, sono confluiti, soprattutto per ragioni numeriche, nel medesimo gruppo parlamentare: “Europa della libertà e della democrazia diretta” (EFDD). Sono rimaste, tuttavia, irrisolte alcune questioni dirimenti destinate ad influenzare i loro rapporti, quali l’opzione tra uscita dall’euro o invece dall’Ue, le politiche per l’immigrazione e per l’energia. La questione non è secondaria dato che l’affinità politica, requisito di costituzione dei gruppi parlamentari, dovrebbe essere il catalizzatore della missione costituzionale dei partiti politici europei in base al Trattato (così Grasso sul Menabò).

Nel gruppo EFDD sono quindi già emersi i primi contrasti. Ad esempio, nell’ultima settimana di settembre in commissione affari regionali, in sede di discussione del bilancio Ue, gli eurodeputati M5S hanno votato contro la proposta dei colleghi di UKIP volta ad azzerare tutte le fonti di spesa non suscettibili di portare beneficio diretto ai cittadini britannici. Il malriuscito amalgama all’interno del gruppo si evidenzia anche da un punto di vista formale: un significativo segnale è l’affidamento della guida dell’ EFDD a due copresidenti, mentre il sito web del gruppo ospita solo contributi in inglese; inoltre, dalle statistiche sui voti espressi dal gruppo EFDD (votewatch.eu) emerge l’ulteriore dato per cui questo gruppo aveva già nella scorsa legislatura, rispetto agli altri nel PE, il tasso più basso di coesione al momento del voto.

Il successo di questi due movimenti alle elezioni europee – così come del FN, che da essi si distingue per la caratterizzazione xenofoba – è scaturito dal tentativo di cavalcare paure e malcontento, diffusi anche su base generazionale, facendo leva sull’impoverimento della classe media a seguito della crisi. Tuttavia, essi sembrano sin qui privi degli strumenti necessari per formulare proposte costruttive, restando relegati ad un ruolo di denuncia e di critica. Si giunge così a leggere proposte (M5S) per una riforma del sistema sanitario “meritocratica” (che finanzi di più le regioni dove la popolazione è più longeva, ci si ammala di meno, e le performance degli ospedali sono dunque migliori), o (UKIP) volte a sostenere la necessità di uscita del Regno Unito dalla Cedu in ragione di alcuni orientamenti ritenuti eccessivamente garantisti. Che queste istanze vengano accolte dai partiti tradizionali per rincorrere i nuovi partiti sulla strada di un populismo distruttivo delle garanzie costituzionali è già un dato di fatto, come dimostra ad esempio la proposta annunciata dal primo ministro Cameron, di uscita del Regno Unito dalla Cedu in ragione di alcuni orientamenti nella giurisprudenza sull’art. 8 (così il ministro della giustizia C. Johnston, Conservatives plan to diminish European court’s authority, in Theguardian.com.uk, 27 settembre 2014).
Mentre UKIP ha letto, probabilmente correttamente, il referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito in chiave economica (Farage, Scots won’t get indipendence from a Yes vote, in TheTelegraph.co.uk, 11 settembre 2014), considerando sia i rischi che gli scozzesi avrebbero corso in relazione alla moneta e alle questioni salariali sia l’assoluta irrilevanza che essi avrebbero avuto nella dialettica politica di Bruxelles,; resta dubbio se nelle elezioni politiche della prossima primavera il no ripetutamente affermato da questo movimento (all’Ue, alla Cedu, ai diritti degli immigrati, sulla Scozia) possa essere sufficiente a convincere l’elettorato conservatore inglese.

Se nel 2014 la crisi ha costituito l’occasione perché la campagna elettorale per il rinnovo del PE finalmente si incentrasse su temi europei, i nuovi partiti che si muovono nell’arena europea non paiono dare segnali di un possibile risveglio dell’asfittica democrazia UE. Quest’ultima resta sempre allo stadio embrionale con i vecchi partiti transnazionali che “non possono ottemperare al loro ruolo di mediatori tra i cittadini dell’Unione e gli organi europei giacché non stanno a contatto con gli elettori, né devono rendere loro conto” (D. Grimm, La forza dell’Ue sta in un’accorta autolimitazione, in Nomos 2/2014, 3) mentre i partiti nazionali, vecchi e nuovi, continuano a non essere determinanti nei lavori del Parlamento europeo.

Passando dalla sfera europea a quella delle arene politiche nazionali, si fa anche più evidente l’indebolimento del ruolo giocato dai partiti tradizionali, frutto di un progressivo impoverimento anche rispetto alle sfide politiche e culturali derivanti dalla globalizzazione, dato che emerge ormai da molteplici fattori. Si possono qui solo brevemente ricordare, come elementi di tale processo, la caratterizzazione dei partiti come portatori di istanze generiche e fautori di una politica ridotta a buona amministrazione, la loro perdita di identità dietro l’alibi della fine delle ideologie, il loro cedere al personalismo mentre abdicano al ruolo di mediazione tra istituzioni rappresentative e popolo, aderendo alla più facile via dell’immedesimazione istintiva e spontanea nel leader, senza tralasciare il cedimento all’evidente condizionamento dai parte dei media che, spesso eterodiretti, riescono a determinare i temi in agenda. Tutto questo degenera in una perdita di legittimazione, ma al contempo, nel caso italiano, la forte caratterizzazione populistica del partito di maggioranza relativa più a lungo al governo negli ultimi vent’anni, sembra aver portato con sé quella che per i politologi è la ormai conclamata affermazione del populismo come paradigma dominante dell’intero sistema politico (v. AA. VV., Democrazia e diritto, 3-4/2010).

Al tramonto di questi processi, snodatisi nell’ultimo ventennio e che tradiscono ancora una volta l’agonia dei partiti tradizionali (pur “nuovi” rispetto ai progenitori novecenteschi) e della loro capacità propositiva e progettuale, oggi il dibattito sui diritti e sulle trasformazioni dello stato costituzionale sul versante interno, e nel suo rapporto con l’UE, è condizionato da forze che potrebbero essere definite neopopuliste, se il termine non rischiasse di essere riduttivo e squalificante per un fenomeno che sin qui è stato probabilmente molto sottovalutato, ma è forse l’unico segnale di vitalità della rappresentanza politica, se pur malata, a fronte di una politica tradizionale dominata da élites tecnocratiche. Nel frattempo il problema della salvaguardia dei diritti sociali, patrimonio fecondo del costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra, al centro delle critiche nei confronti delle misure adottate nell’Ue in relazione alla crisi, attende dalla politica risposte puntuali e soluzioni, non potendosi certo considerare tali critiche avulse dalla complessa realtà politica e costituzionale ‎dell’Europa (Morrone, Crisi economica e integrazione politica in Europa, in Rivistaaic.it 3/2014, 5).

In tal senso, l’attacco rivolto in queste settimane dal Governo italiano alle agenzie di mediazione, e ci si riferisce non solo ai sindacati in relazione all’art. 18 (nella sua totale marginalità rispetto alla questione della precarietà e della disoccupazione), ma anche ai partiti (lo stesso PD pare essere avvertito come un peso anziché come bacino di idee e proposte), sembra inserirsi perfettamente in questo quadro di costruzione di un discorso populista che inventa alibi e capri espiatori anziché predisporre risposte alla crisi.

Aggiornamento del 17 ottobre 2014. Proprio mentre questo articolo veniva pubblicato è stata battuta la notizia dello scioglimento del gruppo EFDD al Parlamento europeo e della fine del sodalizio UKIP-M5S per il venir meno del numero minimo di stati previsto per la costituzione di un gruppo, a seguito dell’abbandono dello stesso da parte di una deputata lettone. Se i parlamentari ora privi di gruppo decideranno di accogliere l’invito già rivolto loro a luglio ad unirsi al Front national, alla Lega ed altre forze di analogo orientamento (PVV olandese e FPO austriaco), sin qui non riusciti a superare le soglie numeriche necessarie a costituire un gruppo, questo potrà avere un importante impatto sulla possibilità di forze xenofobe ed ultraconservatrici di pesare nei lavori del Parlamento europeo, ma anche sull’approdo verso un orientamento politico più chiaro delle forze neo-populiste. L’alternativa che sembra restare in campo, almeno per i deputati M5S, è quella, già respinta a luglio nel malcontento della base, dell’adesione al gruppo Verde.

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