Non mentire può convenire alla politica e ai cittadini

Fabrizio Barca, partendo da alcune vicende politiche recenti, commenta l’intervento di Seravalli e Schena sulla crisi dei partiti, pubblicato sui n. 11 e 12 del Menabò. Barca, riproponendo l'idea del partito-palestra e dello sperimentalismo democratico, riconosce che il “governare sperimentando” richiede che il personale politico rispetti la norma del "non mentire” e sostiene che vi sono incentivi perchè questo avvenga; inoltre, spiega l’importanza della partecipazione dei cittadini ispirata anch’essa alla norma – non utopica - del non mentire e del non essere arroganti.

Il 23 novembre 2014 finirà nei libri di scuola come il giorno che ha sancito l’esistenza di una faglia fra cittadini e Stato senza precedenti nella nostra democrazia. Il 38% di votanti nelle elezioni regionali dell’Emilia e Romagna – vicende interne del PD a parte – rivela il grado assoluto di sfiducia dei cittadini nei partiti e nello Stato. Ed è destinato ad aggravare ulteriormente tale distacco per il ristrettissimo numero di cittadini a cui gli eletti dovranno ora rispondere (cfr http://www.lavoce.info/archives/31660/democrazia-partecipazione/). Che poi, nelle stesse giornate, siano maturate le contraddizioni dentro il Movimento 5 Stelle, il più recente e ambizioso tentativo di sostituire alla democrazia rappresentativa dei partiti quella diretta dei cittadini in rete, non ci rallegri. E’ ancora il segno dell’urgenza di costruire una nuova strada.

Mi sono convinto e ho scritto – nella Traversata, per Feltrinelli – che questa “nuova strada” è un partito-palestra che offra a cittadini convinti di avere il dovere e gli strumenti per occuparsi direttamente della cosa pubblica lo spazio per confrontarsi in modo aperto e acceso, e di mescolarsi con cittadini che hanno altri problemi, e origini sociali e appartenenze. Un partito che, sempre rimanendo separato dallo Stato, utilizzi questo confronto per elaborare e battersi per soluzioni di governo dell’azione pubblica e per selezionare classe dirigente preparata e giudicabile dai cittadini già al momento del voto (non cooptati inventati dall’alto).

Per capire se questa soluzione sta in piedi, per imparare a costruirla, ci siamo messi ad applicarla dentro il Partito Democratico, con 1000 volontari, in un esperimento che finirà il 31 marzo 2015, e i cui risultati intermedi abbiamo pubblicamente discusso (http://www.luoghideali.it/). E’ una strada emozionante e umanamente assai ricca. Ma dannatamente difficile. Ecco perché il contributo di Seravalli e Schena (https://eticaeconomia.it/sulla-crisi-dei-partiti-parte-seconda/) è benvenuto. Perché misurarci col metro nientepopodimeno che di Adriano Olivetti, lungi dal farci montare la testa, ci serve per capire meglio i presupposti concettuali di quello che stiamo facendo. E a precisarli. E’ ciò che muove queste righe.

Non discuto dunque l’interpretazione che i nostri danno della proposta con cui Olivetti vuole superare il solco fra cittadini e Stato. La prendo come un dato. Per il confronto. Si tratta di una nuova architettura istituzionale, senza partiti, fondata su “comunità concrete” e capace di esprimere un personale politico di alta qualità. Due sono i tratti che caratterizzano questo personale: la sua “risorsa fondamentale” è il sapere, una conoscenza e una continua capacità di elaborazione culturale che gli danno la capacità di governare, con consenso; la sua “norma di comportamento” è la non-arroganza, il convincimento di “non poter garantire verità pur obbligandosi a cercarla”, una norma sorretta da un “codice morale superiore”, evangelico. Questo richiamo così elevato serve a frenare la deriva autoreferenziale e iper-illumunista – la “perfezione” della ragione che ha prodotto barbarie – che può derivare dall’assunto, coerente con i tempi in cui Olivetti agiva, che il sapere sia concentrato e concentrabile in una ristretta e selezionata classe dirigente.

Con questa lettura in mano i nostri si volgono all’idea del partito-palestra per leggerla con gli stessi metri.

Appare allora evidente che la “risorsa fondamentale” del personale politico che ho in testa nel mio argomentare non è più il sapere, ma il dubbio informato, come ben scrivono i nostri. Non è più vero, se mai lo è stato, in nessuna democrazia, che la classe dirigente politica abbia o possa pretendere di possedere il sapere necessario per governare. Questo sapere è oggi diffuso fra i cittadini: quello per fare funzionare la scuola è disperso fra una moltitudine di insegnanti, di studenti, di imprenditori; lo stesso vale per la mobilità, la cura degli anziani, la regolazione urbanistica, la promozione dell’innovazione, la prevenzione della corruzione, etc. Il personale politico non può certo venire meno al dovere di decidere, pena la fine dello Stato – ma non abbiamo alternative pronte! –, ma le decisioni dovranno essere improntate alla consapevolezza della parzialità del proprio sapere e dunque dovranno consistere in indirizzi la cui attuazione sia affidata a processi di sperimentazione e di apprendimento. In questi processi verrà estratto e messo in uso il sapere diffuso: è lo sperimentalismo democratico di Charles Sabel.

Ma anche qui – ecco dove arriva, forte, la sollecitazione di Seravalli e Schena – c’è bisogno di una norma di comportamento. Perché c’è un rischio. Che il personale politico, selezionato attraverso un partito, pur consapevole dei propri limiti, decida come se sapesse, senza costruire un processo di apprendimento o facendo solo finta di farlo, evocando magari il mantra della “semplificazione”, o addirittura beffandosi del sapere, o alterando le informazioni attraverso la leva della comunicazione. I nostri suggeriscono che contro questi rischi, a garantire che il “governare sperimentando” abbia luogo davvero e sia efficace, la norma che serve è non mentire: “non si potrà falsare il racconto delle esperienze vantando risultati (e meriti) inesistenti, nascondendo difficoltà ed errori”.

Mi piace. Mi convince. Ma se non c’è un “codice morale superiore” di fonte religiosa – come non c’è nel mio pensare – a sorreggere questa norma, cosa mai né assicurerà il rispetto? “Difficile credere – concludono i nostri – che [la garanzia] possa venire dalla forza di persuasione di una proposta per quanto ben scritta e meditata. Molto attraente resta sempre inventare qualcosa che a tutti vada bene e finire per crederci”. Insomma, la strada del partito-palestra potrebbe restare vittima della tentazione di falsificare la sperimentazione. E diventare così una foglia di fico per ogni disegno.

Stiamo alla sfida. Che coglie nel segno. Chi è stato in qualche modo coinvolto nei progetti di Luoghi Idea(li) di questi mesi pensi alla tentazione di camuffare i fatti che sempre ti prende mentre sperimenti. Di raccontarti una storia edulcorata. Di attribuire ad altri la responsabilità dei passi falsi. Eppure, proprio nell’esperienza di Luoghi Idea(li) c’è una prima risposta, empirica, ai dubbi dei nostri. Basta leggersi il materiale con cui a metà esperimento abbiamo narrato il lavoro fatto (http://www.luoghideali.it/meta-strada/) , la durezza dell’autodiagnosi (si pensi al caso torinese che Seravalli conosce), le critiche dei supervisori indipendenti chiamati a dire la loro. E dietro ci sono – faticosamente costruiti, certo – i “diari di bordo” che i singoli luoghi hanno redatto. E la valutazione in corso. Insomma, i fatti ci dicono che si può (con un cammino difficile) fare.

Ma serve di più. Serve una risposta teorica, che dica: beh, allora, qual è l’incentivo a rispettare la norma del non mentire? Al momento, proprio sulla base dell’esperienza fin qui fatta – vedremo cosa ci dirà il nuovo esercizio che ci è stato chiesto su Roma (http://video.repubblica.it/dossier/roma-emergenza-criminalita/pd-orfini-ho-chiesto-a-barca-di-verificare-situazione-circoli-di-roma/186199/185092) – vedo due distinti incentivi, ognuno per una delle due distinte motivazioni che inducono il personale politico a scegliere quella strada di vita.

Per quelli che lo fanno mossi dall’“amore per se stessi” – per dirla chiara – ossia dalla possibilità di migliorare la propria posizione di potere o economica, l’incentivo a non mentire viene, nello schema del partito-palestra, dalla possibilità di apprendere (come condizione per essere selezionati e avere più potere) che deriva solo da un processo sperimentale “vero”, in cui tutti, capendo che si gioca a non mentire, rivelano ciò che sanno e che hanno capito. Per quelli, invece, che “fanno politica” mossi dall’”amore per gli altri”, da “generosità” o “spirito pubblico” scriverebbe Adam Smith – una categoria dimenticata dalla moda politologica che infesta il nostro paese, ma in realtà essenziale e assai diffusa – l’incentivo a non mentire viene dal sapere che per cambiare le cose quel requisito è indispensabile, dal condividere quello come un valore in sé del fare politica.

Un codice morale superiore di fonte religiosa, può aiutare a consolidare questi incentivi. Ma non è necessario. E non è neppure sufficiente, se si pensa alle deviazioni dal “non mentire” che “codici morali superiori” di origine religiosa hanno prodotto e producono nella storia.

Ma affinchè regga lo schema del partito-palestra e dello Stato sperimentalista serve ancora un altro ingrediente. E qui vado oltre i nostri. Infatti, in questo schema un pezzo non piccolo del governo della cosa pubblica è esercitato dai cittadini, proprio attraverso la loro partecipazione ai processi sperimentali, sia dello Stato, sia del partito. E quindi dobbiamo chiederci anche per i “cittadini attivi”, quelli che avvertono il dovere morale di occuparsi della cosa pubblica – il richiamo è a Giovanni Moro http://www.labsus.org/2014/06/cittadinanza-attiva-e-qualita-della-democrazia/ – ma che in generale non fanno parte di un partito, quale sia la risorsa fondamentale e quale la norma di comportamento.

La risorsa fondamentale dei cittadini attivi è chiaramente il loro sapere contestualizzato, ciò che consente loro di partecipare all’azione pubblica, di accompagnarla, di svolgere un ruolo di stewardship – come lo definiscono alcuni https://edgeryders.eu/en/why-we-care-about-stewardship -.

Quanto alla norma di comportamento, essa deve tutelare dal rischio che la loro “competenza morale” – come la chiama Moro – li induca a “farsi giustizia da soli”, a prescindere dal contratto sociale che li lega, oltre la propria comunità, all’intera comunità nazionale e internazionale, e che chiede loro di tenere conto delle preferenze di tutti gli altri in quel modo mediato che è la democrazia rappresentativa. Altrimenti non esisterà alcun freno, se, ad esempio, la sicurezza di un quartiere è messa a repentaglio dal formare “squadre di vigilantes” che pattuglino le strade. Bene, credo che questa norma sia a un tempo non essere arrogante e non mentire. Non essere arrogante, significa qui ricordarsi che il sapere che si possiede è parziale e contestualizzato, significa mettersi in testa di non avere sufficiente sapere per fare da soli. Non mentire, vuol dire accettare di partecipare al processo deliberativo e sperimentale senza manipolare le informazioni.

E quale mai può essere l’incentivo dei cittadini attivi a rispettare queste due norme comportamentali? Qui mi pare che il cerchio del ragionamento si chiuda. L’incentivo potrà venire solo dal convincimento che rispettando quelle norme essi vedranno migliorare la propria qualità di vita. Riconoscendo i limiti delle proprie conoscenze e delle proprie preferenze e partecipando in modo leale al confronto che un partito-palestra sappia suscitare, essi devono vedere che “qualcosa di utile succede”, e convincersi che le decisioni assunte, anche se non rispondenti al proprio unico interesse, alla soluzione da essi prospettata, rappresentano l’esito bilanciato ed equo del confronto avvenuto. E non mi si dica – davvero non mi si dica – che questa è “utopia”. E’ esattamente quello che a tutti noi è successo ogni volta che ci siamo convinti che il processo che ha condotto alle decisioni era inclusivo, teneva conto delle informazioni disponibili e soppesava con ragionevolezza interessi diversi. Difficile ma non impossibile, come altrove Seravalli ha scritto. E soprattutto, nell’Italia del 38% non abbiamo alternative.

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