Ottantuno sfumature di rosso nei bilanci pubblici

Civil Servant ritiene che il pareggio di bilancio imposto ogni anno e in tutti i paesi sia una regola ottusa e controproducente. Invece di cambiarla tutti i governi europei, ad iniziare dalla Germania, preferiscono aggirarla. Civil Servant elenca le pratiche più frequenti dalle quale non ci mette a riparo neanche il nuovo articolo 81 della nostra Costituzione e sottolinea che l’ultima frontiera della finanza creativa è l’uso seriale delle clausole di salvaguardia, nate per garantire il pareggio di bilancio e trasformate in un derivato su eventi improbabili.

Sono passati circa tre anni e mezzo dall’introduzione del principio di bilancio in pareggio nella nostra Costituzione e si è già trovato il modo di eluderlo. Non è bastato dilatare di circa una volta e mezza (da 67 a 163 parole), il testo originale dell’articolo 81 blindando il pareggio con procedure parlamentari degne di miglior causa. Il vecchio articolo recitava: “Ogni […] legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte,” e questi “mezzi” erano stati ben presto individuati nel ricorso al debito pubblico. Per evitare tutto questo, nel nuovo articolo 81 “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico,” ma anche questa formulazione è risultata facile da aggirare.

Che il pareggio di bilancio sia un principio discutibile non vi è dubbio, tanto è vero che non viene applicato in nessuna impresa degna di questo nome. Sul lungo periodo, è chiaro che lo stato, come qualsiasi altro soggetto economico, non può comportarsi come il famigerato Ponzi, ritenuto (a torto) l’inventore della catena di Sant’Antonio applicata alla finanza. Tuttavia un minimo di flessibilità e di lungimiranza sui conti pubblici non guasterebbero. Per prima cosa, per come è interpretato in Italia e in Europa, il pareggio è sostanzialmente un vincolo imposto ai flussi di cassa e non distingue tra le spese correnti e quelle per investimenti, che per loro natura vanno inevitabilmente a peggiorare i conti finanziari dell’anno in cui sono state sostenute ed eventualmente generano profitti solo sul medio e lungo periodo. Come se non bastasse, l’articolo 81 e i suoi corrispondenti europei richiedono il conseguimento del pareggio in ogni singolo anno e in ogni singolo paese, a meno di fattori eccezionali. E’ uno scenario che rimanda ad una economia bucolica, in cui il ciclo della produzione segue il ritmo delle stagioni e quindi non è auspicabile trovarsi ogni capodanno con più debiti. Questo ragionamento però non regge più in un’economia appena più complessa, in cui i contadini comprano anche dei trattori, che sperabilmente contribuiscono ad aumentare la produzione per qualche decina di anni, ma peggiorano i conti nell’anno in cui sono acquistati. In altri termini, l’equilibrio tra costi e ricavi deve valere su un periodo di tempo sufficientemente lungo da consentire l’ammortamento delle spese per investimenti nel capitale fisico e in quello umano. E difficilmente questo periodo coincide con un anno solare.

A rigore, il principio del pareggio in ogni singolo anno si scontra perfino contro la geografia astronomica, che insegna come ci sia uno sfasamento di circa 6 ore tra l’anno civile e quello astronomico, che viene corretto con l’introduzione dei famigerati anni bisestili. Quindi la stessa regola viene imposta per periodi di tempo che differiscono tra loro di circa lo 0,2%: un’imprecisione che non sarebbe tollerabile in nessun contratto finanziario e neanche in un orologio da pochi euro. In realtà non c’è nessuna ragione al mondo per conseguire il pareggio di bilancio nell’arco di un anno piuttosto che di un mese o di un decennio. Altrimenti, in un lontano futuro, se i colonizzatori di Giove decidessero di aderire all’Unione Europea, potrebbero a buon diritto di rivendicare il rispetto del pareggio in 4.333 giorni, perché questa è la durata del loro anno, contro gli 88 giorni di un mercuriano o i 29 anni e mezzo di un saturniano.

Il pareggio simultaneo dei conti pubblici in tutti i membri dell’Unione è un altro punto molto discutibile. Se un gruppo di paesi decide di assicurare piena libertà di movimento a uomini, merci e capitali, non si vede perché dovrebbe escludere da questi flussi proprio le risorse pubbliche. Costringere ogni paese all’autarchia in campo fiscale è anche controproducente, perché riduce sistematicamente la domanda aggregata e la crescita. Chi ha un debito eccessivo è infatti costretto a tagliare le spese e chi invece potrebbe sostenere una maggiore spesa pubblica non può farlo per non finire in deficit. Come se non bastasse, parecchi governi, a cominciare dal nostro, hanno esteso il principio del pareggio anche al bilancio delle amministrazioni locali, bloccando l’attività sia delle amministrazioni virtuose che di quelle meno efficienti. Se il pareggio fosse imposto, a cascata, fino a livello dei condomini, e delle singole famiglie, l’attività economica sarebbe sostanzialmente paralizzata e il sistema finanziario non avrebbe quasi più ragione di esistere.

Di fronte a queste ed altre incongruenze, non stupisce che tutti i governi ricorrano a piccoli e grandi sotterfugi per eludere la regola del pareggio. Uno dei trucchi più diffusi è l’uso (e abuso) delle garanzie di stato, che contabilmente non sono classificate nel debito pubblico, ma potrebbero rientrarvi se le cose non andassero per il verso giusto. Per esempio, secondo l’Eurostat  la virtuosa Germania nel 2013 si era esposta per più del 18% del proprio Pil, contro appena il 6% dell’Italia, ma sempre meno dell’insospettabile Austria, che garantiva assets addirittura superiori al 35% del proprio prodotto. Questo è nulla, però, rispetto all’uso spregiudicato delle società controllate dallo stato, su cui si usa scaricare debiti che, grazie alle solite ineffabili convenzioni contabili, non compaiono nei conti pubblici. In questa sottile arte si distingue ancora la Germania, che ha accumulato debiti superiori al 126% del Pil soprattutto attraverso la banca di stato Kfw, che è la sorella maggiore della nostra Cassa Depositi e Prestiti. Noi ci limitiamo ad un modesto 45% del Pil, mentre la Grecia ricorre a questo canale di finanziamento alternativo solo per il 6-7% del proprio prodotto. Sommando debito pubblico ufficiale e debiti delle controllate, il paese più indebitato d’Europa sarebbe dunque la Germania (203% del Pil: oltre 20 punti in più della Grecia e quasi 30 punti in più dell’Italia).

In Italia la nuova frontiera dell’aggiramento dell’articolo 81 della Costituzione è l’abuso delle cosiddette clausole di salvaguardia. Si tratta di norme nate molto prima della revisione costituzionale e raccomandate proprio dalla Commissione Europea per rafforzare il rispetto dei saldi di bilancio. Se alcune entrate appaiono troppo incerte o si rischia di sforare su qualche capitolo di spesa, il governo si impegna, a fine anno, ad aumentare l’IVA o le accise, che rappresentano introiti quasi sicuri. Descritte in questo modo, le clausole sembrano uno strumento virtuoso, che potrebbe tranquillamente sostituire la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Invece il diavolo si nasconde nei dettagli.

Se, con la benevole accondiscendenza dei numerosi organi di controllo, il governo sovrastima deliberatamente alcune entrate e sottostima alcune voci di spesa, allora la clausola di salvaguardia equivale all’emissione di un titolo di debito immateriale, che verrà rimborsato a fine anno a meno di improbabili colpi di fortuna. In altri termini, la clausola finisce per essere un derivato il cui valore di mercato è difficile da stimare, perché dipende dal successo delle misure di politica economica e dall’andamento generale dell’economia. Se l’uso delle clausole fosse occasionale e marginale, questa pratica sarebbe sostanzialmente accettabile: un peccato veniale rispetto alle enormità delle garanzie di stato e dei debiti degli enti controllati dallo stato. Invece, da qualche anno a questa parte, le clausole approvate l’anno prima vengono sistematicamente “sterilizzate”, più o meno parzialmente, con provvedimenti ad hoc presi a fine anno e riproposte per gli anni a venire, in modo da alimentare un castelletto di liquidità a breve termine: un vero e proprio Ponzi game. Tanto per avere un’idea della dimensione del problema e di quanto velocemente si diffonda questa cattiva pratica, dopo l’ultima legge di stabilità, incombono clausole per 17,5 miliardi sul prossimo anno, 27 miliardi sul 2017 e quasi 30 sul 2018, con una progressione preoccupante e difficile da fermare.

A questo punto, i governi europei, invece di dare fondo a tutta la loro creatività contabile, non farebbero meglio a ripensare regole che si sono rivelate dannose e controproducenti?

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