Outsider, antipolitica e astensionismo: riflessioni sulle elezioni amministrative

Alfio Mastropaolo interpreta le recenti elezioni amministrative partendo dalla considerazione che i partiti convenzionali non hanno compreso che gli elettori, normalmente inerziali,possono però utilizzare le elezioni per manifestare il loro disagio. Diversamente, alcuni imprenditori politici, populisti e antipolitici, lo hanno compreso e hanno incitato gli elettori all’odio per la politica. La conclusione è che le ultime elezioni rappresentano una ribellione contro l’avarizia della politica convenzionale, più che un premio a coloro che la avversano.

Poche strade sono scivolose e malfide come quelle dell’antipolitica. Che è una  strada in discesa. Se il mondo va storto, la responsabilità è della politica, che è verbosa, inconcludente, obsoleta e quant’altro. Ma è soprattutto immorale. È una  strada in discesa perché  consente di risparmiare discorsi più seri. La promessa di moralizzare la vita pubblica fa  aggio su ogni altra offerta di rappresentanza. Non c’è più bisogno di coagulare gli elettori, d’interloquire in permanenza con loro, di dosare le politiche per soddisfare almeno alcune delle loro necessità. Basta eccitarne il malessere, attizzarne i rancori, promettere una palingenesi morale. Il che risolve  la questione morale in moralismo.

Quali le ragioni del successo dell’antipolitica? Qualcuno dirà che appartiene allo spirito del tempo. La democrazia ha inventato il popolo sovrano e ha fornito un buon tema a qualsiasi pretendente al potere: il popolo è tradito da chi lo rappresenta e lo governa. È un’ipotesi che ha qualche fondamento. In democrazia il  tradimento del popolo è un ingrediente che nessuna  opposizione  manca di  utilizzare. Una  cosa però è mettercene un pizzico, per insaporire un’offerta di rappresentanza più sostanziosa, fatta di programmi in grado di migliorare lo stato del mondo, un’altra è somministrare antipolitica in dosi da cavallo, come capita ormai da lungo tempo.

L’Italia tra le democrazie sviluppate è forse quella dove si è più massicciamente utilizzata l’antipolitica. Facciamoci caso per un attimo, senza dimenticare di distinguere. Il popolo sovrano tradito è stato il refrain del movimento referendario negli anni 80, della Lega, di Berlusconi, di Di Pietro, da ultimo di Grillo e di Renzi. Dietro la promessa di restituire lo scettro al principe, di abbandonare Roma ladrona al suo destino, di mettere a tacere il teatrino della politica, dietro le volgarità del V-day, dietro la promessa di rottamare, di cambiar verso, di usare il lanciafiamme, c’è tanta antipolitica. C’è anche qualcos’altro. Si incrocia il razzismo della Lega o il disegno di privatizzazione assoluta del berlusconismo, e perfino qualche programma più costruttivo di gestione della cosa pubblica. Ma la componente avversativa è ipertrofica rispetto a quella propositiva.

Ammesso che una dose di antipolitica sia nella norma, come spiegare le onde anomale che si sono susseguite nella politica italiana? Ragioniamoci. L’offerta di rappresentanza incentrata sull’antipolitica è  povera. Ma forse l’offerta concorrente è ancor più povera. Perché l’azione dei partiti in office in Italia appare  deludente a vasti segmenti di elettorato, perché l’offerta dei partiti d’opposizione non ha nulla di attraente o di credibile, perché le regole  del gioco non danno spazio ad altre offerte, perché magari i tempi sono tempestosi e vasti strati sociali versano in una grave condizione di sofferenza.

Mettiamoci nei panni dell’elettore. Magari uno di quelli che nelle ultime settimane è stato invitato a scegliersi un sindaco.Il lavoro scarseggia, le fabbriche chiudono, le banche annunciano esuberi, il welfare langue, i servizi decadono, le pensioni arrancano dietro il costo della vita, il governo dei flussi  migratori non riesce a dissipare il sentimento d’insicurezza che in tanti strumentalmente eccitano. Ancora: la politica parla una lingua incomprensibile all’uomo della strada, promette riforme elettorali e costituzionali, possibilmente opportune, ma di ardua comprensione.Promette riduzioni fiscali, che si risolvono in riduzioni nazionali e incrementi locali. Si ricorda dell’uomo della strada solo al momento delle elezioni.  Aggiungiamoci una sequenza ininterrotta di scandali, episodi di corruzione, malversazioni, che hanno colpito perfino i piccoli risparmiatori. Quali armi restano in mano al povero elettore? La grande promessa della democrazia maggioritaria, chi è scontento potrà sempre votare per l’opposizione, si rivela uno sberleffo. In primis perché cambiare di schieramento politico è come cambiare squadra del cuore. Non fa parte del costume politico in nessun paese. In secondo luogo, perché l’opposizione non è poi così diversa da chi governa. Votare infine un partitino marginale, lo si è capito, è mera testimonianza. Le regole elettorali, e la loro applicazione, lasciano due sole alternative agli scontenti. Astenersi o votare per un partito outsider.

Le cose da un pezzo vanno più o meno  in questo modo. Anche le ultime amministrative le ha il partito dell’astensione. La politologia corrente ha pienamente legittimato l’astensionismo. Astenersi usa da ogni parte. Poco importa che sia democraticamente disdicevole.Tenuto conto che  larga parte dell’elettorato vota in maniera inerziale, l’astensionismo di chi dissente le torna utile. Così può sforzarsi di attrarre solo piccole sacche di elettori assecondandone gli interessi piuttosto che investire massicciamente nel mantenimento dei grandi numeri. I fatti tuttavia dimostrano che il calcolo è sbagliato e che l’astensionismo può decidere l’esito delle elezioni.

L’alternativa all’astensione è votare per un outsider, che dia fiato alla protesta e abbia tratti diversi dai partiti established, anzi che sia in aperta e irriducibile polemica con essi. È successo alle politiche, è successo alle europee, è successo alle amministrative. Questo ha fatto la fortuna del Movimento 5 Stelle. Il quale, cammin facendo, ha affinato la sua offerta di rappresentanza. In origine puntava sulla provocazione e si rivolgeva prevalentemente a un pubblico di sinistra. Fassino lo ricorderà di sicuro. Grillo si era addirittura proposto quale candidato alle primarie del Pd. L’agonia del berlusconismo l’ha indotto a rimodulare  il messaggio. La sua antipolitica, che inizialmente intrecciava fondamentalismo moralista e temi di sinistra, si è adattata ai gusti degli elettori moderati. Il suo seguito si è allargato a dismisura. Qualcuno, a sinistra, si consola accusandolo di populismo. Lui l’ha presa a ridere. Nei giorni scorsi si è detto che il successo di 5 Stelle è stato determinato dal risucchio dell’elettorato di destra, che, specie ai  ballottaggi, è stato effettivamente incoraggiato  dalla destra soccombente. E con ciò? È il maggioritario, bellezza! Sono i regimi maggioritari che trasformano le elezioni in un pronunciamento contro anziché a  favore. Perché mai Meloni e i suoi elettori avrebbero dovuto preferire Giachetti a Raggi? E sarebbero stati meno di destra gli elettori di destra torinesi se avessero preferito Fassino a Appendino? Siamo seri. Il successo di 5 Stelle appartiene a 5 Stelle. Vedremo che politiche  faranno e se potranno essere considerate di destra. Specie alla luce dello spostamento a destra del Pd.

Consideriamo più da vicino tre casi, iniziando da  Roma. Nel 2008 il Pd non trovò  di meglio che offrire una minestra riscaldata: Rutelli. Anche grazie a un po’ d’astensione, la spuntò Alemanno. L’espressione più asettica per definire la sua esperienza di governo è saccheggio.  Cinque anni dopo, le primarie incoronarono Marino, che alle elezioni fu plebiscitato dai romani. Il seguito è una deprimente storia di gaffes, di imboscate, di mercanteggiamenti. Col contorno di una grande inchiesta giudiziaria che ha toccato la precedente amministrazione e che ha colpito anche il Pd romano, sul quale l’indagine condotta da Fabrizio Barca ha aperto squarci inquietanti, a dir poco. Recuperare un quinquennio di saccheggio era una missione impossibile. Le beghe tra segreteria nazionale e sindaco Marino hanno pure condotto l’amministrazione comunale alla paralisi, fino a quella sorta di golpe istituzionale che l’ha defenestrato (usano talora in democrazia. Segnaliamo per inciso un bel saggio di Perry Anderson sulla defenestrazione di Dilma Roussef). Nuove elezioni, gestione commissariale, nuovo candidato Pd, scelto con fatica e pure in odio alle forze di sinistra che avevano sostenuto Marino. Come stupirsi se la candidata di 5 stelle ha fatto il pieno di elettori imbestialiti? Giachetti è arrivato al ballottaggio sol perché la destra si è divisa. C’è da presumere che Raggi avrebbe vinto anche contro un candidato di destra.. Chi può pensare, con un po’ di buon senso,che una città devastata come Roma potesse lasciarsi abbindolare dalla promessa delle olimpiadi? Su, siamo seri.

Torino. È stata una sconfitta ancor più bruciante e esemplare.Fassino ha ragione. Torino non è Calcutta. Governata da un quarto di secolo  dalla sinistra, ha  sopportato  la fuga della più grande impresa manifatturiera del paese. Guadagnando appeal come città turistica. La giunta Chiamparino aveva lavorato molto e  bene. Ma c’è sempre un meglio e bene  non vuol dire che non vi fossero problemi. Non si dismettono i panni di una grande città industriale senza sofferenze. Né basta indossare quelli assai più dimessi di una città terziaria, che preme a tavoletta il pedale dell’edilizia. Può andare per un po’, ma non in eterno. In una città sia pure ex-operaia non ci aspetterebbe neppure che il sindaco stia con  Marchionne anziché con gli operai. Ancora: troppi disoccupati, troppimal occupati, troppi negozi di lusso in centro, troppi centri commerciali e troppi piccoli e medi esercizi che chiudono, troppa periferia in abbandono. Tutto è relativo. A Roma va peggio, ma non consola nessuno.Ci si aspetterebbe anche un sindaco più friendly coi cittadini, sostenuto da un partito fatto meno di pretendenti a qualche carica e più di militanti persuasi di contribuire a un progetto politico. Ci si sarebbe aspettato pure che la rottura con la sinistra fosse evitata a tutti i costi e che il “sistema Torino”, quella congrega  di soliti noti che da troppo tempo occupano tutte le istituzioni cittadine, fosse meno spudoratamente onnipresente. C’è una generazione che da tempo vorrebbe riconosciuti i suoi meriti e le sue competenze e il “sistema Torno” fa da tappo.In queste condizioni meglio il rischio dell’ignoto.Fassino queste cose le sapeva e infatti la sua campagna elettorale si è fondata sui contatti coi cittadini. Ma non è bastato. Al primo turno,secondo i dati sui flussi dell’Istituto Cattaneo, aveva già perso oltre metà dei suoi elettori del 2013, recuperando per contro voti di destra nelle zone più gentrificate della città. Non c’è molto da aggiungere.

Il terzo caso, la prova acontrario, è quello di Milano. Qui il bacino di malessere cui attinge 5 Stelle, originariamente di sinistra, era stato drenato dall’amministrazione Pisapia. Sala è stato inoltre prudente recuperando in qualche modo un rapporto con la sinistra. C’è l’ha fatta per poco, confermando che a conti fatti il Pd non può concedersi il lusso di trattare  con ostilità le forze alla sua sinistra. Era stato pensata, la candidatura di Sala,  per sottrarre elettori alla destra. Lui è stato  abile a smarcarsi da una strategia disastrosa.

In conclusione. Primo: l’effetto Renzi ha fatto danno. Sospinto da umori antipolitici, eccitati a iosa  nel partito,  si è dissipato nei labirinti dell’azione di governo, che sono sempre intricati. Anziché assumere toni più pacati Renzi ha dichiarato guerra alla tradizione della sinistra e ha preferito compromettersi con Berlusconi e Verdini. Il danno è stato maggiore dove più chiara è stata questa strategia. Bisogna però esser onesti. Renzi ha fatto Renzi perché il suo partito si è sottomesso. Difficile è immaginare un atteggiamento più succube della cosiddetta sinistra del suo partito. Chi si fa pecora il lupo lo mangia. Ma il disastro è ora generale. Vedremo se e  come il Pd saprà recuperare. Le radici non marciscono in pochi mesi, nemmeno in qualche anno. Bisogna però lavorarci.

Secondo: non c’è molto spazio a sinistra del Pd. È amaro osservarlo, ma al momento è stato eroso da 5 Stelle. Vale il principio del voto utile. La fine ingloriosa di Prc e di Sel ha chiuso questo spazio. Lo ha suggellato Renzi, salvo fare un regalo a 5 Stelle e incrementare l’astensione. In teoria gli converrebbe tornare sui suoi passi. Ma non è il tipo che ci ripensa. Culturalmente sta in un altro luogo.

Terzo. Il luogo che Renzi vorrebbe invadere e annettersi è discretamente presidiato. La destra è sbandata per la fuoruscita di Berlusconi. Ma i risultati di Parisi e Meloni mostrano che è viva. Deve solo riorganizzarsi. L’idea renziana di impadronirsi delle sue spoglie e di mescolarle al suo Pd è un’illusione.

Quarto. 5 stelle resta un enigma. Sospinto verso l’alto dall’arroganza e dall’insipienza dei suoi concorrenti. L’errore più grave sarebbe demonizzarlo. È vero, è un interlocutore scomodo. Che ha tenacemente rifiutato ogni dialogo. Il fattore G è il rovescio del fattore K. A decretare l’esclusione sono gli outsiders. Il fondamentalismo inquieta sempre e cosa faranno i 5 Stelle  al governo delle città suscita qualche preoccupazione. I programmi sono vaghi. Ma una forza di governo deve sempre mettere i piedi in terra e provarsi ad allargare i suoi consensi. Deve ridurre l’antipolitica e amministrare. Il nucleo iniziale dovrà aprirsi. Provarsi con tenacia a dialogare e ad  aiutarli sarebbe cosa saggia.

Quinto. La storia non finisce. Renzi è stato maltrattato e, dato il tipo, cercherà la rivincita. Non c’è però solo Renzi. Andremo a un referendum sulla riforma della Costituzione. Che è disastrosa per alcuni  ed è malfatta anche per i suoi sostenitori. Chiunque vinca, il dopo sarà complicato. Perché non  rendere il dibattito, almeno tra gli intellettuali, un po’ meno avvelenato? Un dopo c’è sempre.

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