Nelle pieghe del Jobs Act: sgravi fiscali, occupazione e oneri per il bilancio pubblico

Fabrizio Patriarca e Michele Raitano illustrano la norma che ha introdotto gli sgravi contributivi per le imprese che assumono con contratti a tempo indeterminato e ne valutano gli effetti sia sulle convenienze delle imprese a sostituire contratti atipici con contratti a tutele crescenti sia sul bilancio pubblico. Le loro conclusioni sono che per parte dei lavoratori il miglioramento della forma contrattuale potrebbe rivelarsi di breve periodo e che la creazione di nuova occupazione potrebbe essere molto onerosa per il bilancio pubblico.

Dai dati sulla comunicazioni obbligatorie, raccolti dal Ministero del Lavoro, risulta che tra gennaio e febbraio sono stati attivati 79.000 nuovi contratti a tempo indeterminato, con una crescita di oltre il 30% rispetto ai primi due mesi del 2014. La stampa ha dato grande risalto a questa notizia, la cui interpretazione prevalente è stata che questi dati segnalino la ripresa dell’occupazione in forma stabile e ciò sia dovuto al Jobs Act. Entrambe queste deduzioni sono poco fondate. Infatti, per parlare di ripresa dell’occupazione occorrerebbe conoscere anche i dati, finora non noti, sulle cessazioni dei contratti in essere. Inoltre, la crescita dei contratti si riferisce al bimestre precedente l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti (avvenuta il 7 marzo scorso) e riguardano, presumibilmente, le piccole imprese, che sono le meno interessate alle modifiche del Jobs Act.

Per spiegare quei dati occorre perciò guardare altrove e principalmente in direzione degli esoneri contributivi introdotti dalla Legge di Stabilità per il 2015 a vantaggio delle imprese che assumono a tempo indeterminato. Tali esoneri sono attivi dal 1° gennaio e presumibilmente i loro effetti si intensificheranno nei prossimi mesi quando le imprese potranno assumere con la nuova forma contrattuale.

Gli sgravi consistono in un’esenzione dal versamento del totale degli oneri contributivi a carico del datore (eccetto quelli verso l’INAIL) e si applicano, per i primi 36 mesi di attività, a tutti i nuovi contratti a tempo indeterminato stipulati nel corso del 2015. Gli oneri del datore di lavoro vengono fiscalizzati; il mancato pagamento non comporta una riduzione delle coperture di welfare per il lavoratore, ma per il triennio in esame il pagamento dei contributi va a carico della fiscalità generale. I lavoratori non ricevono alcun vantaggio in busta paga, dato che i contributi a loro carico non sono stati ridotti.

Il valore degli sgravi è pari a circa il 31% della retribuzione lorda, fino a uno sgravio annuo massimo di 8.060 Euro. La fiscalizzazione degli oneri contributivi è pertanto completa fino a 26.000 Euro di retribuzione, mentre per importi maggiori l’impresa dovrà versare la contribuzione sulla retribuzione eccedente.

La norma esclude dalla possibilità di usufruire degli sgravi contributivi agricoltori, apprendisti e lavoratori domestici. Come unico vincolo, l’esonero non è applicabile in caso di nuova assunzione di chi nei 6 mesi precedenti aveva già goduto di un contratto a tempo indeterminato. Non sono previsti altri vincoli alla concessione degli sgravi; pertanto, l’impresa può usufruirne quando sostituisce un contratto a termine con uno a tempo indeterminato senza aumentare il numero di dipendenti. Inoltre, non è prevista alcuna condizionalità: se al termine (o durante) il periodo di sgravio il lavoratore fosse licenziato, l’impresa non dovrebbe restituire alcunché. Infine, l’entità dello sgravio è indipendente dalla dimensione dell’impresa, quindi ne beneficiano, e nella stessa misura, anche le imprese con non più di 15 dipendenti, che però pagheranno indennizzi molto più bassi in caso di licenziamenti senza giusta causa.

L’incentivo consiste, dunque, in un sostegno finanziario alle imprese di durata triennale, di entità proporzionale ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati nel 2015. Secondo il Governo, gli sgravi (e le associate riduzioni della base imponibile IRAP del costo del lavoro sui dipendenti a tempo indeterminato) dovrebbero contribuire a realizzare due obiettivi: ridurre il costo del lavoro e, dunque, sostenere i profitti e stimolare nuovi investimenti e occupazione; favorire la sostituzione di contratti atipici con contratti a tempo indeterminato (anche se nella versione light delle tutele crescenti). Dalla maggiore stabilità delle relazioni contrattuali si attendono anche effetti positivi sulla domanda di consumo. Il calcolo di questi impatti macroeconomici richiede un complesso modello di analisi. E’, però, anche interessante un calcolo più semplice: la stima degli effetti che gli sgravi avranno sia sulla convenienza a assumere con l’una o l’altra forma contrattuale, sia sul bilancio pubblico.

A questo fine, la tabella 1 riporta il confronto tra sgravi e costi di licenziamento in assenza di giusta causa nei tre anni successivi alla stipula del contratto a tutele crescenti, distinguendo le imprese con più di 15 dipendenti dalle altre in modo da tenere conto della diversa entità degli indennizzi giudiziali o extra-giudiziali. Si prende a riferimento un lavoratore con retribuzione annua lorda di 26.000 Euro (se consideriamo lavoratori con retribuzioni superiori i risultati cambiano di grandezza ma non di segno). Le ultime due colonne riportano, rispettivamente, la differenza (cumulata al termine dei vari anni) tra i minori oneri contributivi versati e il costo per l’indennizzo giudiziale ed extra-giudiziale. Il risparmio contributivo eccede sempre l’indennizzo giudiziale e, a maggior ragione, quello extra-giudiziale; per le imprese di piccola dimensione, il saldo netto si amplia sensibilmente.

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Questi risultati permettono di valutare le convenienze per l’impresa a trasformare un contratto dipendente a termine in uno a tutele crescenti. Un modo efficace per comparare l’andamento di sgravi e eventuali indennità di licenziamento nel corso del periodo di lavoro consiste nell’esprimere entrambi in termini di retribuzioni mensili lorde. La figura 1 mostra (in termini di mensilità di retribuzione lorda, in ordinata) l’andamento nei primi 18 mesi (in ascissa) del saldo fra sgravio e indennizzo in caso di conciliazione extra-giudiziale (quella che sarà, in tutta probabilità, seguita dalle parti in caso di controversia), per imprese di dimensione superiore o inferiore alla soglia dei 15 dipendenti (nel confronto abbiamo tenuto conto dell’incremento dell’IRES in caso di trasformazione contrattuale, dato che i contributi fiscalizzati non sono più deducibili dal costo del lavoro, e della maggiorazione dell’1,4% dell’aliquota contributiva vigente sui contratti a termine).

Il saldo diventa positivo in corrispondenza della durata del rapporto di lavoro che rende conveniente assumere a tutele crescenti anziché a termine. Per contratti con retribuzioni che danno diritto allo sgravio completo il saldo tra sgravio netto e indennizzo diventa positivo al quarto mese per le imprese con non più di 15 dipendenti e all’ottavo mese per quelle con più di 15 dipendenti (diventerebbe il decimo in caso di retribuzione lorda annua di 35.000 Euro; linea rossa in figura 1).

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Pertanto, in seguito agli sgravi nel 2015 (l’unico anno in cui se ne può godere) alle imprese, in assenza di altre motivazioni, converrebbe sostituire con contratti a tutele crescenti i contratti a termine di durata superiore agli 8-10 mesi e, nel caso di piccole imprese, i contratti di durata di almeno 4 mesi. Con riferimento ai contratti di collaborazione – e in base a ipotesi plausibili – una simile convenienza – nonostante i minori oneri previdenziali e come TFR di questi contratti – si avrebbe per una relazione lavorativa di durata prevista superiore ai 10 mesi (nel caso di grandi imprese) o di 5 mesi (piccole imprese).

Per valutare l’impatto sul bilancio pubblico degli sgravi, in termini di minori entrate contributive, occorre stimare i contratti che verranno stipulato nel corso del 2015, tenendo conto di alcuni fattori quali: il numero di contratti a tempo indeterminato normalmente stipulati ogni anno; il numero di contratti a tempo determinato e parasubordinati di durata complessiva sufficiente a rendere conveniente la trasformazione in contratto a tutele crescenti; il numero eventuale di “nuove assunzioni” indotto dalla presenza degli sgravi.

Sulla base di un campione longitudinale di lavoratori dipendenti abbiamo replicato la normativa introdotta dalla Legge di Stabilità, misurando il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato (escludendo domestici, agricoli e apprendisti) che viene mediamente stipulato anno per anno a lavoratori che non hanno avuto un rapporto a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti. Avendo a disposizione anche la retribuzione annua di tali contratti possiamo calcolare con precisione l’incentivo che sarebbe pagato per ognuno di questi contratti.

Coerentemente con quanto riportato dalla RGS nella relazione di accompagnamento della Legge di Stabilità, si verifica che ogni anno sono stipulati circa 700.000 contratti a tempo indeterminato che potrebbero usufruire degli sgravi. Poiché la norma sugli incentivi contributivi si applica ai soli contratti stipulati nel 2015 è presumibile che il numero di contratti del 2015 risenta di un effetto “rigonfiamento” rappresentato dai contratti a tempo indeterminato che sarebbero stati stipulati negli ultimi mesi del 2014 o ad inizio del 2016. E’ dunque plausibile ipotizzare almeno 800.000 contratti. In aggiunta, al termine di ogni anno si registrano circa 400.000 contratti a tempo determinato ancora in essere e di durata precedente almeno semestrale e circa 200.000 contratti da collaboratore mono-committente di analoga durata; come si è detto, è presumibile che questi contratti vengano convertiti in contratti a tutele crescenti.

La tabella 2 riassume le simulazioni basate sulle retribuzioni osservate. Senza considerare l’eventuale crescita occupazionale netta, l’impatto “di competenza” per il bilancio pubblico in termini di minori entrate – anche incorporando le maggiori entrate IRES – per ogni anno di concessione dello sgravio sarebbe pari a circa 6,1 miliardi di Euro, che scenderebbe a 5,37 escludendo le conversioni di contratti di collaborazione. Assumendo che la misura riesca a produrre un boom occupazionale di 200.000 unità, i maggiori oneri per la finanza pubblica ammonterebbero a poco meno di 7 miliardi di Euro (ma gli oneri legati alla nuova occupazione verrebbero compensati via maggiore IRPEF e contributi).

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Nella valutazione di questi importi si deve però distinguere l’origine dei contratti per i quali si usufruirebbe degli sgravi; infatti, se si trattasse di contratti a tempo indeterminato che sarebbero stati comunque attivati, il bilancio pubblico subirebbe una perdita netta non compensata da alcun beneficio. Viceversa, nel caso di trasformazione di contratti atipici, vi sarebbero, come benefici, la maggiore stabilità della relazione contrattuale e le maggiori tutele di welfare in caso di trasformazione di collaborazioni. Tuttavia, come mostrato, nel caso dei contratti a tutele crescenti (e a tempo indeterminato pre Jobs Act nelle imprese con al più 15 dipendenti) per una parte dei lavoratori la stabilità potrebbe essere effimera perché alle imprese potrebbe convenire assumere con sgravi e licenziare durante o al termine del triennio.

Agli oneri per il bilancio pubblico corrisponderebbe un sicuro miglioramento per i lavoratori e, via effetti macroeconomici, per la collettività se la concessione degli sgravi contribuisse a realizzare nuova occupazione. In tale ottica è interessante stimare il rapporto tra il costo sul bilancio pubblico della misura e l’aumento occupazionale. Assumendo che la retroazione fiscale compensi interamente la nuova occupazione, in base alle nostre ipotesi nel bilancio pubblico sarebbero fiscalizzati 6 miliardi di Euro per creare 200.000 posti di lavoro aggiuntivi; pertanto ogni nuovo posto di lavoro costerebbe 30.000 Euro annui, più della retribuzione lorda di un lavoratore della P.A. ad inizio carriera. Il rapporto fra il costo per il bilancio pubblico e l’efficacia della misura in termini di nuova occupazione potrebbe, dunque, rivelarsi molto alto.

 

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