Le liberalizzazioni della Cina, le speranze dell’Occidente e l’euforia dell’ubriaco

Elisabetta Magnani si occupa della recente svalutazione dello yuan cinese collocandola nel contesto delle riforme dirette a liberalizzare i mercati finanziari di quel paese e delle speranze che quelle riforme hanno alimentato in Occidente e nei paesi più vicini. Dopo avere illustrato le ragioni della scelta delle autorità cinesi, Magnani si sofferma sul rapporto tra la svalutazione e la liberalizzazione finanziaria cinese, richiamando l’attenzione sui rischi che essa comporta anche per il resto del mondo.

Le politiche di liberalizzazione della Cina, oramai da molto tempo, sono considerate un fattore molto importante per la crescita dell’economia mondiale e addirittura essenziale per il destino dell’area asiatica, in particolare dell’Australia.

Come è noto, le riforme dirette alla liberalizzazione economica dell’India e della Cina iniziarono nella metà degli anni 80. Più di recente le annunciate politiche di liberalizzazione finanziaria hanno suscitato molto interesse e grandi speranze, soprattutto in un paese come l’Australia che ha fondato la crescita degli ultimi decenni sull’export di materie prime come il carbone e che ora, in un mutato contesto, si vede costretto a cercare nuove fonti di accumulazione. La sua speranza (che è anche quella di altri paesi) è di riuscire a mantenere i tassi di crescita degli anni ’90 esportando servizi bancari e finanziari sotto forma di consulenze, “joint ventures” e partnership (R. Maddock, “China is liberalising its banks, and that’s good news for Australia ”, 2015). La recente decisione della Cina di svalutare la propria moneta rischia, però, di far naufragare queste speranze e può preludere a uno scenario molto diverso, anche per l’economia mondiale.

In queste note si cercherà di illustrare il contesto nel quale è maturata la decisione di svalutare e i problemi dell’economia cinese che possono giustificarla; si cercherà altresì di individuare i suoi obiettivi e i suoi probabili effetti sulle economie, vicine e lontane.

Può sembrare paradossale che la liberalizzazione dei mercati finanziari cinesi, nella quale erano riposte molte speranze, inizi con la decisione di pilotare la svalutazione del renmimbi (o Yuan) nei confronti del dollaro americano in una misura superiore al 4%. Questa mossa rischia di far naufragare il sogno occidentale del salvataggio dell’economia mondiale da parte della Cina.

Ma chiediamoci, innanzitutto, quali siano state le ragioni della svalutazione dello Yuan. Come appare chiaro dal grafico che segue da tempo la valuta cinese tendeva a deprezzarsi nei confronti di quelle dei suoi maggiori partner commerciali:
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Tenendo conto di ciò e dell’andamento delle esportazioni, è diffusa la convinzione che la svalutazione dello Yuan sia stato una tentativo di contrastare la tendenza dei tassi di crescita cinesi a declinare (in effetti da valori superiori al 10% del 2009-10 si è oggi scesi al 7%) stimolando le esportazioni che, peraltro, si stanno sempre più orientando verso paesi emergenti come l’India. Ciò risulta abbastanza chiaramente dal grafico sottostante che mostra, nel quadrante superiore, le principali destinazioni delle esportazioni cinesi nel 2014 e, in quello inferiore, i corrispondenti tassi di crescita. Come si vede, Stati Uniti e Unione Europea restano le destinazioni principali, tuttavia nello scorso anno i tassi di crescita delle esportazioni cinesi verso queste due grandi aree sono stati inferiori a quelli relativi all’India e a Taiwan.
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La seconda ragione che ha condotto alla decisione di svalutare il renmimbi è probabilmente il tentativo di sostenere, indirettamente, il mercato azionario; Infatti, intensificando le esportazioni delle imprese cinesi, la svalutazione rafforzerebbe il sistema produttivo cinese, e di riflesso, il mercato azionario che fornisce finanziamenti a queste imprese. In questa ottica, sarebbe il sistema finanziario il vero obiettivo della svalutazione. Dai mercati azionari, che di recente hanno palesato la loro fragilità perdendo il 32% del proprio valore in pochi mesi, dipendono i finanziamenti concessi alle imprese, di cui queste ultime hanno bisogno per effettuare investimenti e per introdurre innovazioni tecnologiche. E’ per questa ragione che, ad esempio, Jonathan Anderson dell’Emerging Advisors Group sostiene che la svalutazione dello yuan non deve essere interpretata come l’inizio di una guerra valutaria volta a sostenere le esportazioni: in realta’ se questo fosse il vero scopo la svalutazione avrebbe dovuto essere ben maggiore (Ng J. et al ., Agosto 2015).

Certo l’Australia, e soprattutto le 5000 imprese australiane che esportano in Cina, hanno accolto la svalutazione dello yuan con qualche preoccupazione, appena attenuata dalla speranza che la crescita dell’economia cinese continui a sostenere le loro esportazioni. D’altro canto, il deprezzamento frenerà gli investimenti cinesi nel settore immobiliare australiano. Considerato che gli investimenti cinesi ammontavano a $8,7 miliardi di dollari australiani nel 2013-14, la caduta della valuta cinese forse sarà una boccata d’aria per le giovani coppie che, in città come Sydney e Melbourne, non riescono ad acquistare la prima casa a causa della “bolla” immobiliare.

A livello di analisi strutturale, molti economisti sostengono che l’obiettivo che si spera di raggiungere con la svalutazione dello yuan è il suo allineamento alle aspettative dei mercati valutari. Come ha di recente argomentato il Fondo Monetario Internazionale (Agosto 2015), la svalutazione è il segnale di un’ampia liberalizzazione dei mercati finanziari in atto nell’economia cinese che è in procinto di cambiare radicalmente il complesso sistema monetario cinese ed i suoi muri portanti: la gestione centralizzata del mercato valutario, lo stretto controllo dei movimenti di capitale e un mercato del credito iper-regolato. Secondo Guonan Ma ( Ottobre 2014), ci sono almeno tre fattori istituzionali che rendono la strategia di liberalizzazione della valuta prioritaria e tale da essere perseguita a monte di ogni riforma dei mercati finanziari e creditizi.

In primo luogo, la gran parte del credito interno è diretta alle grandi imprese pubbliche che ancora non hanno vincoli di bilancio stringenti, essendo la loro sopravvivenza di fatto garantita dal governo. Le decisioni di queste imprese non rispondono a segnali di mercato, e ciò limita la capacità dei mercati finanziari e creditizi di allocare il capitale in modo più efficiente attraverso il tasso d’interesse.

In secondo luogo, la Cina attualmente è sprovvista di un sistema di assicurazione dei depositi delle famiglie, diversamente da tutti i paesi occidentali che l’hanno introdotta subito dopo la Grande Depressione degli anni ’30 del secolo scorso. La liberalizzazione del mercato del credito inasprirà la competizione tra gli istituti finanziari e creditizi con conseguente innalzamento del rischio di bancarotta e con possibili pesantissime ricadute sui risparmiatori.

La terza ragione sta nella complessità del processo di capitalizzazione dell’economia cinese. In questo senso, per molti la vera sfida non sta tanto nelle intenzioni annunciate, buone o cattive che siano, ma nell’impegno metodico a combinare le riforme legislative (affinché questi mercati finanziari siano regolati da regole trasparenti) con meccanismi che potenzino l’applicazione delle nuove regole e con una nuova cultura del business, più orientata a accettare le regole del mercato (M.K. Dey, C. Wang, Development and Financial Reform in Emerging Economies, Cap. 11, 2014). Non è facile prevedere quanto tempo richiederà questo complesso processo. L’esperienza passata sembra suggerire che gli andamenti possono essere tutt’altro che uniformi nel tempo. Ad esempio, come mostra chiaramente il grafico che segue, dopo la loro apertura con una manciata di titoli nel 1991 i mercati azionari di Shanghai e di Shenzhen conobbero una crescita modesta fino al 1997. Successivamente, però, si ebbero tre fasi di accelerazione: la prima in coincidenza dell’assoggettamento di Hong Kong al governo cinese proprio nel 1997, la nel 2000 in corrispondenza dell’entrata della Cina nel World Trade Organization e, infine, la terza che iniziò nel 2005 è terminò quando l’economia mondiale si contrasse in seguito alla Crisi Finanziaria Globale del 2007-2008.
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Heather Long (”China lost its economic swagger just before US summit ”, Settembre 2015) e molti altri ritengono che la Cina abbia davanti a sé una trasformazione strutturale mai sperimentata prima: il passaggio da un’economia basata su esportazioni a basso costo, fondamentalmente permessa dall’abbondanza del lavoro, ad un’economia la cui crescita dipende dall’innovazione, dal capitale umano e dalla crescita della sua domanda interna. In questo senso e’ possibile capire l’importanza di riforme che coinvolgono i mercati che dovranno fornire le risorse finanziarie necessarie per questa trasformazione strutturale.

Però, una trasformazione di questo tipo e la finanziarizzazione dell’economia cinese non possono non sollevare preoccupazioni. Sia negli anni 20 che in tempi più recenti, la liberalizzazione dei mercati finanziari ha preceduto fasi di grande instabilità nell’accumulazione capitalistica e ha favorito una riallocazione delle risorse (e in particolare del capitale umano) che ha penalizzato diversi settori socialmente utili (T. Philippon, A. Reshef in Quarterly Journal of Economics, 2013). Grazie anche a questa riallocazione in molti paesi, e in particolare in Usa, è cresciuto il peso del settore finanziario come generatore di PIL (è questa la definizione piu’ diffusa di “finanziarizzazione”) e si è affermato un “capitalismo speculativo”, portatore di grande instabilità, come hanno sostenuto H.P. Minsky (in Challenge, 1977), J.K. Galbraith (A Short History of Financial Euphoria , 1994), G. Krippner (in Socio-Economic Review, 2005), G. Epstein  (2013) e molti altri). Un ulteriore conseguenza sono stati i profondi cambiamenti nella cultura d’impresa che hanno favorito tagli all’occupazione, ai salari e anche agli investimenti (W. Lazonick, M. O’Sullivan, in Economy and Society, 2000).

I recenti fatti asiatici hanno reso il mondo più consapevole della fragilità dell’economia cinese e stanno minando la speranza che quest’ultima possa in qualche modo “salvare” l’economia mondiale. Purtroppo, come hanno dimostrato la recente Crisi Finanziaria Globale e, ancora prima, la Grande Depressione degli anni ’30, i nostri sistemi economici necessitano di dosi di ottimismo straordinario per funzionare bene. In questo contesto, aperture di riflessione critica e attenzione per le lezioni che vengono dal passato possono apparire come un tentativo di boicottare le “magnifiche sorti e progressive” e di nuocere a un ottimismo che rischia, però, di assomigliare sempre più all’euforia dell’ubriaco.

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