Ombre cinesi

Paolo Paesani prende spunto dalla forte instabilità nella quale si trova da alcune settimane la borsa cinese, seconda nel mondo per capitalizzazione, per analizzare le più generali tendenze negative dell’economia di quel grande paese. Paesani discute le cause di questo fenomeno e gli interventi adottati dalle autorità cinesi per limitarne l’impatto, sottolineando in particolare l’incertezza sulla tenuta del tasso di cambio e sul futuro dell’economia, nell’ambito di un quadro internazionale caratterizzato anch’esso da grande instabilità.

Da settimane, i mercati internazionali attraversano una fase di forte instabilità, punteggiata da brusche cadute nelle quotazioni azionarie. La borsa cinese, seconda nel mondo per capitalizzazione dopo quella statunitense, non fa eccezione. Dall’inizio dell’anno ad oggi, lo Shanghai composite – uno dei principali indici azionari cinesi – è passato da 3296 punti (4 gennaio 2016) a 2741 punti (26 febbraio 2016), una brusca diminuzione che rafforza una tendenza negativa che dura da mesi e che getta ombre sulle prospettive di crescita dell’economia cinese.

Dalla scorsa estate a oggi, la borsa cinese ha perduto oltre il 40% del suo valore, ritornando ai livelli registrati a gennaio del 2015 (Fonte Thomson Reuters). Il fenomeno è iniziato il 12 giugno dello scorso anno, in seguito alla decisione delle autorità cinesi di introdurre limiti più stringenti alla capacità di prestito delle società finanziarie, ed è proseguito sotto la spinta di vendite massicce, alimentate da due fattori concomitanti: i dubbi del mercato sulla tenuta del tasso di cambio e il deterioramento delle prospettive di crescita dell’economia cinese.

La decisione della banca centrale cinese, presa nell’agosto del 2015, di svalutare una tantum il renminbi dell’1,9%, ha dato inizio a un progressivo deprezzamento della valuta cinese, passata da 6,20 renminbi per un dollaro ad agosto del 2015 agli attuali 6,55. Questo deprezzamento unito all’aspettativa, poi concretizzatasi, di un rialzo dei tassi d’interesse statunitensi, e ai dubbi crescenti sulla tenuta dell’economia, di cui parleremo più avanti, ha favorito la speculazione al ribasso, spingendo molti operatori a spostare i propri capitali dalla Cina all’estero. La chiusura delle operazioni di carry trade, condotte indebitandosi a breve in dollari per reimpiegare i fondi così raccolti nel mercato cinese, e la decisione da parte di molte imprese cinesi, di medie e grandi dimensioni, di rimborsare anticipatamente i propri debiti denominati in dollari, prima di subire perdite ulteriori sui cambi, hanno aggravato il fenomeno.

Dati recenti sull’andamento dei flussi internazionali di capitali, resi pubblici dall’Institute of International Finance di Washington, confermano la rilevanza del fenomeno. Nel corso del 2015, l’economia cinese ha subito un deflusso lordo di capitali privati verso l’estero pari quasi a 700 miliardi di dollari nel 2015, un dato molto più alto del previsto e il primo di segno negativo dal 2000 a questa parte. Nei primi mesi del 2016 il fenomeno si è intensificato.

Le autorità cinesi hanno cercato di contrastare questo deflusso imponendo restrizioni alla mobilità dei capitali e attingendo copiosamente alle proprie riserve di valuta estera. Questi interventi hanno frenato la caduta della borsa e del cambio senza dissipare i dubbi degli investitori; al contrario, in alcuni casi li hanno aggravati.

Il deterioramento delle aspettative sul tasso di crescita dell’economia cinese rafforza il pessimismo degli operatori. Secondo stime ufficiali recenti, la Cina crescerà a un tasso del 6,9% nel corso del 2016 (5,2% secondo le stime di Goldman Sachs, 3% secondo altri). Pochi anni fa il tasso di crescita cinese superava il 10%. Questo rallentamento è determinato, in parte, da fattori esterni (postumi della crisi finanziaria internazionale, stallo dell’economia europea, focolai di guerra e rischi geopolitici a livello internazionale) in parte da fattori interni che vale la pena ricordare brevemente.

Com’è noto, la Cina ha adottato un modello di crescita basato sugli investimenti in capitale fisso, sullo sfruttamento di forza lavoro a buon mercato e sul credito generosamente erogato dal sistema bancario tradizionale e dalle banche ombra, società finanziarie poco regolamentate che alimentano gli investimenti e la speculazione finanziaria e reale. Nelle fasi iniziali dello sviluppo, quando i livelli di capitale e di reddito pro-capite sono molto bassi, una strategia del genere ha successo nell’elevare il tasso di crescita dell’economia e il tenore di vita dei cittadini.

Dopo un certo periodo di tempo, però, i vantaggi marginali derivanti dall’aumentare la cubatura degli edifici, l’estensione della rete stradale e ferroviaria, la capacità di smistamento di merci e passeggeri, si riducono a meno che la capacità produttiva crescente non sia utilizzata per produrre beni da esportare o da vendere ai consumatori locali. L’attuale debolezza dell’economia mondiale e la bassa propensione al consumo dei cittadini cinesi militano contro questa possibilità, contribuendo a spiegare il rallentamento dell’economia cinese. L’invecchiamento della popolazione, a cui si cerca di porre rimedio superando la politica del figlio unico, l’assottigliarsi della disponibilità di forza lavoro a buon mercato, l’indebitamento crescente di imprese e famiglie, l’aumento dei prestiti inesigibili e le difficoltà che le autorità incontrano nel governare le banche ombre, aggravano la situazione, deprimendo ulteriormente le prospettive di crescita e favorendo la fuga dei capitali.

Le autorità sono consapevoli del problema e stanno agendo per risolverlo, anche se forse troppo lentamente, come sostiene ad esempio Martin Wolf, autorevole commentatore del Financial Times. Interventi recenti come l’introduzione di sussidi pubblici su alcuni beni di prima necessità e di misure volte a facilitare i passaggi di proprietà e a incentivare gli acquisti da parte dei turisti oltre che il credito al consumo servono stimolare le esportazioni e i consumi interni. Perché interventi del genere abbiano effetto, però, c’è bisogno di tempo e di un contesto internazionale propizio, cioè di fattori che al momento sembrano latitare.

Che i mercati finanziari non si siano accorti delle ombre che si addensavano sull’economia cinese, o abbiano finto di non accorgersene per molto tempo, non stupisce. I mercati finanziari, e quelli cinesi non fanno eccezione, operano in condizioni di incertezza sulla base di giudizi convenzionali e di comportamenti imitativi. Fin quando le convenzioni tengono (la Cina crescerà per sempre al 10%, la Cina è la seconda economia del mondo, supererà gli Stati Uniti nel 2035 etc., i tassi d’interesse statunitensi rimarranno prossimi a zero, la crisi è passata….), il mercato si muove in una sola direzione e guadagnare diventa molto facile. Quando la convenzione cambia, e molto spesso ciò avviene bruscamente, il faro si spegne e la marea si ritira, lasciando dietro di sé detriti e relitti.

Troppa incertezza circonda l’economia mondiale in questo momento perché una nuova convenzione possa formarsi in tempi rapidi. La Federal Reserve rialzerà in tassi nel 2016? o piuttosto tornerà sui suoi passi come alcuni credono possibile? Il Regno Unito resterà nell’Unione Europea o ne uscirà? L’Unione stessa riuscirà a superare le molte crisi che la attraversano? E la Siria? E gli altri paesi del Medio Oriente? E il prezzo del petrolio? E l’ISIS? Ognuna di queste domande offusca la capacità di previsione degli operatori, aumentando l’instabilità. Che in Cina tutto questo si manifesti con particolare violenza è il prodotto, in parte, del contesto interno ed internazionale di cui si è detto, in parte di una serie di errori commessi dalle autorità di vigilanza e di difetti di comunicazione che non aiutano il formarsi di una nuova convenzione.

Per governare in maniera efficace il sistema finanziario sono necessari esperienza, buona comunicazione, capacità di esercitare moral suasion, contatti costanti con gli operatori principali, concordia di interessi tra le diverse autorità di vigilanza (o preminenza di un’autorità sulle altre), una regolamentazione efficace e molto speso tutto questo non basta. In Cina, la autorità preposte al governo dei mercati finanziari stanno apprendendo un nuovo mestiere e, nel farlo oscillano tra dirigismo e laissez faire, tra opacità e trasparenza. La decisione di sospendere il blocco automatico delle contrattazioni, estendendo al tempo stesso il divieto di liquidare posizioni rilevanti è un esempio di questo duplice approccio. Quanto più rapidamente si compirà questo processo, tanto prima si dissiperanno, almeno in parte, le ombre che gravano sull’economia cinese, a beneficio di quel grande paese e del resto del mondo.

Schede e storico autori