Le politiche sociali nell’Unequal Europe e le proposte dei Friends of Europe: un commento

Stefania Gabriele ricostruisce l’accidentato cammino dell’Europa sociale presentando dati che dimostrano significativi arretramenti in numerose variabili di rilevanza sociale, a iniziare da quelli sulla spesa per la protezione sociale. Nella prospettiva di un’inversione di tendenza, Gabriele esamina sia i vincoli che possono derivare da vari documenti europei sia alcune concrete proposte contenute nel rapporto dei Friends of Europe sulla Unequal Europe, in particolare quelle relative all’introduzione di reference budget e di spending power

Leggendo il Rapporto di Friends of Europe, “Unequal Europe”, si ha l’impressione di andare indietro nel tempo, di almeno 10/15 anni. Allora, studiando le politiche sociali nell’UE, si aveva la sensazione che tali politiche potessero progressivamente irrobustirsi, anche se per realizzarle gli strumenti erano deboli, come il “metodo del coordinamento aperto”.

Nel periodo di stabilità, crescita moderata, bassi spread sui titoli pubblici che ha fatto seguito all’introduzione dell’euro l’ipotesi che l’Unione potesse rafforzarsi progressivamente anche nel campo sociale non sembrava implausibile, malgrado l’alternarsi di passi avanti e passi indietro. Ma la Grande Recessione ha cambiato tutto.

Dal lato macroeconomico, anche prima della crisi alcuni squilibri si stavano approfondendo in Europa. Aumentavano i disavanzi correnti in alcuni paesi periferici (come Spagna, Grecia e Irlanda), finanziati da consistenti flussi di capitale dai paesi “core”. Con la crisi finanziaria, il crollo della fiducia ha provocato la paralisi del mercato interbancario, fughe di capitali dai paesi periferici, restrizioni creditizie e peggioramento delle aspettative. Il PIL è caduto in quasi tutti i paesi europei.

Le politiche monetarie espansive non sono state sufficienti e i governi sono dovuti intervenire per aiutare i sistemi bancari. Questo ha deteriorato le finanze pubbliche. Le politiche economiche europee sono state focalizzate sul problema dei debiti sovrani, e fondate sull’ipotesi dell’ “austerità espansiva”. Ma tali politiche non hanno avuto successo nel ristabilire l’equilibrio delle finanze pubbliche e la crescita. Nei paesi che avevano adottato le misure fiscali più rigorose il PIL è caduto per molto tempo e i debiti sono esplosi.

Non solo si è interrotto il cammino verso una “Unione sociale”, ma si è tornati indietro. Nell’Agenda europea è comparso il “retrenchment” del welfare state. Le condizioni sociali sono peggiorate, è aumentato il rischio sociale, differenze e diseguaglianze nei paesi e tra i paesi si sono acuite. Alcuni sistemi sanitari sono sotto stress. Basta ricordare qualche dato.

La spesa reale pro-capite per la protezione sociale è diminuita lievemente nell’UE27 tra il 2009 e il 2012 (-0.3%), ma si è ridotta maggiormente in alcuni paesi, come la Grecia (-695 euro), la Spagna (-344), il Portogallo (-255), l’Italia (-228), l’Ungheria (-205). Il numero di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale nell’UE27 è andato diminuendo fino al 2009, ma in seguito è aumentato di quasi sette milioni, arrivando a 122 milioni nel 2013, mentre l’obiettivo di Europa 2020 era di ridurlo di 20 milioni.

L’incidenza della povertà era in media al 24.5% nel 2013, ma superava il 30% in Grecia e in alcuni paesi Baltici e dell’Europa dell’Est. La deprivazione material grave è aumentata dell’ 1.4% nell’UE27 tra il 2009 e il 2013, ma questo è avvenuto a seguito di una riduzione, in media, nei nuovi paesi membri (-1.2% ), e di un aumento nell’ UE- 15 (+2,2) e specialmente in Grecia (9%), Italia (5%) e Regno Unito (4%).

La disoccupazione tra il 2007 e il 2014 è aumentata del 3% nell’UE28, ma del 18% in Grecia, del 16% in Spagna, del 12% a Cipro, del 7% circa in Irlanda, Itala e Croazia. Il tasso di disoccupazione è arrivato a circa il 25% in Grecia e in Spagna. In questi due paesi la disoccupazione giovanile ha superato il 50%, in Italia e Croazia il 40%, in Portogallo e Cipro il 30%.

In Grecia centinaia di migliaia di persone negli scorsi anni hanno perso l’assicurazione sanitaria pubblica (ma il nuovo governo si è preoccupato di ripristinarla), in Spagna gli immigrati non regolari e i giovani sopra i 26 anni non inclusi nel mercato del lavoro oggi hanno la copertura sanitaria solo in caso di problemi particolarmente gravi, emergenza o gravidanza. Problemi di accesso economico (anche per l’aumento delle compartecipazioni) e fisico (dovuto al razionamento dei servizi) sono esplosi in Grecia e stanno emergendo in altri paesi che hanno ridotto consistentemente la spesa sanitaria pubblica.

Attualmente è difficile dare nuovo slancio alla politica sociale europea senza riconsiderare le politiche di bilancio; più in generale è problematico separare le politiche macro e microeconomiche. Su questo il Rapporto “Unequal Europe” appare piuttosto timido. Per realizzare l’”Unione sociale” è necessario un grande sforzo di costruzione di una nuova impostazione, un nuovo paradigma che parta da un’analisi realistica e critica di quello che è avvenuto e delle sue cause, in modo da individuare le migliori modalità di intervento.

E’ importante ricordare che la precedente Commissione Europea , in una significativa comunicazione del 2012, “A blueprint for a deep and genuine economic and monetary union”, volta ad avviare un dibattito europeo, indicava i passi di un percorso verso una Unione più completa e solida. In effetti il primo passo è in corso di realizzazione e include l’attuazione del “Six-pack”, del “Two-pack”, del Meccanismo unico di vigilanza e di risoluzione per il sistema bancario.

Inoltre si stanno mettendo a punto alcuni nuovi dispositivi per supportare le riforme strutturali: il Quadro finanziario pluriennale e lo Strumento di convergenza e di competitività. Il primo implica uno stretto raccordo tra i fondi europei da un lato e i programmi nazionali di riforma, i programmi di stabilità e convergenza e le raccomandazioni specifiche adottate dal Consiglio per ogni paese membro, dall’altro. Si dovranno applicare rigide condizioni macroeconomiche e un coordinamento ex-ante delle maggiori riforme di politica economica. Il secondo strumento si sostanzierebbe in ulteriori accordi contrattuali sostenuti da un supporto finanziario e volti alla realizzazione delle riforme strutturali. Queste ultime riguardano il mercato del lavoro, l’istruzione e l’inclusione sociale.

In definitiva, si prospetta l’uso di uno spending power – in alcuni casi accompagnato da regole obbligatorie -. Lo spending power è un tipico strumento che il governo centrale è solito adoperare negli stati federali per condizionare gli altri livelli di governo. A tale proposito, il background report “A European social Union: 10 tough nuts to crack” suggerisce che “ la questione centrale è se i contratti prevedano un approccio bilaterale top-down in cui il Consiglio e la Commissione dettano le politiche a specifici paesi….. oppure prevedano solidarietà rispetto a riforme del welfare state decise di commune accordo”

Tornando al Blueprint, nella fase intermedia (1,5-5 anni), che richiederebbe di cambiare i Trattati, si prevedeva di rafforzare il coordinamento di bilancio, con possibili richieste di modifiche dei bilanci nazionali e veti, di accrescere la capacità fiscale della zona euro per sostenere le riforme strutturali e di estendere al mercato del lavoro e alle politiche sociali il coordinamento e la sorveglianza (a quel punto si potrebbe permettere l’introduzione di strumenti per ridurre i debiti pubblici).

Solo alla fine della terza fase, quando l’UE muoverebbe verso una piena unione bancaria, fiscale ed economica, si dovrebbe arrivare ad “un grado adeguato di legittimità e di responsabilità democratiche del processo decisionale”.

Se il Blueprint continuerà a dettare l’agenda, il revival dell’Europa sociale prospettato dal Rapporto di Friends of Europe dovrebbe inserirsi in questo processo. Ma per rafforzare le politiche sociali è necessario un forte sostegno, e un importante sostegno può venire dalla democrazia. A guardar bene, vediamo che la questione è connessa a quella della costruzione di un’identità europea, ovvero un problema di nation building. Credo che questo aspetto sia vitale per muovere, come chiede il Rapporto, da un “sense of survival” a un “sense of common purpose”.

Da ultimo, vorrei riflettere brevemente sulle proposte del Rapporto che riguardano l’inclusione sociale. Per il sostegno al reddito, il Rapporto considera tra le misure adottabili il salario minimo e i trasferimenti sociali. Ho qualche dubbio sul ruolo del salario minimo nel combattere la povertà – gli stessi dubbi espressi nell’articolo di Frank Vandenbrouke “The case for a European Social Union”. Quanto ai trasferimenti sociali, è noto che tutti i paesi dell’UE hanno una qualche forma di sostegno al reddito universale, eccetto l’Italia e la Grecia. Questi strumenti possono essere rafforzati in alcuni casi, introdotti laddove mancano. Se capisco bene, il Rapporto suggerisce che per i benefici sociali ci si potrebbe affidare alla metodologia dei reference budget. Mi sembra una impostazione condivisibile. I reference budgets sono panieri di beni e servizi, con i relativi prezzi, che rappresentano un dato standard di vita. Ritengo apprezzabile lo sforzo di costruire una metodologia comune per calcolare dei reference budgets internazionalmente comparabili nei paesi membri dell’UE attraverso un progetto pilota finanziato dalla Commissione Europea.

I reference budgets possono rappresentare diversi livelli di standard di vita, ma credo che potrebbero anche essere usati per identificare empiricamente una soglia di povertà basata su un concetto di povertà assoluta. Nell’UE è stato deciso di fare riferimento al concetto di povertà relativa, per alcune buone ragioni – sottolineare una più ampia concezione di esclusione e distribuzione del reddito – e forse anche per qualche altra ragione – evitare di porre l’attenzione sulla presenza di fenomeni di povertà assoluta in Europa e di sottolineare le differenze tra paesi. Queste differenze, che dopo la crisi sono più marcate, potrebbero richiedere trasferimenti tra paesi per assicurare un sostegno economico in grado di contrastare con successo la povertà assoluta. Non vi sarebbe nulla di strano in un sistema federale…..ma l’UE non è un sistema federale e anzi oggi le spinte centrifughe stanno diventando più forti. Dunque la questione è delicata. Si potrebbe usare a questo scopo lo spending power?

In Italia, il federalismo fiscale non è stato attuato a causa della difficoltà di decidere i livelli essenziali dei servizi e il sistema di equalizzazione delle risorse, ovvero per un fondamentale problema distributivo. La questione degli standard sociali rappresenta una sfida difficile anche per l’’Europa. Dunque il Rapporto solleva molte importanti questioni, più di quanto non appaia ad un primo sguardo. Di questo non possiamo che essere grati.

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