L’origine del capitale sociale

Albanese e Barone, muovendo dalla considerazione che capitale sociale e sviluppo economico sono connessi, si chiedono se sia convincente la diffusa tesi secondo cui le dotazioni di capitale sociale in ciascun territorio hanno profonde radici storiche e perciò sarebbero stabili nel tempo. Richiamando alcuni recenti contributi, Albanese e Barone sostengono che vi sono fattori in grado di modificare le dotazioni di capitale sociale e sottolineano l’importanza della loro individuazione per il disegno di politiche idonee a ridurre i divari di sviluppo.

Spesso si imputa alla bassa dotazione di capitale sociale la responsabilità di un insoddisfacente ritmo dello sviluppo economico. Individuare i fattori dai quali dipende quella dotazione può, dunque, costituire il primo passo per disegnare e realizzare efficaci politiche di sviluppo anche a livello territoriale. È questo il nostro tema.

La letteratura tradizionale, incentrata sul contributo di Putnam (1993), ha enfatizzato il ruolo delle radici storiche del capitale sociale osservando come, rispetto alle aree centro-settentrionali del Paese, quelle del Mezzogiorno d’Italia abbiano una minore dotazione di capitale sociale e che tale distribuzione spaziale sia fortemente stabile nel tempo. Anche se quello della misura è un tema molto controverso, data la natura sfaccettata del concetto stesso di capitale sociale, è possibile servirsi di alcune proxy ampiamente accettate per rappresentare tali evidenze. La figura seguente utilizza ad esempio la partecipazione elettorale (che naturalmente non dipende solo dal capitale sociale ma anche da tanti altri fattori).albanese_barone

Questa persistenza avrebbe radici storiche lontane: i diversi regimi politici prevalenti nel basso Medioevo – Comuni e Signorie nel Centro Nord, Stato Pontificio in alcune aree del Centro e Regno di Sicilia nel Mezzogiorno – hanno contribuito a determinare differenze che sarebbero poi sopravvissute per secoli. Negli ultimi anni, il tema della persistenza è divenuto oggetto di interesse anche al di fuori dei confini nazionali. Nunn (NBER Working Paper, 2012), per esempio, discute il ruolo della cultura nella spiegazione delle radici storiche dello sviluppo. Secondo l’autore, gli eventi storici di rilievo forgiano in modo permanente i tratti culturali di un territorio e perciò giocano un ruolo significativo sul processo di sviluppo economico anche nel lunghissimo periodo. Tra i vari possibili meccanismi di trasmissione, alcuni lavori hanno messo in risalto il ruolo della famiglia. Lo studio di Albanese, de Blasio e Sestito (Bank of Italy Working Papers, 2014) conferma che nel nostro Paese alla base della persistenza di valori e norme di condotta vi sono meccanismi di trasmissione familiare. In particolare, tale trasmissione appare particolarmente evidente per alcuni valori, come quelli relativi all’obbedienza, al rispetto per la gerarchia e all’importanza dei legami familiari, ai quali la letteratura precedente ha associato rilevanti effetti negativi a livello individuale e aggregato.

Portando alle estreme conseguenze logiche l’ipotesi delle radici storiche del capitale sociale, si dovrebbe dunque guardare con scetticismo alla possibilità di modificarne le dotazioni ereditate dal passato. Un recente studio di Grompone e Sessa (Banca d’Italia, mimeo 2014) mostra tuttavia che così non è. Gli autori utilizzano un “esperimento naturale” basato sulla riforma amministrativa che nel 1926 spostò di 40 km a sud il confine fra Lazio e Campania, collocandolo tra territori fino ad allora fortemente omogenei dal punto di vista istituzionale e culturale. Il lavoro mostra che prima della riforma non vi era alcuna differenza significativa lungo il nuovo confine, mentre a distanza di oltre 80 anni i comuni collocati sul versante sud presentavano valori peggiori nei tassi di criminalità, in quelli di partecipazione elettorale e referendaria e nell’efficienza delle amministrazioni locali. Sebbene non sia possibile individuare l’elemento (o gli elementi) associati al cambio di confine che possono aver prodotto tali effetti, questo studio offre un’importante apertura sulla modificabilità del capitale sociale: aree che hanno una lunga storia in comune se sottoposte, da un certo punto in poi, a diversi “trattamenti”, possono seguire percorsi evolutivi caratterizzati da tratti culturali divergenti.

Se le dotazioni di capitale sociale si possono modificare, occorre interrogarsi su quali meccanismi siano in grado di produrre tali cambiamenti. Alcuni recenti lavori di ricerca riconducono questi meccanismi a due diversi contesti: quello istituzionale e delle politiche pubbliche, da un lato, e quello più strettamente economico, dall’altro.
Con riferimento al primo contesto, l’idea di fondo è che le politiche pubbliche “virtuose” (in termini di qualità dei servizi, efficienza, etc.) favoriscano i comportamenti civici attraverso l’instaurazione di equilibri di tipo cooperativo tra cittadino e istituzioni.

Accetturo, de Blasio e Ricci (Journal of Economic Behavior and Organization, 2014) considerano la relazione tra i trasferimenti dell’UE alle regioni europee Obiettivo 1 (per il periodo di programmazione 2000-06) e le dotazioni di capitale sociale. I trasferimenti potrebbero aumentare l’ammontare di risorse appropriabili tramite l’attività di corruzione, diminuendo quindi gli incentivi a comportarsi in maniera civica. Il lavoro conferma l’esistenza di un impatto negativo e significativo dei trasferimenti sui livelli di capitale sociale, ma tale effetto è mitigato (talvolta, fino ad annullarsi) nelle aree in cui l’operatore pubblico è caratterizzato da una maggiore efficienza nella fornitura dei servizi pubblici. L’esistenza di un legame positivo tra la qualità dei servizi pubblici (in particolar modo quelli forniti dagli enti locali dell’area in cui l’individuo risiede) e le dotazioni di capitale sociale è anche oggetto del lavoro di Camussi e Mancini (Banca d’Italia, mimeo 2014). Tale analisi potrebbe segnalare la possibilità che comportamenti virtuosi dell’operatore pubblico stimolino risposte di tipo pro-sociale nei cittadini. Allo stesso modo, Barone e Mocetti (International Tax and Public Finance, 2011) mostrano che nei comuni italiani dove l’efficienza della spesa pubblica è più elevata, la lealtà fiscale dei contribuenti è maggiore. Anche se la lealtà fiscale non è propriamente una proxy di capitale sociale, anche questo è un segnale rilevante di possibili equilibri cooperativi tra Stato e cittadini.

Accetturo, Bugamelli e Lamorgese (Banca d’Italia, mimeo 2014) analizzano invece l’esistenza di un legame tra la fornitura di un servizio pubblico essenziale (la sicurezza) e la partecipazione elettorale. In particolare, il lavoro utilizza un esperimento naturale basato sull’introduzione della Legge Pica del 1863, che comprendeva varie misure dirette ad accrescere la sicurezza degli strati più abbienti, che a quel tempo erano gli unici ad avere il diritto di voto. Il lavoro mostra come tale intervento generò un significativo aumento della partecipazione alle elezioni politiche del 1865. Un altro bene pubblico che senz’altro può avere un ruolo importante nell’accumulazione di capitale sociale è l’istruzione. Ad esempio, utilizzando dati a livello individuale per l’Italia, de Blasio e Nuzzo (Journal of Socio-Economics, 2010) mostrano una correlazione positiva tra livello di istruzione da una parte e civismo, partecipazione politica e partecipazione sociale dall’altra.

L’influenza dello sviluppo economico sui comportamenti pro-sociali degli individui è stata discussa nella letteratura socio-economica già a partire da Marx (Contributo alla critica dell’economia politica, 1839) ed è stata ritenuta plausibile anche da quegli scienziati sociali che per primi hanno enfatizzato la rilevanza del capitale sociale e che hanno anche sottolineato come sviluppo economico e capitale sociale sono fenomeni che si rinforzano a vicenda.

Alcune prove a favore di tali tesi le ritroviamo già nelle analisi empiriche a livello microeconomico, che indicano l’esistenza di una relazione positiva tra reddito degli individui e variabili che approssimano il capitale sociale. A livello macro, l’evidenza è invece ancora scarsa. In un recente lavoro, Albanese e de Blasio (Banca d’Italia, mimeo 2014) verificano se lo sviluppo economico, e soprattutto le trasformazioni strutturali a esso connesse, con lo sviluppo della moderna società industriale (e post-industriale), abbiano avuto un impatto sui comportamenti civici degli individui. Lo studio mostra che nel nostro Paese la crescita industriale del dopoguerra ha avuto un impatto positivo e significativo sulla dotazione di capitale sociale nei comuni italiani (misurata dalla partecipazione elettorale). Inoltre, l’effetto per il Mezzogiorno è molto più elevato di quello stimato per la media del Paese.

Oltre alla crescita economica, anche il grado di disuguaglianza potrebbe influenzare la dotazione di capitale sociale. Ciò può avvenire attraverso una serie di canali: aumentando le differenze socio-economiche tra i cittadini con la conseguente creazione di barriere sociali; riducendo il grado di equità percepita del contratto sociale; creando conflitti sulle preferenze nell’allocazione delle risorse pubbliche. Tale questione è studiata da Barone e Mocetti (Banca d’Italia, mimeo 2014), che analizzano in particolare l’effetto della disuguaglianza dei redditi. Le stime indicano un effetto negativo e significativo dell’indice di Gini sulla fiducia generalizzata, anche se tale evidenza è robusta solo per i paesi sviluppati.

In conclusione, le tesi basate sulle radici storiche del capitale sociale non sembrano essere sufficienti a spiegare interamente la sua attuale distribuzione territoriale. In questo intervento abbiamo mostrato invece che esistono fattori di “rottura” che mutano le traiettorie evolutive delle dotazioni di capitale sociale (e, più in generale, delle variabili culturali). Si apre quindi uno spazio per interventi di policy che favoriscano l’accumulazione di capitale sociale. Il tema diventa allora quello di scegliere gli interventi appropriati. Le possibili linee di intervento sembrano essere due: la prima riguarda la virtuosità dei comportamenti dell’operatore pubblico, al quale è richiesta la fornitura di beni e servizi di qualità con processi efficienti. La seconda rimanda a misure che favoriscano la crescita economica senza che questa tuttavia si associ a livelli eccessivi di sperequazione nella distribuzione dei redditi.

* Questo articolo è tratto da un nostro intervento al convegno “Capitale sociale, economia e politica economica” tenutosi il 27 giugno 2014 (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/seminari_convegni/conv-17) dove sono stati presentati diversi lavori realizzati nell’ambito di un progetto di ricerca su “Capitale sociale, istituzioni, comportamenti” svolto in Banca d’Italia. Gli autori desiderano ringraziare Guido de Blasio e Paolo Sestito per gli utili consigli e suggerimenti. Le opinioni espresse non impegnano in alcun modo l’istituto di appartenenza.

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