Le politiche di austerità nei paesi mediterranei

Massimo D’Antoni e Gianluigi Nocella esaminano le politiche economiche raccomandate dalle istituzioni sovranazionali per i paesi del Sud Europa e sostengono che i dati disponibili non permettono di considerare la mancanza di disciplina fiscale quale causa rilevante della crisi dei debiti sovrani. Pertanto, i piani di riforma lanciati per farvi fronte, tutti concentrati su forti riduzioni della spesa pubblica, non appaiono giustificati. Al contrario, essi sono in continuità con i percorsi di riforma intrapresi prima della crisi che, sotto diversi aspetti, hanno contribuito a determinarla.

L’adozione delle politiche di austerità ha fatto leva su una precisa interpretazione della crisi che ha investito i paesi cosiddetti “periferici” dell’eurozona: quella per la quale alla radice delle loro difficoltà vi fosse la scarsa disciplina fiscale dei rispettivi governi.

Al successo di questa ricostruzione ha certamente contribuito la Grecia, caratterizzata effettivamente da un livello di debito piuttosto elevato oltre che da conti pubblici non esemplari e, soprattutto, poco trasparenti. Queste “deficienze” erano, però, presenti in misura molto minore in Portogallo e in Italia, e risultavano del tutto assenti in Spagna e Irlanda. Alla vigilia della crisi il rapporto debito/PIL eccedeva il limite del 60% soltanto in Grecia (107,4%) e in Italia (99,7%) – dove, comunque, era ben al di sotto del livello raggiunto nel 2000 –, in Irlanda, invece, esso era pari al 24% e in Spagna al 35,5%. Quanto al deficit di bilancio (indebitamento netto), tranne che in Grecia (dove raggiungeva un preoccupante 6,7%), esso era ovunque sotto controllo: in Italia era all’1,5%, in Portogallo al 3,2%, cioè appena sopra il limite di Maastricht, mentre Spagna e Irlanda risultavano addirittura in avanzo.

Il dato che accomunava i paesi periferici al deflagrare della crisi finanziaria era un altro: l’altezza dell’indebitamento privato che raggiungeva punte particolarmente elevate in Irlanda, Portogallo e Spagna. Ma analizziamo meglio la situazione.

L’adozione di una politica monetaria uniforme in paesi con strutture economiche diverse, nonché la convergenza dei tassi di interesse, determinata dall’illusione che l’unione monetaria avesse annullato i differenziali di rischio tra i paesi, avevano indotto un afflusso di capitali dal “centro” dell’area dell’euro verso i paesi periferici. La disponibilità di capitali, invece di finanziare investimenti produttivi, da un lato, aveva alimentato consumi e investimenti immobiliari, con squilibri crescenti della bilancia dei pagamenti e, dall’altro, attraverso la spinta inflazionistica, aveva portato ad un apprezzamento del cambio reale, con il risultato di compromettere la competitività dei paesi interessati e di rendere difficile la correzione degli stessi squilibri. Il deficit e l’afflusso di capitali nei paesi periferici erano peraltro lo specchio delle politiche di contenimento salariale e di compressione dei consumi messe in atto dall’economia più forte dell’area: anche attraverso decise riforme nel mercato del lavoro, la Germania era riuscita a frenare la crescita dei salari, tenendola ben al di sotto di quella dei paesi partner e a trarre così beneficio dalla domanda di beni nei paesi periferici (che in parte era finanziata dagli stessi capitali tedeschi).

La crisi debitoria del 2010-2011 può essere ben descritta come un caso di sudden stop, cioè una brusca contrazione nel flusso internazionale di capitali che costituisce un fenomeno tipico delle economie emergenti indebitate in valuta estera (l’adesione alla moneta unica, di cui nessun paese aderente ha il controllo, può essere in effetti accostata al fenomeno della “dollarizzazione” di molti paesi emergenti). Ciò che la crisi ha in effetti rivelato è la debolezza dell’architettura della moneta unica. Nel definire le regole di funzionamento dell’unione monetaria l’unica preoccupazione era stata quella di limitare il rischio derivante dai bilanci pubblici, dando implicitamente per scontato che i mercati privati fossero in grado di autoregolarsi e garantire in modo autonomo un esito efficiente.

Dunque, la crisi non è dovuta a una finanza pubblica poco disciplinata, bensì, all’architettura stessa della moneta unica; per questo, appare ben poco giustificata la scelta di farvi fronte con politiche generalizzate di consolidamento fiscale, le cosiddette politiche di austerità.

Nella scelta di tale linea di azione ha senz’altro giocato un ruolo rilevante la percezione della crisi prevalente in Germania, paese creditore e in parte protetto dagli effetti della crisi dal vantaggio di competitività conquistato nei primi anni di adozione della moneta unica. Il rifiuto, almeno nella fase iniziale, di trattare la crisi come crisi sistemica e l’insistenza sull’idea che fosse compito dei paesi colpiti risolvere le rispettive situazioni di crisi debitoria ha fatto sì che l’intero costo dell’aggiustamento si scaricasse sui paesi in deficit.

Rilevante è stata anche la convinzione di molti economisti e policymaker che per avviare la ripresa fosse sufficiente recuperare la fiducia degli investitori attraverso una rigida disciplina di bilancio. La quintessenza di questa visione era rappresentata dalla tesi della contrazione fiscale espansiva, secondo la quale, contrariamente a quanto previsto dall’analisi macroeconomica tradizionale, una riduzione decisa nella spesa pubblica, modificando le aspettative degli investitori sulle imposte future, avrebbe ristabilito un clima di fiducia favorevole alla ripresa del consumo e dell’investimento privato.

In un momento di debolezza della domanda globale e con la politica monetaria già schiacciata su tassi d’interesse minimi, i governi e le istituzioni europee hanno di fatto affrontato una crisi determinata da un’insufficienza strutturale di domanda con politiche dal lato dell’offerta. L’esito è stata una compressione del reddito disponibile di larghe fasce della popolazione con riflessi negativi sulla domanda aggregata e sui prezzi che hanno determinato tendenze deflattive generalizzate, quindi un aggravamento delle condizioni della finanza pubblica.

Se, da un lato, si fatica a rinvenire una coerenza tra la risposta di policy e la natura della crisi, dall’altro, esaminando nel dettaglio le politiche adottate nei paesi periferici e, in particolare, in quelli mediterranei salta all’occhio la loro continuità con quanto veniva raccomandato anche prima della crisi.

Si tratta, cioè di interventi di riforma del mercato del lavoro in direzione del decentramento contrattuale e dell’indebolimento delle tutele contro il licenziamento, di riduzione della spesa pensionistica, di contenimento (se non addirittura di contrazione) delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, di aumento della compartecipazione alle prestazioni sanitarie. Tutto questo si era già visto prima della crisi e caratterizzava le “raccomandazioni” che le istituzioni internazionali solevano rivolgere ai paesi del Sud Europa.

Tali interventi trovavano spesso giustificazione nelle debolezze, reali o presunte, del sistema di welfare e delle relazioni industriali di questi paesi. In particolare, elementi peculiari di tale giustificazione erano:
A) Un’incidenza elevata della spesa pensionistica, imputabile ad un’eccessiva generosità, sia in termini di consistenza del trasferimento che di requisiti di accesso. Tale generosità, che risponde all’esigenza di garantire una copertura forte dal rischio di esclusione sociale in età avanzata, si traduce in aliquote contributive elevate e viene spesso considerata una delle cause del basso tasso di attività sul mercato del lavoro, inferiore rispetto a quello dei paesi anglosassoni o continentali.
B) Una legislazione del lavoro orientata alla protezione del posto di lavoro e a permettere continuità delle carriere, con limitazione della flessibilità in uscita. Le critiche si concentrano sugli effetti in termini di segmentazione del mercato del lavoro, con una divaricazione tra insider (i lavoratori a tempo indeterminato cui si applica l’insieme delle tutele previste dalla legislazione sul lavoro) e outsider (i lavoratori “atipici”), che scarica in maniera sproporzionata il costo delle fluttuazioni economiche su questi ultimi. L’orientamento prevalente nell’ultimo trentennio spinge per una soluzione del problema della segmentazione attraverso un aumento generalizzato della flessibilità.
C) Un sistema di relazioni industriali basato su meccanismi di contrattazione collettiva centralizzata, in cui la rappresentanza e la tutela degli interessi di categoria sono espresse dalle sigle sindacali più rilevanti a livello nazionale. La contrattazione decentrata ha un peso modesto e non incide su aspetti essenziali del rapporto di lavoro. Questo modello tende ad assicurare standard lavorativi e retributivi uniformi, limitando disomogeneità rilevanti nel trattamento (non solo economico) dei lavoratori a livello territoriale o aziendale.

Come detto, la necessità di intervenire a correzione di queste caratteristiche – considerate punti di debolezza e motivo di scarsa competitività di questi paesi – già ben prima della crisi era parte delle raccomandazioni delle principali istituzioni internazionali nonché, in buona misura, dell’agenda dei governi degli stessi paesi. Ciò che la crisi ha determinato è stata semmai una maggiore spinta politica a mettere in atto tale agenda. Per Grecia e Portogallo (rispettivamente nel 2010 e 2011) e infine anche per la Spagna (nel 2012) la spinta è venuta dall’adesione a programmi di assistenza finanziaria, che hanno comportato la definizione di accordi vincolanti come condizione per l’accesso ai finanziamenti internazionali; nel caso dell’Italia si è trattato di condizionamenti di carattere più informale ma non meno efficace, visto che all’adozione di adeguate “riforme strutturali” è stato condizionato in modo esplicito il sostegno al corso dei titoli di stato da parte dalla BCE nel corso della crisi debitoria dalla fine del 2011.

Più che alle necessità poste dalla crisi, le riforme di struttura e le politiche di “austerità” tese a ridurre la spesa pubblica hanno dunque risposto ad un obiettivo di più lungo periodo, presente a partire almeno dagli anni Novanta. Nella definizione di tale obiettivo si sono sovrapposte le intenzioni di chi, almeno stando a quanto dichiarato, puntava a modernizzare il welfare mediterraneo rendendolo più simile al più efficiente ed inclusivo welfare nordico, con quelle di chi semplicemente identificava la modernizzazione con un ridimensionamento della spesa sociale. Ma è quest’ultimo l’esito che sembra alla fine aver prevalso.

È forse prematuro tentare una valutazione degli effetti complessivi delle riforme attuate, ma i dati disponibili presentano un quadro molto preoccupante. Basti a questo riguardo considerare l’evoluzione di alcuni indicatori (di fonte Eurostat) quali la percentuale di popolazione in condizioni di grave deprivazione materiale (definita come difficoltà di accesso ad un insieme di beni e condizioni essenziali; figura 1), la percentuale di minori in famiglie in cui nessuno lavora (figura 2) e la percentuale di NEET (giovani non occupati e non impegnati in attività di istruzione o formazione; figura 3).

In conclusione, le politiche messe in atto per fare fronte alla crisi dell’Eurozona non si differenziano da quelle realizzate o raccomandate nei due decenni precedenti la crisi e auspicano riforme della stessa natura. Si tratta di riforme che hanno peggiorato la distribuzione del reddito con la conseguenza di indebolire la domanda interna e di accrescere la fragilità finanziaria del settore privato. Tutto ciò non ha impedito – anzi, con ogni probabilità, ha contribuito ad alimentare – gli squilibri che sono alla base della crisi stessa. Queste riforme hanno aggravato la posizione di finanza pubblica dei paesi in crisi e hanno imposto costi sociali molto elevati ad ampie fasce della popolazione, compromettendo seriamente le prospettive di crescita future per molti anni a venire. Continuare su questo sentiero può essere un errore drammatico.

Figura 1. Popolazione in condizioni di grave deprivazione materiale

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Figure 2. Minori in famiglie in cui nessuno lavora

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Figura 3. Giovani non occupati e non impegnati in attività di istruzione o formazione (NEET)

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