L’elezione del Presidente degli Stati Uniti e l’irrisolto paradosso dell’Electoral College

Giulia Aravantinou si occupa del sistema elettorale statunitense, la cui analisi è stata ampiamente stimolata dagli esiti delle ultime elezioni presidenziali. Aravantinou sottolinea gli aspetti di rilievo, anche costituzionalistico, del complesso sistema elettorale USA – sia nella fase c.d. intrapartitica che in quella interpartitica – e si sofferma sulle numerose proposte di riforma dell’Electoral College, considerato da molti il vero elemento distorsivo della trasmissione della volontà dei cittadini nel meccanismo delle presidenziali.

Le elezioni presidenziali del 2016, che hanno decretato il trionfo di Donald Trump, la sconfitta della candidata dell’establishment Hillary Clinton e il carattere fortemente aggressivo assunto dai toni della campagna elettorale che ha preceduto il voto, sono da molte parti considerati il segnale della decadenza istituzionale, politica, economica e sociale che caratterizza gli Stati Uniti negli ultimi anni (F.Fukuyama, American Political Decay or Renewal? The Meaning of the 2016 Election, in Foreign Affairs, luglio/agosto 2016).

Al di là delle possibili interpretazioni del responso delle urne, alcune riflessioni meritano di essere svolte in relazione al procedimento di elezione del Presidente degli Stati Uniti ed in particolare ad un istituto della democrazia americana tutt’oggi molto controverso, il Collegio elettorale.

I contorni giuridici della contesa presidenziale emergono più chiaramente laddove si considerino con attenzione le diverse fasi in cui il procedimento di elezione del Presidente degli Stati Uniti è articolato. La sua particolare complessità ha condotto il costituzionalista americano Akhil Reed Amar a definire il sistema di elezione del Presidente descritto dall’Art. II come “a constitutional accident waiting to happen”(Amar A.R.,12 Const. Comment. 143, 1995). Nell’opinione di Amar nessuna delle circostanze che occuparono le brillanti menti dei padri fondatori nel XVIII secolo trovano oggi un qualche fondamento.

Anche in occasione della recente consultazione elettorale, così come accaduto nelle controverse elezioni del 2000 vinte da G.W. Bush, il procedimento elettorale ha infatti prodotto un c.d. wrong winner, (Abbott D.W., Levine J.P., Wrong Winner: The Coming Debacle in the Electoral College, Praeger, 1991). In altri termini, le scelte del collegio elettorale non sono coincise con quelle del voto popolare a carattere nazionale che ha, invece, premiato la candidata democratica, assegnandole oltre tre milioni di voti in più rispetto al Presidente eletto.

Il sistema del collegio elettorale continua, infatti, a produrre una serie di anomalie nel processo di elezione del Presidente degli Stati Uniti che nel tempo si è tentato di correggere senza, tuttavia, pervenire a risultati in grado di riconciliare la democrazia americana con il funzionamento di questo istituto. La discussa elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha contribuito a stimolare nuovamente il dibattito sulla necessità di riformare il complesso procedimento di elezione del capo dell’esecutivo e dei renderlo più adeguato ai tempi.

Com’è noto, uno degli elementi centrali del sistema costituzionale federale statunitense del 1787 risiede nell’istituzione di un esecutivo monocratico. In base all’art. II, sez. 1 ‘‘[t]he executive Power shall be vested in a President of the United States of America. He shall hold his Office during the Term of four Years, together with the Vice President, chosen for the same Term’’. Il Presidente è dunque eletto per un periodo di tempo fisso, un quadriennio, attraverso un procedimento complesso solo in parte disciplinato dalla Costituzione. Il termine del mandato fissato in quattro anni decorreva dal 4 marzo dell’anno successivo ad ogni anno bisestile, tale data è stata poi modificata in seguito all’approvazione del XX emendamento, noto anche come il Norris “Lame Duck” Amendement. La rielezione è prevista per una sola volta. Il XXII emendamento, approvato nel 1951, su proposta dei membri del Congresso del partito repubblicano dopo che F.D. Roosevelt fu rieletto per ben tre volte di seguito, ha limitato ad una sola volta la rielezione del Presidente degli Stati Uniti, scongiurando il rischio dell’instaurazione di una “monarchia elettiva”.

Erroneamente ci si riferisce all’elezione del Presidente degli Stati Uniti come ad un’elezione popolare e diretta, al contrario, il procedimento di elezione del Presidente e del vice-presidente degli Stati Uniti è suddiviso in due fasi, una intrapartitica, prevalentemente attuata attraverso lo strumento delle primarie, ed una interpartitica, secondo la quale i candidati, in seguito all’approvazione nel 1804 del XII emendamento, sono eletti direttamente dai grandi elettori in ciascuno Stato.

La fase intrapartitica non è prevista dalla Costituzione e riguarda la cd. nomination dei candidati alla Presidenza. Questa fase è inaugurata dalla designazione dei delegati di ciascuno Stato alla party national convention. A stabilire il numero dei delegati per ciascuno Stato sono gli statuti dei partiti. La scelta dei delegati è affidata ai caucus o al meccanismo delle primarie. In previsione dell’appuntamento con le presidenziali i due grandi partiti hanno cambiato le regole delle primarie, in modo da accelerare il processo di scelta del candidato e di nomina del vincitore. Tali modifiche si inseriscono nel contesto di profonde trasformazioni nelle istituzioni americane, segnate anche dalla pronuncia della Corte Suprema del 2014 sul finanziamento della politica (G. Aravantinou Leonidi, Il finanziamento della politica negli Usa dopo McCutcheon v. Fec, Menabò 17 novembre 2014).

La fase interpartitica del procedimento di elezione presidenziale è disciplinata dalla Costituzione all’art. II sez. I, 2 in base al quale “Ogni Stato nominerà, nel modo che verrà stabilito dal suo organo legislativo, un numero di Elettori, pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al Congresso; ma né senatori, né rappresentanti, né altri che abbiano incarichi fiduciari o retribuiti alle dipendenze degli Stati Uniti, potranno essere nominati Elettori”.

La Costituzione non ha disciplinato le modalità di svolgimento delle elezioni statali per la designazione degli elettori presidenziali. I grandi elettori sono eletti nel novembre di ciascun quarto anno in numero pari ai senatori e ai deputati attribuiti a ciascuno stato. In origine la designazione dei grandi elettori avveniva ad opera dei legislativi statali. Attualmente tutti gli elettori presidenziali sono scelti direttamente dagli elettori. Il diritto degli Stati, pienamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza della Corte Suprema, è stato progressivamente sostituito, a partire dalla fine del XIX secolo, dalla prassi dell’elezione diretta, affermatasi contestualmente all’allargamento del suffragio e alla diversificazione della popolazione elettorale. Oggi, in quasi tutti gli Stati, con l’eccezione di Maine e Nebraska, dove viene in parte adottato un metodo maggioritario e in parte uno proporzionale (district system), i Grandi Elettori sono individuati sulla base di una legge elettorale maggioritaria (general ticket system o winner-take-all) (T.H. Neale, The Electoral College: How It Works in Contemporary Presidential Elections, Government and Finance Division RS2027, 2003).

Il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre i grandi elettori si incontrano in ciascuno Stato e votano per il Presidente ed il Vice-presidente, trasmettendo i loro voti a Washington, D.C. All’una del 6 gennaio dell’anno che segue le elezioni, i voti vengono conteggiati dal Congresso in seduta comune, presieduto per l’occasione dal Presidente del Senato. Due settimane dopo, il 20 gennaio, ha luogo la cerimonia di insediamento del Presidente e del Vicepresidente neo-eletti. Il XX emendamento indica il 20 gennaio come la data di insediamento del nuovo presidente. Nessuna disposizione costituzionale è, invece, dedicata alla delicata fase del trasferimento di poteri dal presidente uscente a quello che si insedierà alla Casa Bianca nota come presidential transition. Il periodo interessato dalla transizione è specificatamente quello che va dal giorno dell’elezione (novembre) all’ inauguration day (il 20 gennaio). In questo lasso di tempo il Presidente uscente rimane in carica fin quando il suo successore non si insedia al termine della cerimonia di inaugurazione (S. Levinson, Presidential Elections And Constitutional Stupidities, 12 Const. Comment. 183 1995, pp.183-186).

In questo scenario il sistema del Collegio elettorale presenta alcune criticità che si celano nelle disposizioni costituzionali, come nel caso dell’esclusione dalla candidatura alla carica di grande elettore di coloro i quali abbiano ricoperto cariche pubbliche (art. II, § 1, cl.2.), o del divieto per i grandi elettori di votare per un abitante del loro stesso Stato (XII em.), (R.W. Bennett, Chi elegge il Presidente degli Stati Uniti? Il problema del collegio elettorale, Milano, Giuffré 2006).

Altre insidie sono rappresentate dalla possibilità che in seno al Collegio si manifesti il voto dei cd. faithless electors, termine con il quale vengono indicati grandi elettori che votano per un candidato diverso da quello che si sono impegnati a votare. Tale eventualità, seppur registrata nella storia politica americana, non ha mai prodotto degli effetti significativi e in occasione di queste ultime elezioni presidenziali parte della dottrina costituzionalistica e politologica americana ha di fatto auspicato il voto degli elettori infedeli per scongiurare l’invisa elezione di Donald Trump. Il voto del 19 dicembre non ha però riservato alcuna sorpresa, confermando la vittoria di Trump.

La possibilità di una riforma del sistema del collegio elettorale, definito da Alexander Hamilton un meccanismo “perlomeno eccellente” (Il Federalista n.68, 1787, edizione italiana Bologna, Il Mulino 1997) – invocata da diversi anni da politici e accademici, convinti della necessità di istituire un’elezione popolare a carattere nazionale o quantomeno di apportare dei correttivi all’attuale procedimento di elezione presidenziale – incontra un importante limite soprattutto nel macchinoso procedimento definito all’Art. V per l’approvazione di un emendamento costituzionale.

Sinora le proposte formulate, e mai realizzate, sono essenzialmente di due tipi. Quelle a favore dell’abolizione dell’Electoral College e quelle che prevedono la sua permanenza con l’introduzione di alcuni correttivi. Per quanto riguarda le prime, una di queste prevede l’assegnazione dei Grandi Elettori secondo il metodo proporzionale, basato sul risultato del voto popolare. Un’altra proposta vuole che i Grandi elettori siano assegnati su base distrettuale. Una terza ipotesi, infine, prevede l’introduzione di un premio di maggioranza nazionale, pari a 120 Grandi Elettori, da assegnare al candidato che abbia ottenuto la maggioranza dei voti popolari, sistema che ridurrebbe notevolmente il peso specifico dell’Electoral College, pur mantenendo formalmente il sistema di elezione indiretta (P. Schumaker & B. A. Loomis, Choosing A President. The Electoral College and Beyond, New York: Chatham House Publishers of Seven Bridges Press, LLC, 2002). Al secondo gruppo di proposte di riforma appartiene invece quella che prevede l’introduzione del voto popolare a carattere nazionale attraverso un emendamento costituzionale. La dottrina giuridico-costituzionalistica ha prospettato anche delle alternative ad un’unica e difficoltosa modifica, offrendo soluzioni che non prevedono il ricorso ad emendamenti costituzionali. Una di queste prevede l’adozione di una legislazione statale che vincoli gli elettori alle indicazioni provenienti dal voto popolare, introducendo così un’elezione a carattere nazionale de facto. L’adozione da parte degli Stati di una legislazione uniforme per la scelta dei grandi elettori è un’altra ipotesi di riforma. Un’altra opzione considera, infine, la possibilità di aumentare le dimensioni del collegio attraverso l’adozione di una legge federale che porti a dispari il numero degli elettori, così da scongiurare il verificarsi di un pareggio del collegio elettorale (R.W.Bennett, Chi elegge il Presidente degli Stati Uniti? Il problema del collegio elettorale, Milano, Giuffré 2006).

Per concludere: le ragioni della mancata realizzazione ad oggi di una riforma dell’ Electoral College sono da rintracciarsi fondamentalmente nella portata delle proposte, incentrate prevalentemente sulle due problematiche del vincitore sbagliato e degli elettori infedeli. Proposte di riforma meno ampie, a costituzione invariata, avrebbero probabilmente avuto maggiori possibilità di successo. L’esito del voto dello scorso novembre ha nuovamente alimentato il dibattito per la ricerca di un meccanismo che riesca a riconciliare finalmente la democrazia americana con questo controverso istituto. Il dibattito è ancora aperto.

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