L’Investimento pubblico è il solo volano possibile per l’economia

Francesco Saraceno osserva che se la deflazione ha costretto i policy makers europei a riconoscere che stiamo vivendo una grave crisi di domanda essa non ha prodotto cambiamenti di politiche. Ad esempio la Draghinomics evoca il ritorno della politica fiscale ma riafferma la priorità delle riforme dal lato dell'offerta e il rispetto dei vincoli fiscali. Saraceno esclude che nel fiscal compact vi sia spazio per la necessaria politica di rilancio degli investimenti pubblici e invoca la loro esclusione dal calcolo del deficit.

Solo un anno fa, la brutale cura di austerità imposta a partire dal 2010 ai paesi della periferia europea, e adottata convintamente dai paesi del centro, sembrava finalmente dare i suoi frutti. Il rimbalzo delle economie del sud era da molti, soprattutto a Bruxelles e a Berlino, presentato come la prova che il binomio “riforme più austerità” fosse vincente, nonostante le sofferenze imposte alle popolazioni coinvolte. Alcuni, tra cui chi scrive, non condividevano questo ottimismo, e denunciavano l’insistenza su misure volte a rilanciare l’offerta in un contesto di domanda aggregata cronicamente insufficiente e di squilibri crescenti tra il centro e la periferia della zona euro.

Purtroppo i fatti hanno smentito gli ottimisti, e nel 2014 la zona euro è lentamente scivolata verso la deflazione, senza risparmiare, come mostrano le tendenze delle ultime settimane, il centro di quella zona. Le cattive notizie sull’economia tedesca si susseguono e il rischio di una terza recessione dell’area è sempre meno remoto.

La Banca Centrale Europea può essere rimproverata per l’eccessiva timidezza della scorsa primavera. Ma da giugno, e con ancora più forza dopo il suo intervento al convegno dei banchieri centrali di Jackson Hole in agosto, Mario Draghi ha impresso una svolta importante al discorso della BCE. La “Draghinomics” si basa su tre freccie molto simili a quelle introdotte da Shinzo Abe in Giappone nel 2012: una politica monetaria che rimanga accomodante a lungo; le riforme strutturali e un’espansione fiscale che timidamente riappare nell’orizzonte dei policy makers europei. Questa è una buona notizia, perché nel frattempo il tema della cronica mancanza di investimenti (in particolare pubblici) è esploso nel dibattito di politica economica, suggellato dalla pubblicazione del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale il cui terzo capitolo dimostra che gli investimenti pubblici hanno effetti positivi nel breve e nel lungo periodo e sono in grado di finanziarsi attraverso la maggiore crescita che generano.

La mancanza di investimenti in Europa è cronica, e risale a ben prima della crisi del 2008. Uno studio dell’istituto DIW di Berlino, pubblicato nel luglio scorso, evidenzia tra l’altro due cose: i) l’investimento privato è oggi in Europa almeno due punti percentuali inferiore a quello che dovrebbe essere, anche tenendo conto della debole crescita della zona; ii) l’investimento pubblico, anch’esso ai minimi storici, ha un effetto volano sulla crescita non solo direttamente, ma anche, e soprattutto, attraverso l’investimento privato che esso genera. Il gap di investimento, conclude il rapporto, ha ridotto la crescita di circa un punto percentuale all’anno; inoltre, impedendo allo stock di capitale di crescere a ritmi adeguati, esso ha abbassato anche la crescita potenziale di circa 0,2 punti percentuali.

La nuova consapevolezza dei policy makers sul rischio di deflazione e sull’insufficienza di domanda aggregata non si è saldata con la constatazione che gli investimenti sono ai minimi storici con la conseguenza che non si è giunti a formulare quella che dovrebbe essere un’ovvia prescrizione di politica economica: un vasto piano di investimenti pubblici in grado di sostenere la domanda nel breve periodo, di indurre un aumento della spesa privata per investimenti, e di contribuire a risollevare la crescita potenziale rimpolpando uno stock di capitale ormai ridotto ai minimi termini.

Ciò è accaduto perché, in realtà, la svolta di Jackson Hole è stata tale solo a metà; da allora Mario Draghi non ha mancato un’occasione per riaffermare che per far ripartire la crescita la priorità restano le riforme strutturali, nella immutata convinzione che le politiche di offerta sosterranno la fiducia e la domanda privata. Certo, anche la politica fiscale è evocata, ma solo per affermare che essa deve essere utilizzata solo entro gli stretti limiti fissati dal fiscal compact. Le autorità europee sono oramai in preda ad una sorta di schizofrenia intellettuale: continuano a propugnare politiche dell’offerta per rilanciare un’economia che nel loro stesso giudizio soffre di una seria carenza di domanda aggregata. Questa schizofrenia non contribuisce a chiarire la direzione in cui ci si muoverà nei prossimi mesi e quindi non dà certezze ad imprese e consumatori sempre più disorientati. Mario Draghi, il neo presidente della Commissione Juncker, il governo tedesco, e il commissario Katainen, insistono che debba essere data priorità alle riforme dei paesi periferici.

È però illusorio sperare che le riforme strutturali, su cui anche Matteo Renzi ha puntato in Italia, possano rilanciare la crescita in Europa. Come sostiene Dani Rodrik, per quanto necessarie, le riforme devono essere messe in cantiere nei modi e nei tempi giusti. Riforme e consolidamento fiscale sono meno dolorosi e hanno più speranza di successo in un contesto globale di forte crescita. Lo sanno bene i tedeschi, che nel 2003-2005 hanno potuto contare sulla domanda proveniente, tra l’altro, dai Paesi oggi in crisi per assorbire parte dei costi di breve periodo delle riforme Hartz. Nel contesto attuale, le riforme rischiano di affondare ulteriormente l’economia europea, indebolendo la capacità di spesa dei consumatori e aumentando l’incertezza riguardo al futuro (un tema che forse non è stato sufficientemente evocato nel dibattito intorno al jobs act del governo Renzi).

Anche la seconda freccia della Draghinomics sembra aver poca possibilità di rilanciare l’economia europea. Se pure la Bce adottasse una politica più aggressiva, se anche riuscisse a liberarsi della tutela tedesca e avviasse un programma di acquisto massiccio di titoli pubblici, è dubbio che questo basterebbe a rilanciare la crescita. La stessa Bce ha pubblicato i risultati dell’ultima inchiesta (giugno 2014) sulle condizioni creditizie nell’Eurozona: il mercato del credito è anemico non solo perché le istituzioni finanziarie esitano a prestare, ma anche perché imprese e famiglie non domandano credito. Anche se il quadro è eterogeneo, e in alcuni paesi (l’Italia, per esempio), i vincoli creditizi possono avere un ruolo nel mantenere anemica la spesa privata, aumentare l’offerta di credito potrebbe avere effetti più deboli di quanto non si creda. L’economia europea è ancora invischiata in una trappola della liquidità.

Rimane quindi solo la terza freccia, la politica fiscale, che però deve essere liberata dai vincoli dei trattati europei. Se si prendono le stime dell’ultimo World Economic Outlook per il 2015, la zona euro avrebbe un deficit del 2,45% del Pil, il che lascerebbe, per l’area nel suo insieme spazio per maggiori investimenti equivalenti allo 0,5% del Pil, circa sessanta miliardi di euro. Secondo il valore del moltiplicatore, questo avrebbe un effetto sulla crescita tra il mezzo punto e il punto percentuale (più vicino al limite inferiore, visto che l’ammontare disponibile per l’investimento sarebbe probabilmente inferiore ai sessanta miliardi). In sintesi, quindi, se si rimanesse entro i limiti dei trattati, lo stimolo sarebbe assolutamente insufficiente per rilanciare la crescita agendo anche da volano per la ripresa della spesa privata. Un calcolo simile può essere fatto riguardo al piano Juncker, circa trecento miliardi in tre anni, dei quali la maggior parte sembrerebbe dover provenire dal settore privato. È difficile pensare che un piano di questo ammontare, qualche decimale di punto di Pil, possa fornire lo stimolo necessario per sollevare l’economia europea dalla situazione di stagnazione in cui si trova ormai da 6 anni.

Come sostenuto anche recentemente da Larry Summers, i tassi di interesse ai minimi storici rendono il rendimento atteso degli investimenti in infrastrutture per gli Stati Uniti particolarmente elevato. Nel suo ultimo editoriale nel Financial Times, l’ex ministro del tesoro di Bill Clinton si spinge ad affermare che oggi l’investimento pubblico rappresenta il sogno proibito di qualunque economista, un pasto gratis. Questo è ancora più vero per la zona euro, che ha un debito inferiore agli Stati Uniti (94% del Pil). Se vivessimo in un mondo ideale, sarebbe immediatamente lanciato un vasto piano di investimenti pubblici a livello europeo, per esempio in progetti di transizione energetica, finanziati da debito comune. Questo non accadrà, nonostante la proposta di eurobond, project bond o strumenti simili sia periodicamente rilanciata, per l’opposizione della Germania e di pochi altri paesi. Il rilancio necessario dell’investimento pubblico quindi dovrà avvenire al livello nazionale. Ed è difficile immaginare che un programma di investimento pubblico della dimensione necessaria alla ripresa possa essere messo in cantiere senza uno strappo politico e istituzionale.

Per questo può venirci in aiuto l’esperienza inglese dello scorso decennio. La “golden rule” adottata dall’allora cancelliere dello scacchiere Gordon Brown nel 1997, abolita nel 2009, prevedeva che il governo dovesse garantire il pareggio di bilancio nel medio termine, ma che contestualmente la spesa per investimenti potesse essere finanziata emettendo debito. Il principio è semplice ed inattaccabile. L’investimento crea capitale pubblico, il cui pagamento può quindi essere condiviso con le generazioni future che ne trarranno beneficio; la spesa corrente, invece, deve essere finanziata dalla generazione presente che ne trae beneficio. La golden rule quindi rispetta i criteri di equità intergenerazionale e, può essere dimostrato, stabilizza il debito pubblico.

La golden rule sembra rifare capolino nel dibattito sulla governance fiscale europea. Con Kemal Dervis ho recentemente sostenuto che la definizione di cosa sia “investimento pubblico” potrebbe essere fatta dipendere dalle priorità di politica economica dell’Unione, divenire oggetto di discussione tra Consiglio, Commissione e Parlamento Europeo, e così diventare un embrione di politica industriale europea. Ed è di qualche giorno fa l’articolo del Senatore Monti sul Financial Times, che rimette al centro del dibattito politico europeo l’idea di eliminare gli investimenti dal calcolo del deficit.

I due paesi che hanno rilanciato il tema dell’investimento pubblico, Francia e Italia, dovrebbero cogliere l’occasione e cercare di spingere per un cambiamento delle regole fiscali europee. Solo questo consentirebbe di rilanciare l’investimento pubblico in misura tale da far ripartire l’economia. Soprattutto, sarebbe l’unico modo per colmare il gap di investimenti che zavorra la crescita potenziale europea.

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