Non tutto il Regno Unito ha scelto la Brexit – Nuove elezioni parlamentari e recenti sviluppi in Scozia e in Irlanda del Nord

Alessandro Torre esamina lo stato e le prospettive del processo che dovrebbe portare al recesso della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Dopo avere ricordato i passi fin qui compiuti tra non poche difficoltà istituzionali, Torre illustra come le elezioni parlamentari anticipate, volute da Theresa May, allo scopo di rafforzare la propria leadershio, si intreccino con quel processo e si sofferma in particolare sulle conseguenze che esse potrebbero avere in Scozia e Irlanda del Nord, dove gli elettorati si sono espressi nettamente a favore del remain.

Tutto sembrava essere andato a posto nel Regno Unito proteso verso la Brexit. Decidendo il caso Miller, la Corte Suprema del Regno Unito aveva confermato la validità dell’imperituro principio per cui Lex Angliae nunquam sine parliamento mutari potest, e così consegnava al Parlamento di Westminster (ma in entrambi i suoi rami, e non solamente alla Camera dei Comuni come la premier May aveva discutibilmente tentato di fare nell’intento di legittimare la sua pretesa di utilizzare la Prerogativa per l’attivazione del fatidico art.50 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea), la decisione di avviare il recesso.

In un sistema di governo che fin dalle rivoluzioni del Seicento alla supremazia del Legislativo ha affidato una coerenza costituzionale che in realtà sembra essere posta a dura prova dallo sviluppo del prime ministerial government e dallo sviluppo di parlamentarismi territoriali nelle aree della devolution, e a questa coerenza il Parlamento ha immediatamente dato una forma concreta. Nel febbraio-marzo 2017 entrambe le Camere hanno dato corso all’European Union (Notification of Withdrawal Act) 2017, ma il processo bicamerale di approvazione del laconico dispositivo che ha incaricato l’Esecutivo di procedere nelle forme dovute alla notifica della volontà britannica di recesso dall’Unione non è stato privo di complicazioni. Se, infatti, nella Camera dei Comuni il progetto di legge (bill) era approvato senza particolari difficoltà – 498 voti contro 114 – con l’incoraggiamento di un voto favorevole dell’Opposizione laburista e con i deputati dello Scottish National Party unico schieramento compatto quale avversario della Brexit, il passaggio alla Camera dei Lord risultava meno scorrevole.

Due importanti emendamenti rivelavano, infatti, il prevalere tra i Pari di posizioni apertamente critiche: con il primo, l’Esecutivo era impegnato ad elaborare, entro il termine di tre mesi dall’avvio della notifica ex art.50, le condizioni di base affinché i diritti dei cd. EU nationals residenti nel Regno Unito non risultassero pregiudicati a causa del recesso; il secondo emendamento, con la formula «The Prime Minister may not conclude an agreement with the European Union under Article 50(2) of the Treaty on European Union, on the terms of the United Kingdom’s withdrawal from the European Union, without the approval of both Houses of Parliament», stabiliva che a negoziati conclusi, il passaggio parlamentare bicamerale sarà la condizione costituzionale imprescindibile perché l’abbandono dell’Unione acquisti efficacia.

In tal modo, di contro a una Camera dei Comuni la cui maggioranza, che in ossequio alle logiche del party government, si era schierata quasi senza dibattito a sostegno della Brexit, la Camera dei Lord ribadiva l’intangibilità dei diritti fondamentali e indicava la via della correttezza istituzionale. Dimostrandosi in piena sintonia con il percorso indicato dalla Corte Suprema, anche in questa occasione i Pari si confermavano significativamente immuni dai ferrei condizionamenti della disciplina di partito, ma infine, sebbene con maggioranze meno nette rispetto alla precedente (rispettivamente con 335 e 331 voti contrari, e 287 e 296 favorevoli) i Comuni bocciavano entrambi gli emendamenti. Le questioni relative ai diritti dei residenti europei e alla finale fase parlamentare restavano comunque aperte almeno sotto il profilo concettuale, così come del tutto irrisolta restava il quesito sulla valenza costituzionale del referendum: consultivo (advisory) come prevede il diritto costituzionale, o vincolante (mandatory) come dimostra la realtà politica?

Il Royal Assent era dato il 16 marzo, e alla fine dello stesso mese era notificata all’Unione la volontà di dare corso al whitdrawal. Su tale base, i preliminari dei negoziati si sono rivelati immediatamente problematici: le trattative del prossimo biennio concerneranno solamente la realizzazione del recesso (come si sostiene da parte dell’Unione), oppure, come vorrebbero i brexiteers, includeranno anche le condizioni, prevalentemente di mercato, applicabili a un Regno Unito che abbia abbandonato l’Europa? Ma nel frattempo un colpo di scena, in verità non del tutto imprevedibile ma certamente una sorpresa per la politica britannica, è la determinazione con cui, il 18 aprile, il Primo ministro May dichiarava di voler procedere a elezioni parlamentari anticipate, fissando per il voto la data dell’8 giugno 2017. Senza dubbio questa decisione ha impresso una nuova direzione alle vicende che circondano la Brexit, e di certo influenzerà i progressi delle istituzioni britanniche in direzione di un distacco dall’Unione che si presenta irto di contraddizioni e, se si vuole, di incognite.

L’obiettivo di quella che, in modo improprio, si può definire una “crisi di governo” consiste nel rafforzamento della leadership di governo, in modo che questa ne possa trarre vantaggio approfittando di quello che è (o è considerato) un momento favorevole alle sorti del partito di maggioranza. Per questo motivo non si tratta di una vera crisi perché di solito le nuove elezioni si chiedono non come conseguenza di uno stato di debolezza della maggioranza governativa, bensì per dare un nuovo impulso a questa e alla premiership (ma non sempre questa tattica produce il risultato atteso). Secondo le vecchie convenzioni, il Primo ministro poteva provocare lo scioglimento della Camera dei Comuni anticipando la naturale chiusura della legislatura quinquennale, semplicemente chiedendo alla Corona di emanare un atto di convocazione di nuove elezioni e ottenendolo senza discussioni (un residuo, questo, di antiche prerogative sovrane), ma con l’adozione del Fixed Terms Act 2011, promosso dal precedente primo ministro Cameron anch’egli conservatore, la chiusura della legislatura è stata resa possibile o per autoscioglimento votato dai due terzi dei Comuni, o per approvazione di una mozione di no confidence nei riguardi dell’Esecutivo in carica. Di fronte alla determinazione del Primo ministro di ricorrere a nuove elezioni, questo Atto tuttavia si è rivelato una soluzione parziale, per non dire inefficace, per il problema dell’eccessivo potenziamento della leadership: la quale, in mancanza di una maggioranza qualificata ai Comuni ben potrebbe comandare al proprio parliamentary party di votare la sfiducia: ed era questa esattamente l’intenzione di Theresa May nel caso che i due terzi non si fossero realizzati. Con l’apporto dell’opposizione laburista, che si presenterà alle elezioni in una visibile condizione di indebolimento della sua leadership (“sfiduciato” dal direttivo del partito, Jeremy Corbyn è stato tuttavia riconfermato dalla base), lo scioglimento è stato reso possibile.

È ben chiaro che le prossime elezioni, ormai imminenti, saranno fortemente condizionate dalla questione della Brexit, sotto il doppio profilo della conduzione dei negoziati e del confronto con le effettive posizioni della pubblica opinione, figlia prediletta della società civile, sul recesso dall’Unione. Ma sull’esito di questo appuntamento elettorale da cui la leadership conservatrice si attende un (tutt’altro che scontato) rafforzamento di consenso che dovrebbe consentirle un maggior peso contrattuale con i suoi interlocutori europei, si potrebbe aver modo di dire qualcosa in una prossima nota. Quel che per il momento conviene invece sottolineare è il messaggio che proviene dalle periferie del regno, ovvero da una Scozia e da un’Irlanda del Nord i cui elettorati avevano espresso, nel referendum sulla Brexit, orientamenti nettamente favorevoli all’opzione remain. La reazione delle due aree, entrambe caratterizzate da diverse formule di devolution, si sta esprimendo con accenti decisamente protestatari che vede protagonisti partiti di carattere nazionalista.

In Scozia la First Minister Nicola Sturgeon, a capo dello Scottish National Party, ha già manifestato l’intenzione di indire un nuovo referendum indipendentistico che dia seguito a quello già celebrato nel settembre 2014. Sinceramente filo-europea, la nazione scozzese non accetterebbe volentieri di essere trascinata fuori dall’Unione da un voto euroscettico, preponderante in Inghilterra ma non rispondente a quelli che essa, a torto o a ragione, considera i propri interessi e la propria storica vocazione; tuttavia questo referendum, per evitare che si trasformi in un distruttivo voto anti-sistema di modello catalano, dovrebbe essere indetto entro il biennio delle trattativa sulla Brexit e concordato con il Governo britannico, il quale ben difficilmente autorizzerebbe l’indizione di una consultazione che ne indebolirebbe le posizioni a fronte dei negoziatori europei. La situazione scozzese tuttavia non è così lineare come sarebbe ragionevole attendersi: scegliere l’indipendenza non implicherebbe automaticamente l’ingresso di una Scozia sovrana nell’ Unione europea, visto il diffondersi di perplessità che su tale opzione si sta rendendo sempre più significativa in seno all’elettorato d’oltreconfine (una recente nota dell’Economist rileva che il sorprendente sostegno in chiave sovranista che era stato tributato allo Scottish National Party dopo il referendum del 2014 sta scemando a favore dei partiti sostenitori della Brexit; una ripresa dei Conservatori e l’influenza dell’incognita laburista sono tutt’altro che ipotesi di fantasia in Scozia).

Alquanto più critica sembra che sia l’evoluzione dal caso nord-irlandese, ove si confrontano due nazionalismi di stampo opposto: un nazionalismo separatista guidato dal cattolico Sinn Féin e un nazionalismo unionista sotto l’egida del protestante Ulster Democratic Party, schieramenti di opposti oltranzismo che fino a qualche tempo fa erano alleati in un altrimenti imprevedibile sodalizio di governo che molto aveva contribuito alla pacificazione politica dell’area. I concetti di separatismo-unionismo vanno adeguatamente riformulati in relazione alla Brexit: se il Sinn Féin tradizionalmente si batte per il recesso dal Regno Unito, sulla questione europea si era espresso a favore del remain; l’Ulster Democratic Party, esponente di punta dell’unionismo britannico, sosteneva alquanto coerentemente il separatismo nel campo europeo. Tuttavia questi schieramenti sono oggi concordi nel valutare negativamente il recesso dall’Unione europea, che trasformerà la demarcazione “aperta” con la Repubblica d’Irlanda in un hard border, unico confine via terra con uno Stato membro dell’Unione che, a causa di un esito prevedibilmente sfavorevole dei negoziati ex art.50, renderà disagevoli i movimenti di capitali, forza lavoro, imprese, attività economiche, turismo, ecc., tra la Repubblica e le sei contee dell’Ulster che, da questi legami con la “tigre irlandese” in forte sviluppo economico, aveva tratto più vantaggi che dai rapporti non sempre scorrevoli con la Gran Bretagna. Che ciò sia sufficiente a determinare un orientamento dell’elettorato nord-irlandese favorevole all’unificazione con la Repubblica, che renderebbe l’Ulster automaticamente membro dell’Unione, è tutto da discutere: il neosovranismo cattolico potrebbe nuovamente entrare in contrasto con l’unionismo protestante, e le turbolenze riaccendersi. Ma nel frattempo, la stessa leadership del maggiore partito protestante ha incoraggiato i suoi elettori ad acquisire passaporti della Repubblica, il che è un segnale ambiguo che, a seconda dei punti di vista, può essere incoraggiante o rivelatore di nuovi rischi.

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