Migranti

Andrea Segre partendo dalla sua esperienza di regista che si è molto occupato di migrazioni propone alcune riflessioni sul fenomeno, che ritiene dovrebbero essere di interesse per gli studiosi di questioni economiche e sociali. In particolare, Segre si chiede, da un lato, se non sarebbe stato più conveniente, da un punto di vista economico, utilizzare diversamente – magari realizzando anche un risparmio – le risorse destinate al sistema securitario costruito negli ultimi 15 anni e, dall’altro, quanto contino, nei calcoli costi-benefici, la volontà e le preferenze dei migranti.

Sono un regista, mi occupo di migrazioni. In queste brevi note vorrei sottoporre all’attenzione di chi ha strumenti di analisi che non rientrano nelle mie competenze alcune riflessioni nate dalla mia osservazione di questo fenomeno. Spero risultino interessanti.   

Da oltre quindici anni, ormai quasi venti, finisco spesso per incrociare le vite di migranti e così da qualche tempo inizia a capitarmi di incrociare nuovamente, anche anni dopo, qualcuna di quelle vite. Nelle ultime settimane ho ad esempio incontrato per caso due dei protagonisti de “Il Sangue Verde”, il documentario con cui raccontai gli eventi di Rosarno del gennaio 2010. Si chiamano Jamadou e Abraham.

Tutti e due, nel 2010, rispettavano le condizioni classiche del bracciante sfruttato a Rosarno: 1. arrivato a Lampedusa, 2. Richiesta d’asilo a Crotone, 3. Diniego della richiesta, clandestinità in attesa di ricorso, 4. Sfruttamento nelle campagne. Questa era la loro condizione e la loro vita era consegnata al limbo tra la loro volontà di andare avanti nel progetto migratorio e la supposta volontà dello Stato italiano e del sistema Schengen di rispedirli indietro.

Tutti e due puntavano di base su una realtà statisticamente comprovata: il sistema Schengen è in grado di espellere e rispedire indietro non più del 7-8% dei cosiddetti migranti illegali. Cadere in quel 7-8% era davvero una grande sfortuna, caderci provenendo da Costa d’Avorio e Burkina Faso ancora più improbabile, non essendoci accordi bilaterali stabili tra quei paesi e l’Italia o tantomeno l’Europa. Quindi a Jamadou e Abraham rimaneva sostanzialmente una sola ipotesi percorribile e sensata: aspettare finché l’evidenza e il tempo non fossero stati capaci di consegnare loro un qualche documento.

Così è stato: entrambi hanno avuto i documenti circa due anni dopo il nostro incontro, hanno cercato un lavoro normale, l’hanno trovato nei settori più pesanti dell’economia nazionale (contadino e magazziniere) ed oggi possono portare avanti con regolarità il loro progetto migratorio, che di base  da sempre consiste nel faticare qui per far star meglio lì.  Di fronte a questa storia, che può essere replicata migliaia di volte in migliaia di città e paesi diversi, la reazione dell’europeo medio è: “dobbiamo aumentare la capacità di espellere, perché il 7-8% è troppo poco.” Una reazione che è saldamente intrecciata alla nostra razionalità occidentale, soprattutto a quella anglo-sassone: “se divento più forte ne caccio o ne fermo di più e ne verranno di meno”. Nessuno ha mai messo in dubbio questo sillogismo e tutti l’hanno sfruttato come base della costruzione del sistema  odierno, nonché del suo fallimento. Ci sono due modi per smontare questo sillogismo: uno spetta forse a chi fa il mio mestiere e l’altro forse a chi fa il mestiere dell’economista o dello scienziato sociale.

Il mio modo è di dare la parola ad Abraham, Jamadou e tutti gli altri. Loro dicono una cosa molto semplice: “Se potevo venire regolarmente vi sarei costato molto meno, non avrei alimentato economia nera e avrei iniziato a dare il mio contributo alla vostra economia sin da prima. E per altro, se posso ricordarvelo, non avrei rischiato la vita”. Un interrogativo del genere ne solleva immediatamente altri. Qualcuno ha provato a calcolare quanto è costato il sistema securitario costruito negli ultimi quindici anni? Perché se proviamo  a dare qualche cifra, forse diventa più facile capire che la razionalità “mandiamone via o fermiamone di più e ne arriveranno di meno” ha una traduzione in termini economici che non aiuta affatto la sua funzionalità.
Lo spazio per aprire questa riflessione ora è molto grande, anche troppo, visto che anche sulla free press da metropolitana si discute se sia giusto o meno dare 3 miliardi alla Turchia…”anzi forse 6. Tu l’hai capito quanto? Ma chi glieli dà? E che ne fanno?”

E’ una curiosità che muove ovviamente da una preoccupazione egoistica, ma esiste.
Proviamo a usarla per fare il conto di quanti euro sono stati spesi fin qui. Perché quando Abraham e Jamadou arrivavano i numeri erano ben altri da quelli di oggi e lo spazio per provare a gestire per tempo un fenomeno inevitabile esisteva. Invece si è preferito lavorare sulla militarizzazione delle frontiere (per respingere o salvare, ma comunque con logiche militari), sulle misure di detenzione, di espulsione e sugli accordi con i paesi terzi. Accordi che pesano e costano sempre di più, come la Turchia conferma.

E già che siamo in argomento, qualcuno ha mai provato a calcolare il valore della volontà? Quale ruolo hanno il desiderio, la scelta, la pulsione di ogni individuo a cercare una strada per migliorare la propria vita?

Faccio questa domanda perché sono convinto che l’errore di fondo della strategia adottata fin qui sia stato quello di considerare la migrazione come un’azione coatta e disperata. Come una direzione priva di scelte. La ragazza italiana che sceglie di studiare o di lavorare all’estero, il pensionato inglese che decide di trasferirsi nel Sud della Spagna, il semplice turista sono individui che scelgono liberamente di spostarsi tenendo conto dei vantaggi e dei costi di questa decisione. Il migrante illegale invece è considerato privo di individualità. Non si interagisce con lui in termini di domanda-offerta, ma di carità o sfruttamento, una sorta di dinamica bizzarra in cui domanda e offerta sono determinati da un solo componente dello scambio. Una sorta di dinamica antieconomica di offerta-offerta.

Nella mia esperienza ho ascoltato decine di desideri e progetti tra i migranti anche nelle situazioni più dure e drammatiche. La storia più utile in questi caso è probabilmente quella di Ibrahim, un quarantenne siriano e ateo che ho incontrato al confine tra Grecia e Macedonia, a Idomeni, uno dei luoghi simbolo dell’emergenza di oggi. Ibrahim aveva dovuto vendere la sua terra per scappare da Assad e dai fondamentalisti islamici e aveva messo i suoi risparmi in una banca svizzera con sede a Beirut, che gli corrisponde una rendita mensile di 800 euro. Con quei soldi voleva costruire una vita in una città del sud d’Europa, sul mare, vicino al Mediterraneo. Ma una volta arrivato in Turchia gli hanno detto che era un profugo e che doveva andare con gli altri, prima in barca, poi in autobus, poi in treno, pagando e rischiando fino alla Germania o all’Austria. Non esistevano altre strade, altre offerte alla sua domanda. Per questo l’ho incontrato a Idomeni, dentro a un tendone umanitario bianco, seduto per terra, con una ciotola di riso in mano e il suo zaino sulle spalle. Come tutti i profughi devono fare. La volontà e i progetti di Ibrahim dovrebbero poter avere uno spazio di ascolto e ancor di più dovrebbero averlo quelli di migliaia di migranti economici. Ma non abbiamo quasi alcuno strumento per farlo. Non abbiamo costruito occasioni e opportunità per poterlo fare. Siamo consegnati alla distanza e all’impersonalità. Non so se esiste un modo per tradurre ciò in calcolo economico, ma mi piacerebbe ad esempio poter provare a capire quante economie positive e propositive consegniamo in questo modo a circuiti viziosi e spesso criminogeni, che non producono ovviamente alcun cambiamento positivo, ma confermano lo stato delle cose producendo grandi guadagni per pochi. Non parlo solo dei trafficanti o degli smugglers, ma anche di tutte quelle realtà di pseudo-accoglienza o assistenza in cui l’assenza di spazi per le volontà e i desideri dei “beneficiari” impediscono la nascita di sinergie nuove tra chi accoglie e chi è accolto.

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