Luci e ombre del Jobs Act. Tra manovra congiunturale e politica strutturale

Giuseppe Croce si sofferma sul contratto a tutele crescenti e sull’indennizzo monetario in caso di licenziamento. A suo parere, grazie soprattutto al bonus contributivo sulle nuove assunzioni, l’effetto congiunturale sull’occupazione potrà essere positivo mentre appare molto debole l’atteso effetto strutturale. Croce teme poi che il nuovo contratto possa portare all’espulsione di lavoratori anziani e sottolinea, anche in questa prospettiva, l’importanza della formazione continua

Flessibilità “al margine” al capolinea. Con il Jobs Act la regolamentazione dei rapporti di lavoro esce dal solco delle riforme degli ultimi venti anni e cambia direzione. Il governo prende atto che le liberalizzazioni dei rapporti di lavoro del recente passato hanno finito per creare una sottoccupazione precaria e senza sufficienti sbocchi nella buona occupazione e mette la parola fine alla cosiddetta flessibilità “al margine”. Finisce la stagione della proliferazione di rapporti variamente flessibili accanto al vecchio contratto standard a tempo indeterminato. Con il decreto legge 23 del 4 marzo scorso, l’indennizzo monetario, modulato in funzione dell’anzianità di servizio del dipendente e della dimensione aziendale (da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità per le imprese sopra i 15 dipendenti), sarà d’ora in poi la regola nei casi di licenziamento illegittimo (la reintegra continua a essere prevista nei casi di licenziamento discriminatorio o di insussistenza del fatto). Nelle intenzioni del governo il nuovo contratto a tutele crescenti rimette al centro il rapporto a tempo indeterminato facendone il veicolo col quale si punta a superare il dualismo e a bilanciare flessibilità e sicurezza in modo rispondente alle esigenze della fase economica presente.

Un’energica manovra congiunturale. Il contratto a tutele crescenti arriva insieme all’incentivo introdotto dalla legge di stabilità per il 2015 che prevede un consistente sgravio contributivo (fino al limite di 8.060 euro annui) per i primi tre anni di impiego a tempo indeterminato. I due provvedimenti non possono che essere considerati congiuntamente, sia in riferimento all’obiettivo strutturale di riduzione del dualismo sia per quanto riguarda i loro effetti sulle dinamiche congiunturali.
Nell’immediato la loro combinazione configura un’energica manovra straordinaria di natura congiunturale. Stando agli indicatori economici, a inizio 2015 la ripresa dell’attività economica in Italia sembra ormai prossima ma sarà di tenore ancora debole e perciò non potrà che avere solo modeste ricadute occupazionali; infatti, le imprese in prima battuta riassorbiranno il lavoro ancora parcheggiato in cassa integrazione o in part-time.
Nella media del 2014 l’occupazione complessiva è aumentata di 88mila unità su base annua. Questo lieve incremento è il saldo tra quasi 400mila occupati in più di età superiore ai 50 anni e 310mila occupati in meno di età compresa tra i 15 e 49 anni. L’occupazione aggiuntiva è quasi interamente concentrata nel lavoro a termine (+79mila) con un contributo solo residuale di quella a tempo indeterminato (+18mila) e un lieve calo di quella indipendente (-9mila).
Se la ripresa si materializzerà effettivamente e non sarà fiacca, la manovra (tutele crescenti più bonus) potrà funzionare come moltiplicatore occupazionale della crescita; essa potrà accelerare la crescita dello stock complessivo di occupazione sostenendo in particolare l’occupazione a tempo indeterminato. Quest’ultima, grazie al sovrapporsi delle due misure, rappresenta ora l’opzione più conveniente per le imprese (escludendo eventuali variazioni nelle retribuzioni che rendano più convenienti altri contratti).
Un aumento più che proporzionale della quota relativa dello stock di occupazione a tempo indeterminato potrà verificarsi sia per una sua maggiore incidenza sul flusso della nuova occupazione, sia per la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei vari altri rapporti già esistenti.
È prevedibile, quindi, che si manifesti un travaso dal lavoro temporaneo (compreso quello parasubordinato) verso quello a tutele crescenti. Se questa dinamica prenderà corpo, indubbiamente ne saranno avvantaggiati i giovani nella fase d’ingresso nell’occupazione; infatti per essi diminuirà il rischio di essere risucchiati in forme occupazionali precarie e meno tutelate. Se questo era l’obiettivo primario della riforma, si può prevedere che, alle condizioni dette, sarà centrato.
L’aver lasciato in vigore l’articolo 18 per lo stock di occupazione preesistente alla riforma appare, da questo punto di vista, una scelta opportuna poiché nell’immediato essa incentiva la trasformazione dell’occupazione precaria in occupazione a tempo indeterminato senza, però, rendere conveniente la sostituzione del personale più anziano con nuovi assunti. In particolare in questa fase è sulla creazione di occupazione aggiuntiva che è urgente puntare piuttosto che su un’ulteriore espulsione di forza lavoro dopo le perdite di posti inflitte dalla crisi.

Opportunismo, incompletezza, effetti collaterali. Se appare efficace sul piano congiunturale, la riforma, paradossalmente, risulta di efficacia meno certa proprio su quello strutturale. Infatti, se il generoso bonus appena introdotto dovesse rimanere abbastanza a lungo nel tempo, emergerebbe il rischio di un uso opportunistico del nuovo contratto: lo sgravio contributivo potrebbe rendere conveniente per l’impresa licenziare, pagando l’indennizzo, prima della scadenza dello sgravio per riassumere ancora a tempo indeterminato e godere di nuovo dello stesso sgravio. Questa distorsione minerebbe la capacità effettiva del provvedimento di stabilizzare l’occupazione.
Tuttavia, non è affatto scontato che lo sgravio sia confermato negli anni a venire. È anzi possibile che il suo onere si riveli difficilmente sostenibile per le finanze pubbliche e quindi non venga rinnovato (a conferma della sua finalità congiunturale). In questo caso, però, si riaprirebbe il gap di convenienza tra il contratto a tempo indeterminato e quelli temporanei, con questi ultimi che tornerebbero di nuovo attraenti per le imprese. Per quanto l’indennizzo di licenziamento sia di importo modesto nei primi anni del rapporto, esso resta pur sempre più oneroso rispetto a rapporti di lavoro che si estinguono semplicemente aspettando la scadenza, fissata al momento della sottoscrizione del contratto. La riforma ora approvata, in assenza del bonus, si rivelerebbe incompleta e perciò si renderebbe necessario un ulteriore intervento.
A quel punto due sarebbero le possibili strade per rendere sufficientemente attraente il contratto a tutele crescenti. La prima richiede che si limiti drasticamente la possibilità di ricorrere a forme contrattuali diverse, fino all’ipotesi di “contratto unico”. La seconda consiste in un aumento del costo relativo del lavoro associato ai contratti diversi da quello a tempo indeterminato, ad esempio mediante una rimodulazione degli oneri contributivi.
Ad ogni modo, l’introduzione della possibilità di licenziare dietro pagamento di un indennizzo avrà molto probabilmente un effetto sulla durata media dei contratti a tempo indeterminato. I nuovi rapporti di lavoro saranno d’ora in poi meno isolati sia dagli shock di mercato e tecnologici sia dall’evoluzione della produttività individuale del lavoratore in funzione dell’età. Il commitment del datore di lavoro nell’assicurare una relazione di lunga durata diventa un po’ meno credibile, sebbene al di là delle norme scritte, già prima di quest’ultima riforma era di fatto ampiamente possibile forzare il turnover della forza lavoro. A questo scopo si poteva ricorrere ad ammortizzatori sociali e prepensionamenti o, più semplicemente, a incentivi monetari offerti unilateralmente dall’impresa e di importo largamente variabile a seconda delle situazioni contingenti. Imprese di grande dimensione erano in grado di offrire somme anche maggiori dell’indennizzo ora fissato dal Jobs Act. Nei mesi scorsi, ad esempio, AST, azienda siderurgica del gruppo ThyssenKrupp, ha incentivato l’uscita volontaria di 400 dipendenti pagando 80 mila euro a testa, una cifra più alta dell’indennizzo introdotto dalla riforma (e della somma ora prevista in caso di conciliazione tra le parti), tanto più se erogato a dipendenti con anzianità inferiore ai 12 anni. Ma nel caso di aziende in difficoltà finanziarie e di minore dimensione la cifra offerta può essere decisamente più bassa. SGL Carbon, azienda industriale anch’essa di proprietà tedesca e localizzata nei pressi di AST (e anch’essa soggetta per dimensione all’applicazione della reintegra ex art. 18), proprio negli stessi mesi ha offerto solo 20 mila euro ai propri dipendenti come incentivo all’uscita. Da questo punto di vista, la previsione di un indennizzo (o, in alternativa, della somma prevista in caso di ricorso alla procedura di conciliazione) di importo certo e vincolante può rappresentare un elemento di tutela in più per i lavoratori.
Comunque, al di là di questi elementi di continuità di fatto con la situazione pre-riforma, il Jobs Act amplia i margini di gestione della forza lavoro da parte dei datori di lavoro. Al netto degli effetti del ciclo, ciò non avrà, di per sé, conseguenze rilevanti sullo stock di occupazione, ma potrà riflettersi in un accorciamento della durata media dei rapporti di lavoro (a tempo indeterminato).

Young in – old out. Un ultimo ma non meno grave motivo di preoccupazione sul piano strutturale è legato al rischio che con le nuove norme risulti incentivata la sostituzione dei dipendenti che hanno maturato una più lunga anzianità aziendale con neo-assunti. In realtà si tratta di una possibilità per ora remota, che diverrà praticabile solo molto gradualmente nel tempo, poiché ancora per diversi anni ai lavoratori anziani, in quanto assunti prima del decreto legge 23/2015, continuerà ad applicarsi la protezione del vecchio articolo 18.
Tuttavia è evidente che si pone fin d’ora il problema di come evitare, a regime, un’espulsione precoce dei lavoratori avanti nell’età, che avrebbe gravi ripercussioni sugli equilibri occupazionali complessivi, e sarebbe in conflitto con i requisiti previsti per l’accesso alla pensione.
La spinta a mettere in moto un processo di sostituzione “young in-old out” sarà più forte, in particolare, nei settori e nelle professioni in cui il salario tende a crescere più rapidamente con l’anzianità di servizio e/o la produttività a declinare più rapidamente con l’età. Nei casi in cui il gap tra salario e produttività dei lavoratori con più anzianità si faccia più ampio, e in presenza di condizioni di impiego di giovani vantaggiose, il deterrente rappresentato dall’indennizzo (24 mensilità) o dall’importo che il datore di lavoro deve pagare come offerta di conciliazione (18 mensilità), potrebbe essere insufficiente.
Anche questo è un problema che certo non sorge con il Jobs Act, ma che esso rende più urgente. E’ facile prevedere che la nuova situazione darà luogo a un aggiustamento della struttura salariale. Il salario relativo dei più anziani dovrà flettere per assecondare l’andamento della produttività. La contrattazione collettiva si dovrà far carico di ricercare equilibri compatibili con i nuovi rapporti di forza tra giovani e anziani (ora meno favorevoli ai secondi) determinati dal nuovo contratto. Anche una rimodulazione degli oneri contributivi potrebbe dare una mano in questa direzione.
Un’altra possibilità, invece, fa leva sulla formazione continua dei lavoratori durante la loro vita professionale al fine di preservarne la capacità professionale e di adattamento al cambiamento di mansioni e alle trasformazioni organizzative. Ma per essere pronti e ottenere questi risultati tra vent’anni, imprese, parti sociali, regioni e governo dovrebbero intraprendere serie strategie formative fin da subito. Anche questa è un’implicazione del Jobs Act.

Schede e storico autori