L’istruzione degli imprenditori e le conseguenze per il lavoro

Andrea Ricci illustra una caratteristica delle imprese italiane solitamente trascurata eppure densa di implicazioni per il modo in cui esse vengono gestite e per la loro competitività. Si tratta del fatto che i nostri imprenditori sono mediamente meno istruiti dei loro colleghi europei e, in base a un’analisi econometrica, la presenza di un imprenditore laureato incide molto su variabili decisive per la utilizzazione e la valorizzazione del capitale umano, in particolare incide sulla quota di lavoratori ai quali le imprese offrono occasioni di formazione professionale.

 Nel dibattito pubblico e accademico sulle riforme del mercato del lavoro, da molti anni ormai, si tende ad assumere come un dato esogeno, quasi “naturale”, il comportamento competitivo delle imprese italiane.

Questa ultime sarebbero cioè soggetti razionali che competono sul mercato per ottenere profitti e, quindi, creare occupazione. Per avere successo in questo obiettivo, le nostre imprese avrebbero poi a disposizione due opzioni equivalenti: massimizzare il valore della produzione e la crescita della produttività del lavoro oppure minimizzare i costi della produzione, tra cui appunto quello del lavoro. Secondo questo ragionamento, la riduzione del costo del lavoro migliora la competitività delle imprese, i loro profitti e, di conseguenza, aumenta l’occupazione. Al di là della sua solidità logica, questa analisi non sembra tenere conto di alcuni aspetti essenziali della realtà, in particolare nel caso delle nostre imprese. Infatti, tra teoria e realtà vi sono significative distanze. Per spiegare almeno alcune di esse è utile soffermarsi sulle caratteristiche della nostra imprenditoria e sui comportamenti competitivi che da esse derivano.

E’ un fatto noto, ad esempio, che le imprese italiane siano prevalentemente di piccole dimensioni e tipicamente espressione di una proprietà familiare. Meno noto è che esse siano gestite da imprenditori mediamente meno istruiti dei loro colleghi europei. In tal senso è interessante riportare qualche dato: meno del 25% delle aziende è gestito da imprenditori con un titolo di studio universitario, meno del 15% di esse hanno a capo un datore di lavoro con età inferiore a 40 anni, mentre la presenza delle donne ai vertici aziendali è ancora più esigua (meno del 10%).

Questo tratto distintivo della nostra demografia imprenditoriale è un aspetto fondamentale della politica del mercato del lavoro, anche se finora non è stato quasi mai considerato come tale.

Il livello di istruzione degli imprenditori, infatti, influenza in modo determinante le scelte di gestione e organizzazione del personale, la natura delle relazioni contrattuali con i lavoratori e, dunque, le performance produttive delle aziende stesse. Le analisi recenti condotte su dati di impresa dimostrano, in effetti, che la presenza di un imprenditore laureato aumenta fino a 30 punti percentuali la proporzione di lavoratori impegnati in attività di formazione professionale rispetto alle aziende gestite da imprenditori con un più basso livello di istruzione. Simmetricamente, la presenza di datori di lavoro laureati riduce di circa 13-14 punti percentuali la proporzione totale di lavoratori con contratti a tempo determinato nelle aziende da essi gestite. L’investimento in formazione professionale e il ricorso a contratti a tempo indeterminato, a loro volta, sono leve fondamentali per aumentare la probabilità che l’impresa consegua un livello di produttività e di profitto superiore al corrispondente valore mediano del settore in cui opera.

Se leggiamo questi risultati “al rovescio”, ci appare chiaro come la scarsa dotazione di capitale umano imprenditoriale tenda a favorire l’affermarsi di un modello di competitivo orientato alla minimizzazione dei costi, soprattutto quelli del lavoro, piuttosto che alla massimizzazione del valore della produzione, attraverso l’innovazione e l’investimento in capitale umano. L’affermarsi di questo modello competitivo, a sua volta, rischia di erodere progressivamente i margini di profitto e le quote di mercato delle stesse imprese nel medio periodo. Questo perché il processo di integrazione del commercio internazionale e la diffusione delle nuove tecnologie crea opportunità soprattutto per quelle aziende che puntano sulla qualità dei prodotti, sulle conoscenze dei lavoratori e sull’incremento dell’efficienza produttiva.

Sulla base di queste considerazioni, i comportamenti delle imprese ci appaiono quindi un po’ meno razionali e concorrenziali di quanto descritto nei manuali di economia.

Il profilo demografico degli imprenditori, in altre parole, sembra costituire un vincolo alle potenzialità produttive e concorrenziali del nostra economia nella misura in cui la mancanza di adeguate conoscenze e capacità cognitive, acquisite generalmente durante il percorso formativo, favorisce comportamenti imprenditoriali avversi al rischio, ovvero troppo prudenti, e condizionati da miopia verso il futuro. Una miopia che tende a riflettersi in politiche di gestione delle risorse umane che penalizzano l’investimento in competenze professionali, la stabilità dei rapporti di lavoro e, quindi, le performance competitive delle stesse aziende. Ciò emerge soprattutto nell’uso del lavoro temporaneo: gli imprenditori poco istruiti tendono a sopravvalutare i risparmi nei costi del lavoro (reali e attesi) che l’uso dei contratti a termine permette loro di realizzare nel breve periodo; mentre sottovalutano i costi in termini di perdita di capacità innovativa e produttiva che tipicamente si accompagna nel lungo periodo ad un impiego eccessivo di forme di lavoro precario. Una interpretazione, quest’ultima, che viene confermata da confronti internazionali in cui si mette in evidenza come il nostro paese abbia sperimentato, a partire da inizi anni ’90, la diffusione più veloce dei contratti a tempo determinato (+122%) e, contestualmente, la più intensa caduta della produttività totale dei fattori (-3,7 %) nel contesto delle economie europee (Damiani, Ricci e Pompei, 2013).

Assumere che le caratteristiche e i modelli di comportamento della classe imprenditoriale siano un dato “esogeno” è, pertanto, una seria limitazione logica per il dibattito sulle riforme del mercato del lavoro e, quel che più conta, per l’efficacia della politica economica nel nostro paese.

L’opportunità di innalzare la qualità media della classe imprenditoriale, incrementandone il livello medio di istruzione e la presenza femminile ai vertici delle gerarchie aziendali è, d’altra parte, strettamente connessa alla possibilità di liberalizzare il mercato della proprietà e del controllo gestionale e introdurre misure in grado di aumentare la dimensione media delle aziende.

Per questa ragione gli interventi diretti a favorire l’occupazione, i salari e l’accumulazione di competenze professionali soprattutto per i più giovani sembrano richiedere l’adozione di un approccio che collochi l’evoluzione del mercato del lavoro all’interno della più generale dinamica del tessuto produttivo e dei comportamenti imprenditoriali.

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