L’Output Gap non è uno solo. Le stime della Commissione Europea e quelle dell’OCSE

Carmelo Pierpaolo Parello e Diletta Colocci richiamano l'attenzione sull'Output Gap, la differenza tra la crescita effettivamente realizzata e quella potenziale, nella definizione dei saldi strutturali di bilancio. I due autori, in particolare, si soffermano sulle differenze tra i metodi di stima di tale grandezza correntemente utilizzati dalla Commissione europea e dall'OCSE; queste, infatti, comportano valori stimati diversi, con rilevanti implicazioni sull'aggiustamento strutturale richiesto in sede europea e sulla valutazione del rispetto del Patto di Stabilità e Crescita.

La Commissione Europea incide in vari modi sulle politiche della finanza pubblica degli Stati Membri. Uno, poco considerato ma cruciale, riguarda il modo con cui si calcola il cosiddetto output gap dal quale dipende il grado di conseguimento di un obiettivo fondamentale per le politiche di finanza pubblica, l’Obiettivo di Medio Termine (OMT). Il punto è stato notato da alcuni osservatori, ma vale la pena approfondirlo anche per mostrare l’origine delle diverse metodologie di calcolo seguite dalla Commissione e dall’OCSE e quali sarebbero le conseguenze per le scelte di finanza pubblica degli Stati Membri, e in particolare dell’Italia, se si adottasse la metodologia dell’OCSE.

Con l’entrata in vigore del Fiscal Compact, ogni Paese dell’eurozona si è impegnato ad inserire nel proprio ordinamento nazionale la regola in base alla quale il saldo strutturale annuo della P.A. deve attestarsi al livello dell’OMT (che, nel caso dell’Italia, coincide con il pareggio strutturale). Il saldo strutturale è un indicatore di finanza pubblica che viene ottenuto depurando il saldo corrente da due grandezze considerate non strutturali: la “Componente ciclica” e le “Misure temporanee e una tantum”. La Componente ciclica, a sua volta, è il risultato del prodotto tra un parametro tecnico (che misura la c.d. semi-elasticità del saldo di bilancio al ciclo economico) e l’Output Gap (OG), attraverso cui si intende misurare lo scostamento tra PIL effettivo e potenziale.

L’OG è una grandezza non osservabile perché non lo è il PIL potenziale. Ciò fa sì che per il suo calcolo si debba ricorrere all’uso di tecniche statistico-econometriche i cui risultati risentono delle ipotesi teoriche su cui si fondano. Da ciò discende che differenze anche lievi nelle ipotesi di base possono portare a differenze importanti nelle stime dell’OG e, quindi, a conseguenze sostanziali nei livelli dei saldi strutturali teorici. La Commissione europea e l’OCSE, ad esempio, pur utilizzando la stessa metodologia di calcolo, il metodo della funzione di produzione, arrivano a stime diverse dell’OG, con implicazioni non di poco conto per l’ottenimento dell’OMT.

Il metodo della funzione di produzione consiste nell’estrapolazione del trend della produzione effettiva, degli di input capitale e lavoro e della produttività totale dei fattori (TFP). Seppur basate entrambe su questo metodo, le metodologie di calcolo di Commissione e OCSE differiscono per alcuni aspetti che riguardano la stima del trend della disoccupazione strutturale (o di equilibrio).

La linea di demarcazione tra le metodologie seguite dalle due Organizzazioni risiede nella definizione teorica di partenza del concetto di tasso di disoccupazione strutturale ed in particolare nella determinazione dei due parametri fondamentali della curva di Phillips. La Commissione propone una misura teorica della disoccupazione strutturale nota con l’acronimo di NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), in base alla quale è da considerarsi di equilibrio solo quel livello del tasso di disoccupazione che non genera spinte inflazionistiche nei salari. L’OCSE, invece, basa le sue stime su un concetto diverso di disoccupazione di equilibrio noto con l’acronimo di NAIRU (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment), a sua volta definibile come quel livello del tasso di disoccupazione compatibile con una inflazione stabile e (possibilmente) in linea con gli obiettivi della Banca Centrale.

Le stime del NAWRU risultano più sensibili alle variazioni del tasso di disoccupazione effettivo rispetto a quelle del NAIRU; queste ultime, infatti, catturano le variazioni del tasso di disoccupazione solo se la spinta sull’inflazione salariale conduce ad una variazione dei prezzi, col risultato che la metodologia adottata dalla Commissione tende a produrre risultati maggiormente pro-ciclici rispetto a quella utilizzata dall’OCSE.

Commissione e OCSE: stime a confronto. La tab. 1 riporta, con riferimento all’Italia, il tasso di disoccupazione effettivo, la stima del NAWRU fornita dalla Commissione e quella del NAIRU divulgata dall’OCSE per gli anni 2013-2016. I valori della disoccupazione strutturale stimati dalla Commissione (NAWRU) risultano effettivamente più elevati di quelli individuati dall’OCSE (NAIRU). Inoltre, mettendo a confronto le singole stime con il tasso di disoccupazione effettivo, è possibile rendersi conto di come la serie dalla Commissione sia più vicina al dato congiunturale della disoccupazione italiana.

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Evidentemente la metodologia della Commissione tende a sottostimare l’ampiezza del ciclo economico incorporando nel tasso di disoccupazione strutturale una parte consistente dell’aumento effettivo della disoccupazione.

Il maggior valore del NAWRU conduce ad un minor valore del prodotto potenziale, il quale, a sua volta, comporta una sottostima dell’OG. Visto dalla prospettiva della finanza pubblica, una sottostima dell’OG implica disavanzi strutturali più elevati e, dunque, una maggiore richiesta di interventi di correzione del deficit di bilancio effettivo.

Allo scopo di chiarire meglio questo punto, la tab. 2 riporta i valori delle principali variabili di finanza pubblica stimati dal Governo italiano e dall’OCSE. In linea con quanto affermato, i valori dell’OG calcolati dal Governo in base alle regole comunitarie sono significativamente minori (in valore assoluto) di quelli stimati dall’OCSE. Pertanto, moltiplicando tali valori per la semi-elasticità (che per l’Italia è pari a 0.54), la “Componente ciclica” che si ottiene risulta essere più elevata per l’OCSE che non per la Commissione. Ora, se dal “Saldo nominale effettivo” si procede a sottrarre la “Componente ciclica” e le “Misure una tantum”, il valore finale che si ottiene è esattamente il “Saldo strutturale” (cfr. ultima riga tab. 2), il quale risulta essere più lontano dall’OMT (pareggio strutturale) nelle stime della Commissione che in quelle dell’OCSE.

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Commissione europea e Governo, infatti, prevedono il persistere del deficit strutturale fino al 2017; l’OCSE, al contrario, colloca il saldo strutturale italiano in avanzo già dal 2014. Ma c’è dell’altro: la sottostima dell’OG incide anche sull’entità della manovra correttiva di finanza pubblica richiesta in sede europea. In base alla “Comunicazione interpretativa sui margini di flessibilità del Patto di stabilità e crescita” rilasciata dalla Commissione lo scorso 13 gennaio 2015, i cui principali contenuti sono riassunti nella tabella 3, l’OG riportato nel Def 2015 (-3,8% del PIL potenziale) porterebbe a collocare la posizione congiunturale dell’Italia tra le c.d. “condizioni cicliche particolarmente avverse”, comportando un aggiustamento strutturale pari a 0,25 punti percentuali di PIL. Diversamente, l’OG individuato dall’OCSE (-5,8% del PIL potenziale), classificherebbe la congiuntura italiana come “periodo eccezionalmente sfavorevole” e non comporterebbe nessuna richiesta di aggiustamento strutturale.

Nel caso dell’economia italiana la metodologia della Commissione sembrerebbe dunque “forzare” l’adozione di politiche economiche più restrittive attraverso una sottostima della congiuntura economica nazionale. Al contrario, l’approccio seguito dall’OCSE tenderebbe a dare un peso maggiore all’ampiezza del ciclo economico e a non richiedere alcuna manovra correttiva, con evidenti benefici in termini di sostegno del reddito disponibile delle famiglie e di mantenimento della propensione ad investire delle imprese.

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A chi va bene, a chi va male ….. Appare allora opportuno estendere la riflessione anche agli altri paesi dell’eurozona, con un duplice scopo: da un lato, valutare come variano le posizioni nazionali a seconda delle due metodologie di stima; dall’altro, capire se e in quale misura il metodo della Commissione avvantaggi maggiormente alcuni gruppi di paesi.

La tabella 4 mette a confronto gli aggiustamenti strutturali richiesti in base ai due metodi ai paesi dell’eurozona aderenti all’OCSE che non hanno ancora raggiunto l’OMT (la Germania non viene quindi inclusa perché già in linea con il raggiungimento dell’OMT).

In base alle nostre elaborazioni, per Austria, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna la metodologia della Commissione comporta manovre correttive di entità superiore rispetto a quella dell’OCSE che, talvolta, non ne richiederebbe affatto. Per i rimanenti paesi (Belgio, Francia, Grecia e Olanda), un eventuale passaggio dal metodo della Commissione al metodo dell’OCSE non comporterebbe invece particolari variazioni dal punto di vista di policy.

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In definitiva, la nostra analisi rileva che la scelta di un particolare metodo di stima dell’OG non può dirsi neutrale per le scelte di finanza pubblica di un paese e per le sue prospettive di crescita di medio termine. Come uscire dall’impasse? Difficile dirlo, specie conoscendo la rigidità con cui l’Europa suole applicare le sue regole. Tuttavia, l’auspicio è che nell’applicare le regole europee si possa cominciare a tenere conto dei problemi di sottostima dell’OG di cui si è qui discusso, magari facendo con più frequenza ricorso ad una frase di avvertimento che si legge nell’appendice metodologica dei Draft budgetary plans del 2015, secondo cui la previsione del PIL potenziale deve essere utilizzata “con estrema cautela”.

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