Poco Tfr in busta paga: prime evidenze e aspetti critici

Sergio Ginebri e Francesco Maglione commentano le prime evidenze sulle adesioni all’opportunità di anticipare il Tfr in busta paga, introdotta dall’ultima legge di stabilità. Le adesioni, per il momento, sono molto inferiori alle previsioni del governo e secondo i due autori la causa principale è il trattamento fiscale del Tfr anticipato, equiparato a una qualsiasi altra fonte di reddito, che rende non conveniente aderire anche a chi ha redditi inferiori a 15 mila euro, a causa degli effetti negativi sul calcolo dell’assegno al nucleo familiare e dell’ISEE

Il comma 26 dell’art. 1 della legge di stabilità del 2015 (l. 190/2014) prevede la possibilità per i lavoratori dipendenti di richiedere al datore di lavoro di percepire la quota maturanda del Trattamento di fine rapporto (Tfr); tale facoltà è esercitabile dai lavoratori dipendenti del settore privato, esclusi i lavoratori domestici e del settore agricolo, che abbiano un rapporto di lavoro di almeno sei mesi presso il medesimo datore di lavoro.

La norma aggiunge che tale percezione anticipata del Tfr deve avvenire mediante liquidazione diretta mensile come “parte integrativa della retribuzione”, da assoggettare a tassazione ordinaria; peraltro tale anticipazione, ancorché considerata come retribuzione, non è imponibile ai fini previdenziali.

Il carattere sperimentale di tale disciplina, ricavabile dallo stesso incipit del testo di legge, ha condotto il legislatore a limitarne temporalmente l’applicazione ai periodi di paga decorrenti dal 1° Marzo 2015 al 30 Giugno 2018. Così, il legislatore ha voluto sottoporre ad un “periodo di prova” la possibilità di ricevere il Tfr in busta paga, al fine di subordinarne l’eventuale estensione temporale ad un giudizio ex post sui suoi effetti sui vari soggetti coinvolti – in particolare lavoratori, fondi pensione e imprese – e sulla domanda aggregata.

Va subito sottolineato un elemento di grande importanza che caratterizza quest’intervento legislativo: la volontarietà dell’operazione, come ha sottolineato S.Patriarca. Il lavoratore è stato messo nelle condizioni di scegliere, in relazione alle sue specifiche esigenze, se richiedere il Tfr in busta paga in via anticipata come parte della retribuzione, oppure destinarlo a risparmio, accumulandolo fino allo scioglimento del rapporto di lavoro, oppure ancora destinarlo ai fondi pensione complementari come previsto dal d.lgs. 252/2005.

Alla luce di quest’ampliamento della libertà di scelta del lavoratore, si può ritenere che venga attenuata la natura “coercitiva” del risparmio previdenziale italiano, tacciato a ragione di paternalismo (come sostenuto, ad esempio, da F. Panunzi) soprattutto in considerazione della già elevata aliquota contributiva obbligatoria prevista. In altre parole, la volontà del legislatore di trasferire una parte del risparmio forzoso previdenziale verso i redditi e i consumi è da considerare positivamente, anche sotto il profilo previdenziale; ciò in quanto le promesse pensionistiche future abbisognano, per poter essere effettivamente mantenute, di crescita dell’economia e miglioramento dell’occupazione. Altrimenti, il rischio è di avere “una società di ricchi di (false) promesse pensionistiche e poveri di reddito e lavoro”(S. Patriarca).

Le prime evidenze. Tuttavia, malgrado la maggiore libertà di scelta del lavoratore, da un sondaggio commissionato da Confersercenti emerge chiaramente una scarsa adesione al Tfr in busta paga da parte dei lavoratori italiani: appena 6 dipendenti su 100 avrebbero aderito, e solo un altro 11% avrebbe intenzione di farlo entro la fine del 2015. Quindi, la stragrande maggioranza dei dipendenti (l’83%) continuerebbe a utilizzare il trattamento di fine rapporto nel modo in cui l’ha utilizzato fino ad oggi.

A conferma di questa prima evidenza campionaria giungono i dati pubblicati dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro basati sugli stipendi del mese di Maggio 2015, relativi a quasi 1 milione di lavoratori delle grandi imprese. Secondo questi dati il Tfr in busta paga è stato liquidato soltanto a 567 lavoratori e ciò viene espressamente definito un “flop” del provvedimento. Peraltro, formulare giudizi in tal senso appare alquanto prematuro: per considerare questi dati preliminari una prova del fallimento del provvedimento bisogna supporre che la maggioranza dei lavoratori siano aggiornati sulle pubblicazioni in Gazzetta Ufficiale e che siano stati in grado in meno di 4 settimane di ponderare le proprie scelte e, eventualmente, presentare l’istanza al datore di lavoro. Al riguardo si ricorda che il DPCM 29/2015, entrato in vigore il 3 Aprile, prevede che la liquidazione in busta paga è ammessa a partire dal mese successivo a quello di presentazione dell’istanza; tuttavia per i lavoratori delle imprese con meno di 50 dipendenti, il termine è prolungato a 3 mesi, qualora il datore di lavoro, come presumibile, acceda al finanziamento compensativo.

Entrambi i lavori citati riportano le motivazioni che i lavoratori avanzano per la loro scelta. Secondo l’indagine Confesercenti tre sono le principali ragioni che stanno alla base della mancata adesione dei lavoratori: la volontà di non erodere la liquidazione da riscuotere a fine rapporto di lavoro; il regime fiscale sfavorevole, ossia la tassazione mediante aliquota ordinaria e non ridotta come, di regola, avviene quando si riceve il Tfr alla fine del rapporto di lavoro; la difficoltà a cui andrebbe incontro la propria azienda in termini di liquidità. L’importanza del trattamento fiscale emerge anche dall’indagine della Fondazione Studi Consulenti del lavoro.

La prima motivazione dimostra come il Tfr venga percepito ancora da gran parte degli italiani come una forma di risparmio e di tutela per il futuro; questo dato non è modificabile da parte del legislatore e non merita di ulteriori commenti in questa sede. Al contrario, ci soffermeremo sulla disciplina fiscale e sul sistema di finanziamento alle imprese prima di indicare alcune modifiche e soluzioni che renderebbero il provvedimento più “appetibile” per i lavoratori. Non ci soffermeremo, invece, sui rapporti tra Tfr e previdenza complementare, sotto il duplice profilo della revocabilità della scelta assunta dal lavoratore e del regime fiscale, che hanno attirato l’attenzione di molti commentatori perché non ci sembra l’aspetto principale del provvedimento (al riguardo cfr. M. Raitano, La possibile destinazione in busta paga del Tfr: obiettivi e criticità, in “Politiche sociali” 1/2015).

Il trattamento fiscale del Tfr in busta paga. Dal punto di vista del regime fiscale, la percezione anticipata del Tfr viene considerata come “reddito di lavoro dipendente” alla stregua della retribuzione, incidendo negativamente sulle tabelle per il calcolo degli assegni familiari e sulla determinazione dell’ISEE, direttamente collegata al regime delle detrazioni: la questione è rilevante soprattutto per i lavoratori nelle fasce di reddito più deboli che dovrebbero essere i principali beneficiari del provvedimento. Unica eccezione prevista dalla legge rispetto alla tassazione ordinaria è la sua esclusione dal computo del credito d’imposta degli 80 euro mensili.

Evidentemente, dato che il reddito delle persone fisiche viene tassato con aliquote progressive a seconda del reddito che viene percepito annualmente, al Tfr in busta paga si dovrà applicare l’aliquota marginale, ovvero quella che interessa la parte più elevata del reddito.

Differentemente, il Tfr riscosso a fine rapporto di lavoro è assoggettato a tassazione separata; ciò comporta, come previsto dall’art. 19 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (d.p.r. 917/1986), che l’aliquota da applicarsi all’indennità di fine rapporto deve essere pari alla “aliquota media dei cinque anni precedenti a quello in cui è maturato il diritto alla percezione”, in tal modo tenendo indirettamente conto delle detrazioni per lavoro e carichi familiari. Per completezza del discorso, si deve precisare che la rivalutazione del Tfr è invece sottoposta ad una differente tassazione separata con un’aliquota dell’11%, aumentata al 17% per le rivalutazioni decorrenti dal 1° gennaio 2015. Inoltre, in virtù del regime previsto per la tassazione separata, alla liquidazione erogata a fine carriera non si applicano le addizionali comunali e regionali Irpef.

Pertanto, accantonando per un momento gli effetti sui requisiti di accesso alle politiche sociali prima menzionati, l’anticipo del Tfr sarà conveniente per i lavoratori con un reddito inferiore a 15.000 euro, per i quali non vi è alcun aggravio fiscale rispetto alla tassazione ordinaria; invece, per coloro che percepiscono un reddito superiore, l’aggravio fiscale andrà aumentando con il crescere del livello di reddito. Secondo uno studio dei Consulenti del Lavoro, un lavoratore con uno stipendio di 90.000 euro arriverebbe a pagare una maggiore imposta di 569 euro l’anno e di 1.895 euro complessivi nel periodo compreso tra Marzo 2015 e Giugno 2018. Alla luce di queste considerazioni, la decisione del legislatore di applicare la tassazione ordinaria in luogo di quella separata non si è rilevata una scelta felice, tanto da potersi annoverare tra i punti più discutibili del provvedimento adottato.

I finanziamenti compensativi per le piccole imprese. Altro ganglio del provvedimento concerne il sistema di finanziamento alle piccole e medie imprese. Per comprendere tale problematica è necessario mettere in evidenza la “distorsione” che l’istituto del Tfr ha subito nel tempo: infatti mentre da un lato persegue la propria precipua finalità di tutela nei confronti dei lavoratori, dall’altro assicura alle imprese una fonte di (auto)finanziamento a un tasso particolarmente favorevole ( Cfr. M. Ferrera, V. Fargion, M. Jessoula, Alle radici del welfare all’italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Marsilio, 2012). Pertanto, potendo pregiudicare la stabilità economico-finanziaria di molte piccole e medie imprese, i lavoratori sarebbero stati disincentivati ad optare per l’anticipo del Tfr, soprattutto in periodo di crisi.

Così, al fine di scongiurare sia una crisi di liquidità per le imprese private e/o un basso tasso di adesione da parte dei lavoratori, nel Marzo 2015 si è giunti ad un accordo quadro tra l’Associazione Bancaria Italiana, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. In virtù di tale accordo, gli enti creditizi aderenti potranno erogare finanziamenti ad un interesse non superiore al tasso di rivalutazione del Tfr, ossia l’1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione. Tali finanziamenti sono garantiti da privilegio generale ed esenti da ogni tributo (si ricorda che inizialmente era stato previsto il privilegio di cui all’art. 46 del TUB. L’art. 7 del d.l. 65/2015 ha “migliorato” il grado di privilegio che assiste i finanziamenti del Tfr, riconoscendo il privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2751-bis, n. 1 del codice civile). Qualora il datore di lavoro non riesca a restituire il prestito in un’unica rata entro il 30 Ottobre 2018, interverrà il nuovo Fondo di Garanzia che opererà in seno all’Inps, ovvero lo stato è il garante di ultima istanza.

Evidentemente possono ottenere il prestito solo le aziende con meno di 50 dipendenti, poiché le imprese più grandi sono tenute – in base a quanto disposto dalla l. 296/2006 – a versare la quota maturanda del Tfr direttamente all’Inps (che poi eroga le prestazioni); peraltro, la concessione del credito è subordinata a specifici requisiti finalizzati ad accertare la solvibilità dell’impresa ed attestare il Tfr mensile oggetto del prestito. Tali requisiti sono specificatamente individuati dal D.P.C.M. 29/2015.

In conclusione, gli aspetti fiscali del provvedimento rimangono quelli che hanno maggiormente attirato l’attenzione dei commentatori e dei lavoratori stessi. La scelta governativa di considerare il Tfr anticipato come una qualsiasi altra fonte di reddito ha creato un disincentivo all’adesione non solo per i lavoratori che ricevano un reddito superiore ai 15 mila euro, ma anche per coloro che hanno un reddito fino a 15 mila euro, visto che l’anticipazione può avere effetti sul calcolo sia dell’assegno al nucleo familiare che dell’ISEE. La scelta di un regime fiscale sfavorevole è figlia della natura conflittuale esistente fra i due principali obiettivi sottesi al provvedimento: da una parte il sostegno dei consumi, in particolare dei lavoratori poveri, dall’altra l’accrescimento delle entrate pubbliche. Se le prime evidenze verranno confermate, sarà chiaro che le previsioni governative di adesione e di gettito fiscale verranno smentite: la relazione tecnica di accompagnamento alla legge di stabilità era basata sull’ipotesi di una adesione media attorno al 50 per cento e stimava un gettito aggiuntivo di circa 2 miliardi.

Visto il carattere sperimentale del provvedimento, prima di decidere il suo definitivo accantonamento sarebbe forse il caso di ridimensionare gli obiettivi di gettito, applicare una tassazione separata non rilevante ai fini dell’ISEE e degli assegni al nucleo familiare e puntare su un parziale recupero di gettito derivante da un’imposta più bassa ma compensata da una maggiore adesione all’opportunità di anticipo.

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