L’universalismo: l’araba fenice dello stato sociale italiano?

Elena Granaglia ricostruisce alcune delle principali misure di politica sociale varate nel corso della XVII legislatura e mostra come esse continuino a essere afflitte da uno storico limite del nostro stato sociale: la categorialità – cioè la scelta di circoscrivere l’accesso a determinate prestazioni a un sotto-gruppo di soggetti identificati sulla base di variabili diverse dal solo bisogno - che genera iniquità orizzontali e verticali. Granaglia sostiene che occorre imboccare finalmente la strada di un universalismo ben disegnato.

In questo articolo vorrei portare l’attenzione su due aree di intervento sociale in cui la XVII legislatura è stata particolarmente attiva, le politiche per la famiglia e quelle di sostegno al secondo welfare, ovvero al variegato mondo delle associazioni, enti non a scopo di lucro e imprese private per il profitto che erogano prestazioni di welfare in aggiunta a quelle assicurate dal settore pubblico. Vorrei sostenere che tali interventi, nel loro complesso, acuiscono un limite storico del nostro stato sociale: una categorialità che è fonte d’iniquità orizzontali. Per categorialità, intendo, in termini generali, la scelta di circoscrivere l’accesso a determinate prestazioni a un sotto-gruppo di soggetti identificati sulla base di variabili diverse dal solo bisogno. Le iniquità orizzontali, invece, riguardano differenze nel trattamento fra soggetti in condizioni simili di bisogno. Non solo, le categorie scelte neppure coincidono in molte istanze con chi sta peggio, con la conseguenza ulteriore della creazione di iniquità verticali fra i più e i meno avvantaggiati.

Incominciamo dalle politiche per la famiglia. Quattro sono gli interventi principali effettuati e ancora in vigore. Vi è il Bonus Mamma domani, 800 euro erogati in unica soluzione nel periodo compreso fra gli ultimi mesi della gravidanza e il primo anno di vita del figlio. Vi è il Bonus Asili Nido, di durata triennale, 1000 euro annui, erogati in undici mensilità, volto a sussidiare l’iscrizione ad asili nido pubblici o privati (o sostegno a casa per i bambini sotto i tre anni d’età affetti da gravi patologie). Vi è la proroga del Bonus Infanzia (introdotto in via sperimentale nel 2012) a favore delle madri lavoratrici che rientrano al lavoro dopo i cinque mesi di congedo obbligatorio. Il bonus ammonta a 600 euro mensili e può essere speso per pagare l’asilo nido (pubblico o accreditato) o la baby sitter. La durata è sei mesi per le dipendenti e tre per le lavoratrici autonome. Vi è poi il Bonus Bebè. Mentre gli interventi appena ricordati non sono basati sulla prova dei mezzi, il Bonus Bebè è accessibile solo alle famiglie con ISEE non superiore a 25.000 euro e con bimbi in età non superiore a tre anni. Per chi ha un ISEE fino a 7000 euro l’importo è 160 euro al mese, che scende a 80 euro per chi ha un ISEE compreso fra 7.000 e 25.000.

Tutte queste misure sono circoscritte ai figli sotto i tre anni. Certo, tutti passiamo per i primi tre anni di vita: dunque, misure apparentemente categoriali potrebbero non esserlo nell’arco di vita. Inoltre, si potrebbe sostenere un maggiore costo dei figli più piccoli. Se così, dare di più alle famiglie con figli piccoli non generebbe iniquità orizzontali rispetto al complesso delle famiglie con figli, le prime essendo in condizioni di maggiore bisogno. Il punto, oltre alla necessità di evidenze empiriche sul maggiore costo dei figli nei primi anni di vita, concerne lo status quo. Oggi in Italia, chi ha figli in età superiore ai tre anni, è incapiente o non è lavoratore dipendente non fruisce di alcun aiuto per i figli più grandi, non potendo accedere né alle detrazioni per carichi familiari (i limiti di reddito per essere a carico sono anche stati recentemente aumentati, equivalendo a 4000 euro a partire dal 2019), né all’assegno al nucleo (da cui sono esclusi i lavoratori autonomi). Concentrare le risorse sulle famiglie con figli sotto i tre anni comporta allora una categorialità che diviene fonte d’iniquità orizzontali. Alcune famiglie traggono un doppio beneficio fino a tre anni di età dei figli (le misure a favore dei figli piccoli si sommano a quelle esistenti in generale per i figli) e un beneficio quando i figli superano i tre anni, mentre altre nelle stesse condizioni familiari hanno rispettivamente uno e nessun beneficio. Il Bonus infanzia discrimina, poi, sulla base dello status lavorativo della madre. È limitato alle donne che erano già lavoratrici prima di diventare mamma e, fra le lavoratrici, le dipendenti hanno un trattamento migliore delle autonome. I limitati stanziamenti implicano poi il rischio di una selezione a favore di chi prima arriva.

Si aggiungono, inoltre, i rischi d’iniquità verticali, nonostante la capacità dei bonus di evitare il problema dell’incapienza. Un sostegno di 1000 euro per il pagamento delle rette dell’asilo nido aiuta chi ha le risorse per pagare la parte residuale delle rette. Può, tuttavia, essere del tutto inutile per chi non è in grado di farlo (sulla stratificazione sociale dei rischi con riferimento agli asili nodo, cfr. ad esempio, Pintelon et al. 2013 of Social Risks: The Relevance of Class for Social Investment Strategies, in «Journal of European Social Policy», 23, 1, pp. 52–67).

Passando alle politiche di sostegno al secondo welfare, l’ultima legislatura ha previsto la detassazione totale delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti del settore privato imputabili a guadagni di produttività e destinate all’acquisto di servizi di welfare anch’essi privati (sanità, asili nido, altri sostegni ai figli, sostegni alla non auto-sufficienza…). Ne possono fruire i lavoratori con redditi non superiori a 80.000 euro e gli importi detassati possono raggiungere i 3500 euro annui (incrementati a 4000 qualora vi sia il coinvolgimento paritetico dei sindacati). Sono state, poi, aumentate le agevolazioni per le donazioni agli enti del terzo settore (la detrazione è passata dal 26% al 30%), mentre alle fondazioni bancarie è stato concesso un credito d’imposta pari al 65% per i finanziamenti effettuati a favore degli Enti del terzo settore, oltre che delle Regioni ed Enti locali, per interventi di contrasto alla povertà e al disagio sociale. Il credito sale a 75% per i finanziamenti a favore del Fondo contro la Povertà educativa. È stata poi creata una Fondazione di diritto privato, Fondazione Italia sociale, con una dotazione di 1 milione di euro di capitale pubblico, la cui finalità è sostenere progetti innovativi da parte del terzo settore rivolti alle persone e ai territori più svantaggiati.

Le iniquità orizzontali connesse alla categorialità della detassazione dei premi di produttività, appaiono evidenti. La detassazione beneficia una parte dei lavoratori, i dipendenti d’imprese in grado di offrire welfare aziendale, a discapito dei lavoratori dipendenti che non hanno un welfare aziendale (ovvero, tendenzialmente, gli addetti delle piccole imprese), dei lavoratori non dipendenti e dei disoccupati/non occupati. In altri termini, ciò significa concedere a alcuni dei nostri concittadini di avere più servizi di welfare di cui tutti potremmo avere bisogno, scaricandone parte del costo su chi non li riceve (nella forma della riduzione del gettito fiscale). Questi ultimi, peraltro, potrebbero anche essere penalizzati dal peggioramento della qualità dei servizi che restano pubblici (date sia l’uscita di parte di alcuni sia la perdita di gettito). La categoria prescelta, i lavoratori dipendenti d’imprese che hanno premi di produttività, e la forma dell’agevolazione, che contempla un risparmio fiscale pari all’aliquota marginale, rappresentano poi due elementi che vanno nella direzione della creazione anche di iniquità verticali, dato che favoriscono relativamente di più i lavoratori con più alta retribuzione.

Naturalmente, già prima di queste misure esistevano agevolazioni al welfare aziendale. Reiterare un comportamento passato non contribuisce, tuttavia, all’equità,

Più complessa è la questione delle agevolazioni ai trasferimenti al terzo settore da parte di privati e fondazioni bancarie. La categorialità e i rischi di iniquità orizzontali sono indiscutibili: i trasferimenti aiutano inevitabilmente un sotto-gruppo di soggetti. Al contempo, però, questi soggetti potrebbero essere trascurati dall’intervento pubblico e l’intervento del secondo welfare potrebbe, allora, rimediare a iniquità orizzontali oltre a produrre guadagni complessivi di benessere per chi sta peggio. Dirimente è, di nuovo, lo status quo. Se le agevolazioni avessero una funzione residuale, data la presenza di un’infrastruttura generale di sostegno nei confronti di chi sta peggio, allora eventuali disuguaglianze potrebbero essere accettabili. Così, però, oggi non è in Italia. In questa situazione invocare una funzione sussidiaria non problematica del secondo welfare, (come peraltro spesso fatto) è, al meglio, mera retorica.

L’urgenza, dunque, dovrebbe essere la costruzione di un’infrastruttura universale di welfare. L’universalismo è spesso svilito nella discussione pubblica, come se esso coincidesse con il dare le stesse risorse a tutti, nella sottovalutazione delle differenze fra soggetti. L’essenza dell’universalismo, invece, risiede nell’importanza di assicurare a tutti i soggetti alcune “condizioni” fondamentali, esattamente in linea con la natura dei diritti fondamentali che o sono di tutti, a prescindere dalle diverse categorie cui possiamo appartenere, o sono violati. Proprio perché gli individui sono diversi, assicurare le medesime condizioni, ad esempio la soddisfazione dei medesimi bisogni fondamentali, richiede di tenere conto delle differenze. Considerando uno dei pochi ambiti del nostro stato sociale, il servizio sanitario nazionale dà forse l’insulina ai non diabetici?

Come sopra adombrato, una volta attuata una base universale, anche una qualche categorialità potrebbe essere accettabile, contribuisca essa a segnalare dimensioni peculiari di bisogno (targeting within universalism) o a produrre vantaggi complessivi per chi sta peggio.

Tornando alle politiche sociali qui considerate, l’urgenza dovrebbe allora essere la realizzazione di una rete universale di sostegno al costo dei figli a prescindere dallo status lavorativo dei genitori e dell’età dei figli. Similmente, va costruita una rete universale di servizi sociali, limitando le agevolazioni al welfare aziendale ai casi di comprovato miglioramento per l’accesso al welfare da parte di tutti. Ad esempio, asili nido aziendali aperti alla collettività, lungi dal pregiudicare le prestazioni oggetto dei diritti di cittadinanza, potrebbero rappresentarne un’integrazione. Agevolazioni limitate potrebbero essere mantenute a favore dei privati e delle fondazioni bancarie che investono in attività di contrasto alla povertà. La priorità dovrebbe tuttavia essere quella del coinvolgimento del terzo settore dentro il primo welfare a stampo universale.

Se consideriamo la dimensione di political economy, le speranze di realizzare una siffatta strategia non sono alte. La categorialità favorisce interessi concentrati e comporta costi diffusi, una miscela che congiura a favore della sua estensione o, quantomeno, della persistenza delle forme oggi realizzate. Se consideriamo l’equità, l’universalismo è esattamente il linguaggio dell’equità, del noi, o nei termini di Veca, dell’individuo-chiunque che tutti potremmo essere. Un interessante corollario è che l’universalismo aiuta anche a costruire appartenenza alla comune collettività, imponendo di valutare le nostre pretese rispetto agli altri che potremmo essere anziché unicamente ai nostri personali interessi. Un contributo non da poco nel contesto di frammentazione sociale e politica attuale.

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